I MIGRANTI ITALIANI NEL TEATRO ARGENTINO PARLAVANO COCOLICHE (MIX DI DIALETTI ITALIANI E SPAGNOLO), di Grazia Fresu

4 conventillo d'epoca

Alla fine della seconda metà del XIX secolo, una forte ondata migratoria partì dall’Italia verso l’Argentina, richiamata da una politica di popolamento delle numerose terre incolte, il cui scopo era lo sviluppo dell’attività agricola e di allevamento, per cui le braccia di coloni europei, in una terra poco popolata, erano di assoluta necessità, secondo la formula “civiltà o barbarie” di Domingo Faustino Sarmiento – presidente della Nazione dal 1868 al 1874, politico, scrittore, giornalista e uno dei più importanti statisti argentini, cui si deve un’efficace azione a favore dell’educazione pubblica e del progresso scientifico e culturale del suo Paese.

L’emigrazione italiana fu uno dei fattori principali, se non il più importante, del fenomeno di sovrapopolazione urbana che si registrò in Argentina in quegli anni. Lo stimolo alla colonizzazione europea di braccia da lavoro ebbe inizio nel 1853, quando la Costituzione promulgò l’impulso all’immigrazione e nel 1876, con la legge Avellaneda per cui si creò il Dipartimento di Immigrazione. Lo stesso Presidente della Nazione, Nicolás Avellaneda, che diede il nome alla legge, favorì ancor più l’arrivo di coloni, offrendo in vendita a prezzi molto bassi le terre della Pampa, del Chaco e della Patagonia, inviando agenti di contrattazione che viaggiarono per tutta Europa lodando le qualità del paese sudamericano e convinsero migliaia di europei, tra cui numerosissimi gli Italiani, a imbarcarsi verso una terra che prometteva loro un migliore avvenire.

1 gli emigrantiI drammatici viaggi verso questa terra promessa sono raccontati nelle molte testimonianze raccolte di coloro che vissero quell’esperienza, così come è raccontata la delusione di tanti nel rendersi conto che parte delle terre promesse erano spesso infertili deserti inadatti a qualsiasi attività agricola. Molti tornarono indietro, ma molti altri abbandonarono le zone rurali per trasferirsi in centri urbani come Rosario e Buenos Aires, che accrebbero in pochi anni a dismisura il numero dei residenti.

Nella prima fase migratoria della fine dell’Ottocento una massa di contadini, per lo più parlanti dialetti regionali italiani, spesso analfabeti, si riversò nelle città alla ricerca di un’occasione di sopravvivenza. La stessa scarsa conoscenza della propria lingua d’origine rendeva difficile alla maggioranza poter accedere alla conoscenza della lingua del paese che li ospitava. Ma la necessità di comunicare li portò, soprattutto a Buenos Aires, dove gli immigrati costituiranno tra il 1880 e il 1930 più del 40% della popolazione, a forgiare un gergo chiamato cocoliche, che mischiava lo spagnolo con diversi dialetti italiani del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo, del nord e sud d’Italia. In esso le forme lessicali italiane filtrate dall’uso del dialetto si alternavano con quelle del castigliano attraverso una prossimità filogenetica tra i due idiomi che produceva alterazioni fonematiche e fonetiche.

Il cocoliche appartiene a un gruppo di lingue chiamate pidgin, secondo il termine inglese che ha designato questi idiomi semplificati, creati e usati dagli integranti di una comunità che non condividono la lingua materna né ne hanno imparato un’ altra ad un livello sufficiente per usarla in luogo della propria. Nel corso della storia molte volte è stato utilizzato il pidgin, come un codice semplificato che non permette una comunicazione complessa e precisa, dato che non esiste una conoscenza adeguata di entrambe le lingue da nessuna delle due parti, ma certamente consente uno scambio primario indispensabile tra le due comunità in contatto. Le sue strutture sono costruite in modo arbitrario, senza tener conto dei due codici linguistici che si incontrano, ma solo per la somiglianza sonora di alcuni termini che spesso hanno significati completamente differenti.

4 conventilloL’uso di questo gergo era quasi esclusivamente orale fino a quando fu utilizzato dagli autori teatrali argentini per caratterizzare il personaggio dell’immigrante italiano che viveva nei conventillos della capitale. I conventillos erano i luoghi dove si ammassavano gli emigranti, una volta case signorili, abbandonate per la febbre gialla e i cui ricchi proprietari si erano spostati in zone più salubri della città e approfittavano dell’ondata migratoria per ricavarne reddito, affittando ad intere famiglie stanze che si affacciavano quasi sempre su un cortile comune, con pochi servizi per tutti.

Troviamo il cocoliche nelle varie forme del teatro popolare rioplatense, come il circo criollo (circo creolo) e il sainete, dove compare il personaggio di un italiano del sud, a cui è demandata la parte comica dell’opera, il cui nome è Cuccoliccio.

Antonio Cuccoliccio era uno dei tre milioni di emigranti italiani che sbarcarono nel porto di Buenos Aires tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, epoca in cui l’Argentina era il granaio del mondo e uno dei paesi più ricchi.

Poco dopo il suo arrivo, Cuccoliccio trovò lavoro nel circo dei fratelli uruguaiani José e Jerónimo Podestá, pulendo e accudendo gli animali. Il suo modo di parlare, nel quale si mischiavano parole italiane e castigliane, un giorno richiamò l’attenzione di uno degli attori comici che lavorava nel circo, Celestino Petray, che entrò in scena imitandolo e ottenendo subito un grande successo di pubblico. Lo racconta lui stesso nelle sue memorie, dal titolo Medio siglo de farandula (Mezzo secolo di Compagnia Comica). Nessuno avrebbe potuto immaginare in quel momento quanta strada il cocoliche avrebbe fatto, fino ad entrare addirittura nel Dizionario della Reale Accademia di Spagna già dall’edizione del 1927.

Gli storici del teatro affermano che il circo creolo, in cui venne alla luce il cocoliche teatrale, fu il primo spettacolo che ridefinì l’identità sudamericana, lasciando da parte l’imitazione delle arti provenienti dall’Europa ed ebbe origine nel XVIII secolo in Argentina e Uruguay. Le sue rappresentazioni sotto un tendone da circo andavano di paese in paese e nella pista circense le opere teatrali, alternate alle abilità degli artisti del circo, avevano il ruolo fondamentale. Il suo primo e più famoso dramma fu Juan Moreira, considerata l’opera fondatrice del teatro rioplatense, scritta dall’argentino Eduardo Gutiérrez, prima come romanzo e poi come dramma, uno dei testi più importanti della letteratura argentina e del romanticismo ispanoamericano; rappresentato per decine d’anni si convertì in uno dei successi più importanti del teatro argentino. Fu portato al cinema per due volte, da Luis José Moglia Barth nel 1948 e da Leonardo Flavio nel 1973.

Rappresenta la storia di un gaucho perseguitato dalla legge, tema che anteriormente aveva trattato José Hernandez nel suo Martín Fierro, poema narrativo in versi, scritto nel 1872, considerato un’opera esemplare del genere gauchesco.

Il poema ha come tema il nazionalismo gauchesco, non tanto in senso patriottico, quanto come orgoglio della propia razza, terra, tradizioni e costumi, per cui il diverso, il differente va rifiutato. E questo diverso è il cittadino e l’immigrante italiano, la cui presenza, vista la potenza dell’ondata migratoria, risulta insopportabile al gaucho senza leggi e ribelle ad ogni imposizione; percepisce lo straniero come un intruso da cui si sente minacciato, soprattutto nella sua libertà sopra un territorio sterminato nel quale poteva vivere fino a quel momento come un nomade e che l’operosità degli immigranti cominciava a trasformare. Chiaramente la tipologia dell’italiano nel poema è mostrata attraverso la parzialità dello sguardo del gaucho che conosce solo la sua pampa e non la città, incapace di immaginare e comprendere le tappe di quella prolifica immigrazione italiana, fatta non solo di contadini analfabeti ma successivamente anche di artigiani, tecnici, operai specializzati, professori, intellettuali, artisti che impulserà fortemente il progresso del paese in tutti i suoi aspetti, economici, culturali, sociali.

L’altra forma di teatro popolare, il sainete, nato in Spagna, è un dramma giocoso in un solo atto che anticamente costituiva un intermezzo o la chiusura di un’opera più importante. Ha precise caratteristiche comiche, ambienti e personaggi popolari, rappresentati in modo realistico e che per questo ci danno testimonianza di come vivevano e pensavano le classi basse in una determinata società. Con il passare del tempo il sainete incorporò elementi di altri generi teatrali come la zarzuela (una forma di teatro musicale sorto in Spagna, nel quale si distinguono parti strumentali, parti vocali e parti parlate) e il melodramma, combinando in scena umorismo, moralità, canti e balli. Alla fine del XIX secolo questo sottogenere teatrale attraversò l’oceano e si assestò nelle terre del Río de la Plata dando origine al grotesco criollo (grottesco creolo), simile al sainete nell’uso dell’ironia e nell’impronta folklorica, ma con un carattere più drammatico e riflessivo, rappresentando le reali condizioni di vita delle masse popolari in terra sudamericana e il loro anelito a unirsi nella comune ricerca di un’identità nazionale, cosa particolarmente difficile in una comunità ibrida come quella argentina.

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Nel sainete la presenza dell’immigrato italiano e del suo cocoliche, assume una rilevanza significativa. Mentre i romanzi argentini dell’epoca sull’emigrazione cadono spesso in rappresentazioni manichee, la rappresentazione del conflitto tra nativi e emigranti nel teatro tende a mostrare il crogiolo di etnie, un mondo dove i personaggi, nonostante tutto, riescono a risolvere i conflitti e a convivere e dove la voce dello straniero ha più possibilità di essere ascoltata. Il conflitto e l’integrazione sono le due facce della stessa moneta e il cocoliche, come tentativo dell’emigrante italiano di comunicare, non importa se con risultati approssimati, suscita umorismo, un elemento essenziale che scioglie nodi e rende più facile la convivenza per tutti. A differenza delle opere di teatro tradizionali, dove il tema dell’incontro tra nativi e stranieri mostra la volontà di difendere una tesi a favore o contro, l’obiettivo del sainete è rappresentare semplicemente come si mischiano personaggi di ogni indole e origine, chiamati nello spazio limitato di un conventillo a mostrarsi nell’ineluttabilità di quell’esperienza che li mette a confronto e che in quel confronto fa riflettere e insieme diverte il pubblico.

Tra i molti sainete di quell’epoca citiamo Don Pascual di Pardo e Prieto (1894), Los disfrazados (I mascherati) di Carlos M. Pacheco (1906) e Los inquilinos (Gli inquilini) di Nemesio Trejo (1907). Ma certamente uno degli autori fondamentali del genere, scrittore di folgoranti dialoghi in cocoliche, fu Armando Discépolo. Nato a Buenos Aires, il 18 settembre del 1887 e morto nella stessa capitale l’8 gennaio del 1971, fu un regista teatrale e drammaturgo argentino, creatore del grotesco criollo e autore di varie opere classiche del teatro argentino como StéfanoMustafáEl organito e Babilonia, tra le altre. Era fratello del poeta e compositore di tanghi Enrique Santos Discépolo. Figlio di un immigrante italiano oriundo di Napoli, Santo Discépolo, che divenne direttore d’orchestra, e di Luisa De Lucchi, argentina di origine genovese, a soli 23 anni vide andare in scena una sua opera Entre el hierro (Tra il ferro) con una delle compagnie teatrali più famose d’Argentina, quella di José Podestá. Il successo fu immediato e da quel momento il talento di Discépolo produsse opere a getto continuo. Discépolo fu un autore radicato nell’estetica realista, molto popolare ma mai commerciale. I suoi primi scritti teatrali furono sainete, ma man mano che le tematiche trattate si approfondivano, appare il grottesco, che non è semplicemente il comico.

Un altro grande scrittore e drammaturgo argentino, Roberto Arlt, nelle sue Aguafuertes porteñas: cultura y política, (Acquaforti portegne: cultura e politica) Buenos Aires, Losada del 2003 e nel suo saggio Discépolo, Armando y Enrique Santos Discépolo del 1962, ci dice della sua opera: “… la mayor parte del público ve lo cómico de la obra y no lo trágico. Porque, para mí, esta es una tragedia. Una tragedia en que lo bufo es el claro fondo donde se animan estas almas ruines y… simpáticas al mismo tiempo”1. Arlt mette in evidenza la costruzione dei personaggi discepoliani e principalmente questo miscuglio, in apparenza incoerente, tra meschinità e simpatia e, d’altro canto, risalta il fondo buffonesco come cornice del tragico. L’inseguimento di sogni impossibili e il successivo inevitabile fallimento, così come la coesistenza di tragico e comico nella costruzione dei personaggi e degli ambienti, sono i pilastri del valore estetico delle produzioni discepoliane. Puntualmente, nella costruzione dei personaggi troviamo a farla da protagonista il concetto di “identità culturale”.

Come ci dice il critico letterario Jorge Dubatti nel suo Tensiones entre localización y globalización y figuras de identidad nacional en el teatro de Buenos Aires (1983-2001) (Tensioni tra localizzazione e globalizzazione e figure di identità nel teatro di Buenos Aires):

Il teatro non illustra una concezione del mondo, ma la traduce in accordo con il regime di funzionamento del suo linguaggio (…) Il teatro funziona come una macchina estetica di traduzione dell’esperienza della cultura con la quale si vincola il soggetto di produzione (…) in quanto struttura narrativa, funziona in questo modo come uno spazio di creazione di identità culturale…

A partire da questa premessa, risulta possibile pensare i testi drammatici di Armando Discépolo come racconti di identità culturale, dal momento che ognuno, a suo modo, “parla” di un’ epoca dove il fenomeno migratorio cambia per sempre la storia dell’Argentina e soprattutto quella di Buenos Aires. In questo incrocio di genti e lingue l’immigrante povero e il criollo povero si trovano a condividere la stessa sorte, i patimenti economici in un mondo ingiusto e disuguale. La loro vita miserabile è talmente intollerabile che li conduce inevitabilmente all’evasione, alla fuga dalla realtà attraverso le vie della fantasia e dell’ immaginazione. Sono esseri che si alienano autoingannandosi, creandosi false immagini di se stessi, correlato immediato del contesto sociale dell’epoca. Il fallimento immigratorio di chi è stato preso all’amo del “trovare l’America” in terra argentina e si è ritrovato invece a vivere negli affollati conventillos, misero e inadattato, è evidente nella maggior parte delle opere di Discépolo. Alle condizioni di un profondo disagio economico, di uno smarrimento di fronte a una realtà lontana dalla propria, si somma la crisi esistenziale di esseri umani che nella loro condizione di miserabilità rischiano di perdere la loro umanità, incapaci di realizzare i propri sogni.

I procedimenti drammatici di Discépolo sono di straordinaria efficacia per raccontare questa perdita di sé che le due comunità, argentina e italiana, temono nel dolore della lotta quotidiana, come lo sono incisivi e efficaci i suoi dialoghi dove il cocoliche parlato dagli emigrati suscita insieme il sorriso e a tratti il rifiuto nel nativo, ma è anche il segno di un disperato ingegnoso tentativo di connessione e integrazione degli italiani con la terra e la comunità che li ospita. Il teatro di Discépolo pur tendente al realismo ha assorbito i principali meccanismi del grottesco italiano. Il grotesco criollo, ricordiamo, sorge a partire da un approfondimento del sainete portegno, uno stile nutrito di folklorismo. Discépolo prende dal grottesco italiano principalmente la tensione tra il volto e la maschera, ossia, lo scontro dell’Io profondo con la realtà esterna che è una società in piena crisi di valori etici e estetici, dove, come dice Claudia Kaiser Lenoir, studiosa del teatro argentino, il potere impersonale e sinistro che annulla il potenziale umano è essenzialmente il sistema economico ingiusto. Il teatro di Armando Discépolo nella costruzione dei suoi personaggi funziona come un racconto di identità culturale, in quanto impiega, secondo i termini del filologo e critico letterario tedesco Erich Auerbach, la “tecnica del riflettore”, che consiste nell’ illuminare potentemente una piccola parte di un insieme più ampio. In questo modo attraverso l’analisi acuta di un microcosmo, tutto il contesto si rivela. E quello che appare è la visione estetica e ideologica di un mondo e quel mondo è puntualmente la Buenos Aires delle prime decadi del XX secolo. Discépolo, generalmente inquadrato dentro il realismo non pratica come altri un realismo ingenuo, concepito come mero riflesso del reale. La sua estetica teatrale traduce, non copia. Per questo utilizza l’esagerazione, la metateatralità, l’autoreferenzialità, l’iperbole, l’ironia, la pensonificazione, l’animalizzazione e la scarnificazione di certi personaggi e situazioni, allontanandosi così attraverso il grottesco dall’ingenuità del sainete tradizionale. Crea così uno stile proprio, il grotesco criollo, che diviene uno dei principali stili creativi del teatro e del cinema argentini.

7 BabiloniaNella sua opera Babilonia ci racconta la Buenos Aires della seconda decade del XX secolo: migliaia di emigranti arrivati dall’Europa e già delusi rispetto alla terra promessa che sognavano sarebbe stata l’Argentina, si riversano nella città che offre allo stesso tempo miracoli a pochi e delusioni ai più, costretti a lavori massacranti per un piatto di minestra e un misero tetto sulla testa. Nello scantinato di una casa di “nuovi ricchi”, un gruppo di immigranti disperati, lotta per scappare da quel “basso” mondo in un patetico quanto inutile affannarsi, per raggiungere il mondo “alto” dove vivono i padroni, anche loro una volta poveri come i loro attuali servi ma che hanno fatto fortuna. Discépolo con il suo impietoso sguardo ci mette in questo oscuro mondo sotterraneo, in questa cucina degli Inferi dove tutto si mischia e si confonde nel tentativo di cambiare il proprio stato sociale. Una visione spietata di quella realtà, non diversa per le sue cause da molte che possiamo vedere oggi, dove la mancanza di scrupoli di un potere economico globalizzato determina la miseria di molti. Si pensi alle ondate migratorie recenti nel nostro paese che sembra aver dimenticato che siamo stati e ancora lo siamo terra di emigranti, vedi i tanti giovani che cercano prospettive fuori dei nostri confini.

E chi lo sa come arrivarono a queste terre? Come clandestini nella stiva di una nave da guerra di illusioni? O forse galleggiando in una bottiglia con un messaggio in cocoliche …Senza classe né madre e affamati di speranza con l’illusione di riempire la pancia della ipocrisia nella terra della carne in umido. I loro sguardi brillanti di malinconia si perdono nella moltitudine di creoli ambiziosi di portare un tozzo di pane ai loro stomaci alienati. Rivalità a qualsiasi prezzo per una Babilonia costruita con sudore, fame e disprezzo per l’altro, quasi come uno specchio di una società disposta a dimenticare il passato. Così si è andata formando, cosmopolita, a forza di volontà per incorporarsi a uno stato che sempre le dà le spalle. La farsa del “Sopra e sotto” come un paracadute anti rischio paese, mentre i padroni tagliano il baccalà i servi aspettano il loro turno”. (dall’opera Babilonia)

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Per dare un esempio dell’uso del cocoliche, citiamo un breve dialogo dell’opera dove intervengono due italiani che lavorano nelle cucine: Cacerola, uno sguattero di 15 anni e Piccione, lo chef napoletano di 55 anni. Ovviamente solo nel testo castigliano è possibile percepire il cocoliche che nella traduzione risulta annullato per ovvi motivi.

CacerolaLo profesó. La vérgine doloratta.

(Il professore, forma reverenziale con cui lo sguattero chiama lo chef. L’espressione giusta in castigliano sarebbe la virgen afligida e in italiano la vergine addolorata).

Piccione (de punta en blanco; gran panza)– Caceró.

(ll corretto termine spagnolo sarebbe cacerola, la casseruola. Didascalia: vestito impeccabilmente; grande pancia).

Cacerola– Hanno visto? (Se mete bajo la mesa)

(Espressione italiana non adeguata per dire “avete visto?”. Didascalia: Si mette sotto il tavolo).

PiccioneQué háceno col pincho?…(China se escurre a su abitación) Cosquiya? Esto es inaudito….Con razone no puede dormir de noche. (A Cacerola hecho un ovillo) Salite de ayí.

(Sarebbe corretto scrivere e pronunciare¿Qué hacen col pinche?”, ossiaChe fate col ragazzotto?”; con “razone” sarebbe in spagnolo con “razón”. La parola “cosquiya” si scrive “cosquilla” e quindi si pronuncia diversamente, significa solletico. “Salite de ayi” significherebbe “Esci da lì”, ma in spagnolo si scrive ahí e quindi si pronuncia diversamente. Didascalie: China scappa nella sua stanza; a Cacerola accucciato come un gomitolo.)

Cacerola– Io no so stato, profesó.

(Espressione italiana che ha solo eliminato la N finale nella negazione e la sillaba finale NO dal verbo “sono”).

Piccione– Cammina, puerco.(No le alcanza con sus puntapiés. A Isabel) Mala entraña. Con razone no come. (A Cacerola) Esce fuori.

(“Cammina” con doppia M è italiano. Mala entrañasignifica “cattiva persona”. Di nuovo “razone” a posto di “razón”. “A ragione non mangia”; “Esce fuori” invece di “Esci fuori”. Didascalie: Non lo raggiunge con la punta delle sue scarpe; A Cacerola).

Altro autore fondamentale del sainete argentino fu Alberto Vaccarezza, nato a Buenos Aires il 1 aprile del 1886 e qui morto il 6 agosto del 1959, che scrisse più di 200 opere tra versi di tanghi, zambas (genere musicale tipico della provincie del Nord argentino), canzoni, poesie, testi teatrali. Gli elementi teatrali da lui usati erano invariabili: lo scenario delle sue opere era quasi sempre un conventillo dove prendevano vita personaggi locali e stranieri, specie emigranti italiani e spagnoli, le collettività più numerose del paese, le donne rappresentavano i due stereotipi dell’immaginario maschile del tempo: le povere e onorate e le altre, le frivole, affascinate dall’asfalto e dalle luci della città e una galleria di nativi con compadritos, atorrantes, pícaros, guitarristas, etc. (bulli, fannulloni, furbi, chitarristi,etc).

3Una delle sue opere più famose e rappresentate fu El conventillo de la Paloma (Il conventillo della Colomba), un sainete festivo in un atto con tre quadri, messo in scena per la prima volta il 5 aprile del 1929 nel Teatro Nacional dalla Compagnia Lamarque-Charmiello. Rappresentato per anni da diverse compagnie teatrali e portato al cinema nel 1936 con la regia di Leopoldo Torres Ríos, questo sainete fu uno dei maggiori successi di tutti i tempi del teatro argentino. ​

L’opera racconta la storia de “La Paloma” (La Colomba), una bella donna che vive in un conventillo e della quale sono perdutamente innamorati il resto degli inquilini. L’opera inizia con un prologo per le dame e i cavalieri del pubblico che dice: “Di nuovo dopo un lungo sonno, con il suo incanto e la sua forza ipnotica, torna il sainete portegno allegro e sentimentale. Come nelle sue notti migliori a ricamare vecchi boccioli e a riavvivare i colori della gamma naturale).”

Descrive inoltre Buenos Aires come “la abnegada” (la abnegata) o la “gran aldea” (il grande villaggio) che diede ospitalità naturalmente a quanti vennero a lei e dopo poco tempo si fusero nel suo crogiolo…così fu come alla luce della torcia, del lavoro e dell’idea, la lontana grande città dei sogni di Cané divenne proficua e opulenta, cosmopolita e bilingue fino ad essere quella che oggi si vede.”

Marcel Cané era un intellettuale portegno che nel suo libro Juvenilia raccontò le sue esperienze giovanili nel Collegio Nazionale di Buenos Aires. Il prologo ci offre una descrizione molto accertata della Buenos Aires di quegli anni.  È ritenuta un classico la poesia di Vaccarezza “Receta para escribir un sainete” (Ricetta per scrivere un sainete), che dice così: “Un cortile di conventillo, un italiano portiere del complesso, uno spagnolo insolente, una donna facile, un furbo, due prepotenti da coltello, un chiaccherone, una passione, scontro, gelosia, discussione, sfida, pugnalata, agitazione, fuga, aiuto, polizia, sipario.” Nella sua opera La comparsa se despide (La comparsa si accomiata) mette in bocca al personaggio di Serpentina questi stessi versi.

E nel suo libro di poesia Cantos de la vida y de la tierra (Canti della vita e della terra) troviamo il poema Un sainete en un soneto (Un sainete in un sonetto), dove dice, parafrasando con umorismo il suo illustre antecedente spagnolo, Juan Ignacio González del Castillo, commediografo nato a Cadice e scrittore di famosissimi sainete: 

“Un soneto me manda hacer Castillo, / y yo, para zafarme de tal brete, / en lugar de un soneto haré un sainete, /  que para mí es trabajo más sencillo. /La escena se representa en un conventillo. / Personajes: un grébano amarrete, / un gallego que en todo se entromete, /dos guapos, una paica y un vivillo. / Se levanta el telón. Una disputa, / se entabla entre el gallego y el goruta, / de la que saca el vivo su completo. / El guapo que pretende a la garaba/ se arremanga al final, viene la biaba / y aquí se acaba el sainete y el soneto.”

Un sonetto mi manda a fare Castillo/ e io, per liberarmi di un tal ceppo,/ invece di un sonetto farò un sainete,/ che per me è più semplice./ La scena si rappresenta in un conventillo./ Personaggi: un italiano zotico e taccagno/ uno spagnolo che si intromette in tutto,/ due guappi, una ragazza nubile e un furbo./ Si alza il sipario. Una lite si intavola tra lo spagnolo e l’italiano,/ dalla quale tira fuori il furbo il suo vantaggio./ Il guappo che ha pretese sulla ragazza/ si rimbocca le maniche alla fine, viene l’assalto/ e qui termina il sainete e il sonetto.”

Nei versi citati le parole che risaltiamo in neretto appartengono al cocoliche e in seguito al lunfardo. Ed è particolarmente evidente qui come il gergo degli emigranti sia poi passato ad essere anche il gergo della malavita portegna che trovava in esso un modo per nascondersi comunicando con un linguaggio incomprensibile alla polizia.

Nel sainete Los escrushantes (I ladri con scasso) Vacarezza mostra la relazione tra immigranti e malavita attraverso il cocoliche utilizzato anche dai delinquenti portegni. In questo idioma alterato che sta producendo il lunfardo parlano i personaggi dell’opera: sullo sfondo della vita delle classi basse nella Buenos Aires di principio del 1900 i delinquenti protagonisti sono criollos (Creoli), però il loro abbondante uso del cocoliche tipico del sainete rimanda facilmente all’emigrante italiano, sicché un comune uso linguistico finisce per associare gli immigrati italiani non solo alla loro forza e capacità di lavoro ma anche al mondo della malavita locale. Nell’opera vediamo rappresentato un gruppo umano che non si distingue certo per i suoi valori: due bande di ladroni che si affrontano, le donne di un gruppo che passano agli uomini dell’altro gruppo solo in vista di maggiori benefici economici; incostanti, superficiali e interessate mostrano poca dignità. Gli uomini delle due bande provocano una costante violenza che si esprime sotto varie forme.

La infiltrazione del cocoliche nel castigliano era frequente, Vacarezza lo usa a piene mani nel conventillo dove si svolgono i fatti. Molte delle parole usate dai protagonisti risultavano criptiche per un pubblico di classe media urbana, che tuttavia anche senza la comprensione completa dei dialoghi ne percepiva la musicalità e soprattutto il cammino che il gergo degli emigranti aveva percorso nelle vene stesse della società portegna, anche se nella sua parte più marginale.


Tutta la regione rioplatense fu per molti anni un laboratorio multietnico e multilinguistico. Nonostante a poco a poco il cocoliche sia andato scomparendo con la diminuzione degli immigranti che lo parlavano, vari dei suoi termini sono entrati nei versi dei tanghi percorrendo in questo modo le strade del mondo e si sono incorporarati al lunfardo portegno, il dialetto di Buenos Aires e al linguaggio quotidiano dello spagnolo rioplatense.

1“… la maggior parte del pubblico vede la comicità dell’opera e non la tragedia. Perché per me, questa è una tragedia. Una tragedia nella quale il buffo è il chiaro sfondo dove prendono vita queste anime meschine e… simpatiche allo stesso tempo”.

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Grazia Fresu

GRAZIA FRESU

Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo.

È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto di Sheherazade”, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al mio tempo” che ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; “Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; “L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016.

Ha partecipato a vari congressi con conferenze su temi di letteratura e problematiche culturali, educative e sociali e pubblicato i suoi saggi critici in atti congressuali e riviste specializzate. Ha inoltre realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia.

Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove” e con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società.

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Foto in evidenza: Un conventillo dell’epoca.
Foto in evidenza e nell’articolo tratte dall’archivio dell’Istituto del Teatro. Foto dell’autrice a cura di Grazia Fresu.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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