I bambini della repressione cilena colmano i silenzi
I giovani cresciuti durante la dittatura di Pinochet costituiscono ormai una rinomata generazione letteraria. Condividono una ricostruzione della memoria tra l’intimo e il politico.
Due bambine fumano le loro prime sigarette e bevono di nascosto i fondi di bevande alcoliche approfittando della scarsa attenzione degli adulti durante una festa a casa di una di loro. Non capiscono l’eccitazione con cui si festeggia il trionfo del “no” nel plebiscito che ha messo fine alla dittatura di Pinochet nel 1988. Tra i grandi, in mezzo a tanto giubilo, scoppiano vecchi rancori – “musodimerda, cacone, tu non brindi per nessuno, figliodiputtana” -, e così le bambine preferiscono concentrarsi sulla loro iniziazione ai vizi.
È l’inizio di La resta, di Alia Trabucco (Santiago, 1983), una delle sorprese della stagione letteraria in Cile. I nati negli anni settanta e ottanta, che erano bambini durante la repressione, che i loro genitori proteggevano rimanendo in silenzio piuttosto che condividendo, rappresentano oggi una rinomata generazione di narratori. Il loro sguardo ha dei punti in comune: il primo è la volontà di colmare i vuoti che hanno lasciato quei silenzi. L’aspetto autobiografico ha dunque un forte peso nelle loro opere, nelle quali la memoria passa dall’intimo al politico. Hanno una visione critica della transizione alla democrazia nel loro paese. Coincidono nel gusto per il racconto e il romanzo breve. E abbondano alcuni tratti stilistici: molti esercitano una prosa diretta, quasi cinematografica, fatta di frasi corte. Ma si vedono anche influenze della poesia e dell’avanguardismo, formati rischiosi. In qualche caso il minimalismo è portato all’estremo.
Sergio Parra, libraio ed editore veterano e molto rispettato che dirige Merales Pesados, sostiene che è dal boom che in America latina non appariva una generazione di narratori così riconoscibile come questa. “Condividono le stesse cose: ascoltano la stessa musica, guardano film, scrivono sceneggiature, programmi comici. Sono influenzati dal multimediale, dalla perfomance. Non hanno paura di scrivere. E non hanno bisogno di essere autori di un grande romanzo”. La loro opera, spalmata spesso in libri di poche pagine, si legge come un puzzle. Sono lontani dalla grandiloquenza.
I punti di riferimento più evidenti sono Roberto Bolaño, l’autore maledetto che con il romanzo 2666 ha raggiunto la gloria dopo esser morto e il poeta Nicanor Parra. Alberto Fuguet, uno di quelli che si è ribellato al realismo magico con McOndo (Mondadori, 1996), o l’argentino César Aira rappresentano altre importanti influenze. Babelia[1] ha dialogato con dieci di questi autori a Santiago del Cile, Valparaíso, Londra e (per via elettronica) New York. Queste le sue riflessioni.
Letteratura dei figli
Alejandro Zambra (Santigo, 1975) ha usato l’espressione Letteratura dei figli come titolo di un capitolo di Formas de volver a casa (Anagrama, 2011), esplorazione del suo stesso passato. “Io e gli altri della mia generazione abbiamo vissuto la democrazia e l’adolescenza contemporaneamente. Ci siamo resi conto che solo la seconda era totalmente sicura”, spiega questo autore tra una lezione e l’altra di quelle che impartisce all’Università Diego Portales. “Negli anni 90 abbiamo vissuto la sensazione molto forte di essere orfani. I problemi si consideravano archiviati, però sentivamo che non lo erano”. E aggiunge: “In Cile per spiegare qualunque cosa devi rimandare alla dittatura. È molto difficile non parlarne”.
Secondo la critica Lorena Amaro, quella dei figli è “una letteratura carica di colpe: la dittatura è stata così lunga da dare tempo ai bambini di crescere e capire ciò che stava succedendo, però non è durata abbastanza per far sì che potessero combatterla realmente”. Così, lontani dall’epica, questi scrittori denunciano “il mutismo della classe media, il suo servilismo verso le élite e la sua complicità con gli atavismi del potere in Cile”.
Lina Meruane (Santiago, 1970) manifesta il suo “spavento” dinanzi all’espressione “figli della dittatura”. “Che punizione, penso, che questo sia il nome che è stato dato a quella generazione come se ne avessimo fatto parte”: Questa autrice identifica la letteratura della “post-memoria” come “racconti di seconda mano dove i narratori si fanno carico come possono di ciò che videro per metà o solo intuirono”, spiega via mail da New York. Nel 2000, Meruane ha pubblicato Cercada (ripubblicata da Cuneta), sulla relazione tra i figli di un torturatore e delle sue vittime. “La mia generazione si è avvicinata a questo tema molto presto”, dice. Però ora stanno emergendo diversi punti di vista, tra i quali si mette in evidenza quello di Trabucco, perché nel suo libro “la memoria è qualcosa di cenerino: irrespirabile e difficile da scrollarsi di dosso”.
In un pub di Londra, dove risiede, Alia Trabucci analizza il marchio distintivo di quelli della sua età: “La nota distintiva della letteratura dei figli ha a che fare con il riscatto di altre affettività: questa generazione non affronta il passato solo come omaggio, ma anche mettendolo in discussione e interpellandolo. Ne consegue qualcosa di più affilato. Un’approssimazione più scomoda di quella che si ha in altre narrative”. In La resta (Demipage, 2015) tre di quei bambini si rincontrano da giovani per un viaggio (quasi una fuga) durante il quale saranno perseguitati dai fantasmi della loro infanzia. Un passato non troppo innocente in base al racconto. “C’è qualcosa di terribile nell’infanzia, che è sempre narrata a posteriori per costruire un’identità”.
Infanzie sinistre
È un tratto identitario di questa generazione: vivono la memoria dell’infanzia come qualcosa di ricostruito, da sé stessi o dalla famiglia, durante tutta la vita. Poco affidabile. Space Invaders (Alquimia, 2013), di Nona Fernández (Santiago, 1971), è un romanzo breve tra il nostalgico e il terrificante dove i ricordi di alcuni alunni delle scuole degli anni ottanta si confondono con i sogni degli adulti che li rivivono. La stessa autrice ha scritto Fuenzalida (Random House Mondadori, 2012), il tentativo di una donna di ricostruire la vita di un padre assente, un maestro di arti marziali coinvolto senza volerlo nell’orrore. In entrambi la frontiera tra l’autobiografia e la finzione è molto vaga.
“Maneggiare la memoria è molto soggettivo”, ammette Nona Fernández. “Tra gli studenti di uno stesso anno, nessuno ricorda la stessa cosa. Non credo nella memoria ufficializzata. C’erano molti buchi neri, cose che sono state inventate. Siamo stati una generazione strana che ha avuto la lucidità e la coscienza di ciò che accadeva sebbene non riuscisse a capirlo. Siamo rimasti senza risposte: e alcune continuano a non arrivare. In alcuni casi perché il dolore è stato troppo grande; in altri perché non volevano sapere.” In questi libri abbondano i salti temporali, le trame parallele nel presente e in un passato di paura, sangue e piombo. E si indaga, con questa prospettiva, sul destino di tanti desaparecidos: migliaia di persone di cui il regime si sbarazzò e anche quelli che si nascosero dietro false identità.
Sono frequenti poi le incursioni nello spazio intimo, domestico e familiare, che segnalano debolezze della condizione umana. Un esempio è Alejandra Costamagna (Santiago, 1970) che scrive racconti inquietanti come quelli riuniti in Animales domésticos (Mondadori, 2011) dove usa il pretesto della presenza di animali domestici per presentarci una galleria di persone rinchiuse nella mancanza di comunicazione. Costamagna punta l’attenzione sul dettaglio, sulle “merde del quotidiano, i conflitti tappati da una superficie di calma apparente”.
Minimalismo
Della tendenza alla concisione è esempio la stessa Costamagna. L’autrice ha riscritto il suo primo romanzo, En voz baja (LOM, 1996), comprimendolo così tanto da trasformarlo in un racconto di 35 pagine, incluso in Había una vez un pájaro (Cuneta, 2013). En voz baja è stata un’opera emblematica della letteratura dei figli perché è stata pubblicata a metà degli anni novanta, “quando la dittatura aveva smesso di essere argomento di discussione (questo volevano!)”. Però, rivedendo quell’opera di una ventenne (una “mocciosa” in ambito letterario, ammette), Costamagna ha capito che c’era “rumore, sovra-spiegazioni, personaggi-macchietta e un linguaggio altisonante”, si giustifica nell’epilogo. Ora ha ridotto la storia concentrandola sul conflitto tra una figlia e suo padre negli anni settanta “e basta”.
Alejandro Zambra ha scritto romanzi brevi come Bonsái (Anagrama, 2006), il racconto di una coppia che condivide l’erotismo e le letture, e che inizia raccontando il finale. Le sue opere solitamente non raggiungono un centinaio di pagine. Neanche il suo ultimo libro, Facsímil (Sexto Piso, 2015), che offre un nuovo salto formale: il testo è strutturato come un esame di accesso all’università (la Prova di Attitudine Verbale), nel quale l’alunno si trova dinanzi a frammenti di testo che deve ordinare, o scartare in parte. Con questo schema vengono presentate piccole storie o riflessioni dell’autore sui temi che gli stanno a cuore, alcuni molto quotidiani (perché non ci si saluta più negli ascensori?), a cui vengono conferiti nuovi significati, o più spesso mantengono gli stessi, in base alla scelta del lettore. Con questo formato “è diventata rilevante la possibilità di mettere tutto in disordine, di eliminare i dettagli e le ridondanze. Tutto è iniziato come una parodia ed è finito come una autoparodia. Un’amara parodia”, spiega l’autore.
L’intimo, il personale
Molti scrittori cileni condividono la tendenza (globale) che vede lo scrittore inserire sé stesso tra i personaggi. Sebbene, sottolineano, anche l’auto-finzione abbia qualcosa di menzognero. “L’onestà di uno scrittore è verso il suo tempo, non verso la sua vita”, ritiene Zambra. “E la finzione non è l’opposto della verità, come se la vita non includesse i sogni!”. Nona Fernández lo spiega in un altro modo: “Viviamo una fase in cui la gente si maschera di meno. E per questo può introdurre sé stesso come personaggio”.
Rafael Gumucio (Santiago, 1970) si è inserito come personaggio più volte. È l’autore di Memorias prematuras (Debate, 2000), un libro di rottura per due motivi: il primo è che scrivere delle memorie prima di compiere 30 anni non è abituale; il secondo è che riportava il punto di vista dell’esiliato. L’autore – anche giornalista e umorista, presentatore di spazi radiofonici e televisivi – ha trascorso la sua infanzia in Francia, dove si era rifugiato con la famiglia, ed è tornato in Cile a 14 anni. “È stato uno shock. Quel paese in cui facevo ritorno non era il mio paese, perché non ne avevo nessun ricordo. Quindi era una scoperta che dovevo fare a voce bassa”. Gumundio rifletteva sul sentimento di sradicamento in un’opera che vincola l’aspetto personale, e quindi emozionale, con quello politico. “Era una confessione di fragilità, scritta più dal punto di vista del dubbio che della certezza”.
Gumucio non solo è stato egli stesso personaggio, ma ha reso protagonista sua nonna, grande punto di riferimento della sua vita, in Mi abuela, Marta Rivas González (Ediciones UDP, 2013). L’autore considera quella donna dalla vita intensa, esiliata due volte, “l’uomo di casa”, un modello di virilità. “Vengo da un mondo dove non siamo del tutto cileni, francesi o spagnoli”, dice Gumundio, che ha vissuto anche in Spagna e negli Stati Uniti. E continua a esplorare il suo passato da nomade. Il suo nuovo romanzo, Milagro en Haití (Literatura Random House, 2015), si basa su un’altra esperienza familiare. In quel paese caraibico ha abitato sua madre, un periodo in cui ha vissuto un colpo di Stato e una grave infezione a seguito di un’operazione estetica, i punti di partenza del romanzo. Però egli assicura che le coincidenze finiscono lì e che tutto il resto è finzione.
Anche Lina Meruane lascia il suo paese ma non le sue radici familiari in Volverse palestina (Literatura Random House, 2015), cronaca del suo viaggio nel paese dei nonni, la Cisgiordania. Una permanenza che ha risvegliato in lei una “coscienza più politica della questione palestinese”, e che l’ha fatta soffermarsi più sul presente violento che sulla nostalgia dell’origine.
Altri episodi neri
Ma i giovani autori cileni non scrivono solo di dittatura e transizione. A 28 anni, Diego Zúñiga (Iquique, 1987) ha avuto successo con il suo secondo romanzo, Racimo (Literatura Random House, 2015), racconto della sparizione di oltre una decina di ragazze adolescenti che studiavano in una scuola di Alto Hospicio, nel nord desertico del Cile. Quell’episodio fa ancora male: i familiari delle vittime si sono scontrate con la mancanza di comprensione, la negligenza e l’incompetenza delle autorità (un membro del Governo arrivò a suggerire che le ragazze erano scappate e che lo si doveva alla loro “promiscuità”) fino a scoprire che c’era uno psicopatico dietro le 14 morti verificatesi nella zona. Senza volerlo, a Zúñiga è venuto fuori un romanzo nero – egli afferma che non è autore di genere – ambientato in un luogo desolato e inquietante, dove era inoltre situata una fabbrica di armi a grappolo, oggi proibite. “Il cimitero perfetto”, spiega Zúñiga. “non mi importava l’assassino seriale, parlo della ferita del paese, che è pieno di casi come questo”.
Se Zúñiga ci porta nel lontano nord del Cile, dove è nato, la poetessa Gloria Dünkler (Pucón, 1977) è dell’estremo sud. Le sue storie si situano in quella terra fredda e remota ma si riferiscono a un secolo prima. A seguito dell’indipendenza, migliaia di coloni tedeschi furono fatti stabilire nel sud per garantire il consolidamento di quel territorio; a loro volta, gli indigeni mapuche vennero trasferiti sulle montagne, perché non erano considerati atti al lavoro agricolo. In quel contesto si situano i suoi due libri di poesia: Füsche von Llafenko (Ediciones Tácitas, 2009) e Spandau (2012). Il primo incentrato sull’incontro fallimentare tra tedeschi e mapuche. Nel secondo si parla dei criminali di guerra nazisti rifugiati lì, come Walter Rauff, reclamato dalla Germania e che Allende non fu capace di estradare. La terza uscita, che si chiamerà Yatagan, affronta un tema polemico: la mattanza, il 5 settembre 1938, di una sessantina di giovani nacisti (con c, variante autoctona dell’ideologia hitleriana) a seguito della repressione di un conato di rivoluzione presumibilmente nazional-socialista.
“È un tema tabu, scomodo”, confessa l’autrice. “È stato un massacro però, visto che le vittime erano di tendenza nazista, non viene ricordato. Non rientra nel canone del politicamente corretto”. La poetessa, discendente di tedeschi e spagnoli, vuole combattere questo oblio. Però assicura che ha iniziato questa serie senza nessun altro obiettivo se non “una ricerca personale, un’indagine all’ombra dell’io”.
Fenomeno indipendente
Dünkler, che si dice sorpresa dalla ripercussione della sua opera, è un esempio della robustezza delle case editrici indipendenti, uno dei punti di forza del momento letterario cileno. Un altro caso sorprendente è quello di Natalia Berbelagua. La giovane scrittrice di Valparaíso (nata a Santiago nel 1985) ha raggiunto la notorietà con Valporno (Emergencia Narrativa, 2012), una raccolta di racconti di sesso crudo, che tratta l’aspetto più oscuro e sporco che si verifica a porte chiuse in contrasto con una società in apparenza molto formale. Per la sua redazione si è servita di idee che internauti anonimi lasciavano sul suo blog di erotismo. Valporno è stato un grido punk, una provocazione che è uscita dal circuito dell’underground dopo essere stata elogiata da Nicanor Parra (racconti tanto pornografici quanto buoni, ha detto il poeta). È lì che l’autrice ha creato due personaggi molto suggestivi, Elias e Alicia, una coppia che non si scambia nessuna tenerezza e che rivela che “la felicità è una menzogna”.
Se Valporno trattava la perversione fino alla repulsione, La bella muerte (2013) continuava su questa linea concentrandosi sulla cattiveria estrema. Tuttavia, il suo terzo libro, Domingo (2015) segna una svolta e tratta i ricordi di infanzia, adolescenza e gioventù sotto forma di diario intimo e con un tono molto malinconico. Barbelagua spiega in una terrazza di Valparaíso, città portuaria e per questo canaglia, che il suo è stato uno “humor nero”, insolito nella letteratura cilena. “In Valporno ho voluto colpire, ero più giovane e vivevo la ribellione di quegli anni. Domingo è composto di micro-finzioni che formano una storia completa”. E lì si evidenzia, di nuovo, uno sguardo niente affatto innocente sull’infanzia: “Io tratto l’orrore quotidiano”, dice, “L’infanzia in quanto terreno felice non esiste”.
Visto che non tutto ciò che è alternativo si capisce bene, a Natalia Berbelagua viene chiesto spesso se è sadomasochista, così come qualcuno guarda storto Gloria Dünkler come se fosse una nazista. Non tutti hanno saputo leggere le loro opere.
Uno sguardo scettico
Carlos Franz (Ginebra, 1959) non appartiene a questa ondata di venti, trenta o quarantenni, ma alla generazione che era già adulta durante la transizione. Nel chiedergli un’opinione su quelli che gli stanno dietro, polemizza il concetto: “C’è gente molto diversa”. Si osserva un certo gusto per le tendenze minimaliste, per una struttura molto tenue ed esile, però questo, afferma, negli Stati Uniti si faceva già negli anni sessanta. “Non ci sono tendenze dominanti ma un’assenza di leader. Come in politica”, afferma. Pur con una tale riserva, elogia Zambra per il suo “ascolto poetico”. E lo inserisce in una tradizione cilena di autori attaccati al realismo e all’intimismo. Perché il realismo magico, sottolinea, “non ha mai fatto presa in Cile”, con l’unica eccezione di Isabel Allende, che considera quasi caraibica “sebbene lei non lo sappia”.
Franz, che ha risieduto a Berlino (e a Madrid), sostiene che in Cile non è stata mai compiuta una revisione del passato come in Germania, dove ci si è interrogati sul passato “in modo complesso e non semplicista”. In Almuerzo de vampiros (Alfaguara, 2007) l’autore situa uno studente in un sottomondo notturno di picari che si nasconde dal coprifuoco, dove si imbatterà nel fantasma di uno dei suoi migliori professori, diventato un ficcanaso un linguaggio villano. Linguaggio come maschera. Però Franz non ha mai voluto creare una storia della dittatura, piuttosto una storia che ricerchi valori universali. In questo caso: “Le belle parole e idee non valgono nulla dinanzi a questo mondo di merda”.
E Franz dà un avvertimento contro le letture critiche della transizione iniziata nel 1988 che oggi abbondano: “La transizione cilena è stata qualcosa di straordinario. Senza uno sparo, né una goccia di sangue. È stata inclusiva e ha prodotto successo economico”, sostiene. Però ammette che “la formula è diventata insufficiente”. E osserva, in un paese agitato socialmente, “pericolose tendenze populiste”.
La crisi cilena attuale
Molti dei giovani autori cileni esprimono una certa sintonia con il movimento di protesta, guidato dagli studenti, che scuote il paese dal 2011, anno in cui l’attivismo si è propagato su scala globale. Alle richieste sociali si è sommata la denuncia della corruzione a seguito di uno scandalo che ha visto coinvolto il figlio della presidente Bachelet, il cui consenso popolare è caduto in picchiata.
È categorica nella sua visione Alia Trabucco: “La crisi in Cile è stata una benedizione. Si è scoperto come si è fatto politica. Il Cile è una grande frattura sociale, nella quale sono tutti in competizione”. L’autrice crede che la società si è sollevata contro l’ “ultracapitalismo”, eredità della dittatura mai messa in discussione. Dalle aule, Zambra pone l’accento sul dramma degli studenti costretti a indebitarsi per tutta la vita per pagarsi l’università, fatto che è per lei “aberrante”. Le proteste, afferma, “hanno in parte a che fare con un cambiamento generazionale e una certa autonomia di pensiero”. Nonostante questo, afferma di riporre speranza nella riforma della Costituzione – è ancora in vigore quella che lasciò Pinochet, sebbene emendata – promessa da Bachelet.
Gumucio ammette che ha guardato con speranza l’inizio delle mobilitazioni, però teme “la loro deriva e la reazione della destra sociologica, che è temibile”. Con uno slancio sempre più contratto, “vengono smascherati tutti e colui a cui meno importa essere un mostro vincerà”. Zúñiga sostiene l’idea che nel 2011 si è svegliato addormentato. “La transizione è apparsa molto ordinata e sembrava che lasciasse un paese prospero, tuttavia non stavamo molto bene”. Anche se si mostra umile: “è comodo parlare male della transizione quando non la si è vissuta realmente”.
Il libraio Sergio Parra analizza questi autori in funzione del momento politico: “È una generazione molto onesta. Hanno vissuto la transizione all’età adulta in una società priva di trasparenza e di autorità. È singolare: i loro genitori arrivavano da un momento autoritario, ora non c’è autorità”.
Rimprovero ai genitori?
Nella costruzione del nuovo discorso sulla dittatura da parte di quelli che erano bambini è implicito un certo rimprovero alla versione anteriore, quella dei loro genitori. Però gli autori che hanno superato i quarant’anni, molti genitori a loro volta, vogliono evitare questo scontro. “Mi sento in pace con loro. Riesco a capirli”, afferma Nona Fernández. Per Alejandra Costamagna, nei libri degli autori della sua età si ascolta “la voce del figlio come quella di un detective. Però non più nell’atto di compiere un regolamento di conti con i suoi genitori, bensì mettendosi al loro posto”.
Gumucio è più diretto: “Ho già superato la fase del rimprovero e ora sto nella fase dell’essere padre e colpevole io stesso”. Questo autore crede che invece di guardare gli altri, la novità è una letteratura del “qual è stata la nostra parte”, nella quale ognuno si responsabilizza per essere stato parte “di un falso paradiso, di quel paese in crescita però in modo molto diseguale”.
Secondo Lina Meruane, gli autori della sua generazione “vivono un certo senso di colpa per essere sopravvissuti o persino per essere privilegiati quando i padri e le madri sono stati a favore del regime. È sembrato a lungo che tutti i romanzi e le testimonianze fossero scritti da martiri, o dai figli di quegli eroi della sinistra, ma questa scenario inizia a frantumarsi, è diventato più complesso e in certo modo, non sempre, più interessante”. Come Alejandro Zambra, che non ha avuto dubbi nel narrare i suoi disaccordi con i genitori di destra.
In Formas de volver a casa Zambra lo spiega con bellezza: “Non voglio parlare di innocenza né di colpa; non voglio far altro che illuminare alcuni angoli, gli angoli dove noi eravamo. Ma non sono sicuro di poterlo fare bene. Mi sento troppo vicino a ciò che racconto. Ho abusato di alcuni ricordi, ho saccheggiato la memoria e, in un certo modo, ho persino inventato troppo”.
[1] Rubrica dedicata ai libri del quotidiano El país [Ndt].
Los niños de la represión chilena llenan los silencios
Los jóvenes criados durante la dictadura de Pinochet ya son una destacada generación literaria. Comparten una reconstrucción de la memoria entre lo íntimo y lo político.
Dos niñas fuman sus primeros cigarrillos y toman restos de bebidas alcohólicas a escondidas aprovechando la escasa atención de los adultos durante la fiesta en casa de una de ellas. No entienden la excitación con que se festeja el triunfo del ‘no’ en el plebiscito que acabó con la dictadura de Pinochet en 1988. Entre los mayores saltan, en medio del júbilo, viejos rencores “hocicóndemierda, cagón, tú no brindas por nadie, hijodeputa”, así que las niñas prefieren concentrarse en su iniciación en los vicios.
Es el punto de partida de La resta, de Alia Trabucco (Santiago, 1983), una de las sorpresas de la temporada literaria en Chile. Los nacidos en los años setenta y ochenta, que eran niños durante la represión, a los que sus padres protegían callando antes que compartiendo, son hoy una destacada generación de narradores. Su mirada tiene puntos en común: el primero es un intento de rellenar los huecos que dejaron esos silencios. Lo autobiográfico tiene así un fuerte peso en sus obras, en las que la memoria pasa de lo íntimo a lo político. Tienen una visión crítica de la transición a la democracia en su país. Coinciden en el gusto por el cuento o la novela breve. Y abundan algunos rasgos estilísticos: muchos ejercen una prosa directa, casi cinematográfica, de frases cortas. Pero también se ven influencias de la poesía y del vanguardismo, formatos arriesgados. En algún caso, el minimalismo se lleva al extremo.
Sergio Parra, veterano y muy respetado librero y editor que dirige Metales Pesados, sostiene que desde el boom no aparecía en América Latina una generación de narradores tan reconocible como esta. “Comparten lo mismo: escuchan igual música, ven películas, hacen guiones, programas de humor. Tienen influencia de lo multimedia, de la performance. No tienen miedo a escribir. Y no necesitan ser autores de una gran novela”. Su obra, repartida a menudo en libros de pocas páginas, se lee cómo un puzle. Están lejos de la grandilocuencia.
Las referencias más claras son Roberto Bolaño, el autor maldito que alcanzó la gloria después de muerto con su novela 2666, y el poeta Nicanor Parra. Alberto Fuguet, uno de los que se rebeló contra el realismo mágico en McOndo (Mondadori, 1996), o el argentino César Aira son otras de las influencias destacadas. Babelia dialogó con diez de estos autores en Santiago de Chile, Valparaíso, Londres y (vía electrónica) Nueva York. Estas son sus reflexiones.
Literatura de hijos
La expresión Literatura de hijos la utilizó Alejandro Zambra (Santiago, 1975) para titular un capítulo de Formas de volver a casa (Anagrama, 2011), una exploración de su propio pasado. “Los de mi generación vivimos la democracia y la adolescencia al mismo tiempo. Nos dimos cuenta de que solo la segunda era totalmente cierta”, explica este autor entre clase y clase de las que imparte en la Universidad Diego Portales. “En los 90 tuvimos una sensación de orfandad muy grande. Se daban los problemas por archivados, pero advertimos que no lo estaban”. Y añade: “Para explicar cualquier cosa en Chile tienes que ir a la dictadura. Es muy difícil no hablar de ella”.
Para la crítica Lorena Amaro, la de los hijos es “una literatura cargada de culpas: la dictadura fue tan larga que dio tiempo a que los niños crecieran y entendieran lo que estaba ocurriendo, pero no duró tanto como para que pudieran combatirla realmente”. Así que, lejos de la épica, estos escritores denuncian “el mutismo de la clase media, su servilismo ante las élites y su complicidad con los atavismos del poder en Chile”.
Lina Meruane (Santiago, 1970) manifiesta su “espanto” ante la expresión “hijos de la dictadura”. “Qué castigo, pienso, que ese sea el nombre que se dio a esa generación como si hubiéramos sido parte”. Esta autora identifica la literatura de “posmemoria” como “relatos de segunda mano donde los narradores se hacen cargo como pueden de lo que vieron a medias o intuyeron”, explica por correo electrónico desde Nueva York. En el 2000, Meruane publicó Cercada (reeditada por Cuneta), sobre la relación entre hijos de un torturador y de sus víctimas. “Mi generación abordó este tema muy pronto”, dice. Pero ahora están surgiendo distintos puntos de vista, entre los que destaca el de Trabucco, porque en su libro “la memoria es una cosa cenicienta: irrespirable y difícil de sacudirse”.
En un pub de Londres, donde reside, Alia Trabucco analiza la marca de los de su edad: “La diferencia de la literatura de hijos tiene que ver con rescatar otros afectos: esta generación no aborda el pasado solo desde el homenaje, sino también cuestionando, interpelando. Surge algo más afilado. Una aproximación más incómoda que en otras narrativas”. En La resta (Demipage, 2015), tres de aquellos niños se reencontrarán como jóvenes para un viaje (casi una fuga) en el que les perseguirán los fantasmas de sus infancias. Un pasado no tan inocente según su relato. “Hay algo terrible en la infancia, que siempre es narrada a posteriori para construir una identidad”.
Infancias siniestras
Es una seña de identidad de esta generación: entienden la memoria de la infancia como algo reconstruido, por uno mismo y por la familia, a lo largo de la vida. Poco fiable. Space Invaders (Alquimia, 2013), de Nona Fernández (Santiago, 1971), es una novela breve entre nostálgica y terrorífica en que los recuerdos de alumnos de los colegios de los ochenta se enredan con los sueños de los adultos que los reviven. La misma autora escribió Fuenzalida (Random House Mondadori, 2012), el intento de una mujer de reconstruir la vida de un padre ausente, un maestro de artes marciales implicado sin quererlo en el horror. En ambas la frontera entre lo autobiográfico y la ficción es muy difusa.
“La conducción de la memoria es muy subjetiva”, admite Nona Fernández. “De los escolares de un mismo curso, nadie recuerda lo mismo. No creo en la memoria oficializada. Había muchos agujeros negros, cosas que se inventaron. Fuimos una generación rara que tuvo lucidez y conciencia de lo que ocurría pero no llegaba a entenderlo. Nos quedamos sin respuestas: algunas siguen sin llegar. En unos casos porque el dolor fue demasiado grande; en otros porque eran de los que no querían saber”. En estos libros abundan los saltos en el tiempo, las tramas paralelas en el presente y en un pasado de miedo, sangre y plomo. Y se indaga, con esa perspectiva, en el destino de tantos desaparecidos: los miles que liquidó el régimen y también los que se escondieron tras identidades falsas.
También son frecuentes las miradas al espacio íntimo, a lo doméstico y familiar, que señalan debilidades de la condición humana. Un ejemplo es Alejandra Costamagna (Santiago, 1970), quien escribe cuentos tan inquietantes como los reunidos en Animales domésticos (Mondadori, 2011), donde utiliza como pretexto la presencia de las mascotas para presentarnos a una galería de personas presas de la incomunicación. Costamagna pone el foco en el detalle, en “las mierditas del día a día, los conflictos que están tapados por una superficie de aparente calma”.
Minimalismo
De la tendencia a la concisión es un ejemplo la propia Costamagna. La autora ha reescrito su primera novela, En voz baja (LOM, 1996), comprimiéndola tanto que la ha convertido en un cuento de 35 páginas, incluido en Había una vez un pájaro (Cuneta, 2013). En voz baja fue una obra emblemática de la literatura de hijos porque se publicó a mediados de los 90, “cuando la dictadura había dejado de ser tema (ah, eso querían)”. Pero, al revisar aquella obra de una veinteañera (una “mocosa” en lo literario, admite), Costamagna entendió que había “ruido, sobreexplicaciones, personajesmaquetas y un lenguaje altisonante”, se justifica en el epílogo. Ahora ha reducido la historia enfocándola al conflicto entre una hija y su padre en los años setenta “y punto”.
Alejandro Zambra ha escrito novelas cortas como Bonsái (Anagrama, 2006), el relato sobre una pareja que comparte el erotismo y las lecturas, y que empieza contando el final. Sus obras no suelen alcanzar el centenar de páginas. Tampoco su último libro, Facsímil (Sexto Piso, 2015), que da un nuevo salto formal: el texto se estructura como un examen de acceso a la universidad (la Prueba de Aptitud Verbal), en el cual el alumno se sitúa ante fragmentos de textos que debe ordenar, o descartar en parte. Con ese esquema se presentan pequeñas historias o reflexiones del autor sobre los temas que le importan, algunos muy cotidianos (¿por qué ya no se saluda en los ascensores?) y que adquieren nuevos sentidos, o más a menudo mantienen el mismo, según decida el lector. Con este formato “se volvió muy relevante la posibilidad de desordenar todo, de eliminar los detalles y las redundancias. Empezó como una parodia y acabó en autoparodia. Una parodia amarga”, explica su autor.
Lo íntimo, lo personal
Muchos escritores chilenos participan de la tendencia (global) de que el escritor se ponga a sí mismo como personaje. Aunque, subrayan, la autoficción también tiene algo de mentirosa. “La honestidad de un escritor es con su tiempo, no con su vida”, opina Zambra. “Y la ficción no es lo opuesto a la verdad, ¡como si la vida no incluyera los sueños!”. Nona Fernández lo explica de otra manera: “Estamos en un momento en que la gente se disfraza menos. Y por tanto puede ponerse a sí mismo como personaje”.
Rafael Gumucio (Santiago, 1970) se ha puesto de personaje una y otra vez. Es el autor de Memorias prematuras (Debate, 2000), un libro rompedor por dos motivos: el primero, que escribir unas memorias antes de cumplir los 30 no es lo más habitual; el segundo, que aportaba el punto de vista del exiliado. El autor también periodista y humorista, presentador de espacios en radio y televisiónpasó su infancia en Francia, donde se había refugiado su familia, y regresó a Chile a los 14 años. “Fue un shock. Ese país al que volvía no era mi país, porque no tenía ningún recuerdo de él. Así que era un descubrimiento que tenía que hacer en voz baja”. Gumudio reflexionaba sobre el sentimiento del desarraigo en una obra que vincula lo personal, y por tanto emocional, y lo político. “Era una confesión de fragilidad, escrita más desde la duda que de la certeza”.
Gumucio no solo ha sido personaje él mismo, sino que hizo protagonista a su abuela, una gran influencia en su vida, en Mi abuela, Marta Rivas González (Ediciones UDP, 2013). El autor considera a esa mujer de vida intensa, exiliada dos veces, “el hombre de la familia”, un modelo de virilidad. “Vengo de un mundo donde no somos del todo chilenos, franceses ni españoles”, dice Gumucio, quien también ha residido en España y en Estados Unidos. Y sigue explorando su pasado de nómada. Su nueva novela, Milagro en Haití (Literatura Random House, 2015), se basa en otra experiencia familiar. En ese país caribeño residió su madre, un tiempo en que vivió un golpe de Estado y una severa infección tras una operación estética, los puntos de partida de la novela. Pero él asegura que las coincidencias acaban ahí y todo lo demás es ficción.
Lina Meruane también sale de su país pero no de sus raíces familiares en Volverse palestina (Literatura Random House, 2015), la crónica de su viaje al pueblo de sus abuelos, en Cisjordania. Una estancia que despertó en ella una “conciencia más política de lo palestino”, y que le hizo fijarse más en el violento presente que en la nostalgia del origen.
Otros episodios negros
Y es que no solo de la dictadura y de la transición escriben los jóvenes autores chilenos. A sus 28 años, Diego Zúñiga (Iquique, 1987) ha tenido éxito con su segunda novela, Racimo (Literatura Random House, 2015), un relato en torno a la desaparición de más de una decena de chicas adolescentes que estudiaban en un colegio en Alto Hospicio, en el desértico norte de Chile. Aquel episodio aún duele: los familiares de las víctimas se toparon con la incomprensión, desidia e incompetencia de las autoridades (un miembro del Gobierno llegó a sugerir que las chicas se habían fugado y lo relacionó con su “promiscuidad”) hasta que se descubrió que era un psicópata el que estaba detrás de 14 muertes en la zona. Sin pretenderlo, a Zúñiga le salió una novela negra él dice que no es autor de género, ambientada en un lugar desolador e inquietante, donde además se ubicaba una fábrica de armas de racimo, hoy prohibidas. “El cementerio perfecto”, explica Zúñiga. “No me interesaba el asesino en serie, hablo de la herida del país, que está lleno de casos así”.
Si Zúñiga nos lleva al lejano norte de Chile, donde nació, la poeta Gloria Dünkler (Pucón, 1977) es del extremo sur. Y sus historias se sitúan en esa tierra fría y remota pero se remontan un siglo atrás. Tras la independencia, miles de colonos alemanes fueron asentados en el sur para garantizar la consolidación de ese territorio; los indígenas mapuches, a su vez, fueron desplazados a los cerros, porque no se les consideraba aptos para el trabajo agrario. En ese contexto se sitúan sus dos poemarios: Füsche von Llafenko (Ediciones Tácitas, 2009) y Spandau (2012). El primero se centra en el desencuentro entre alemanes y mapuches. En el segundo, se habla de los criminales de guerra nazis refugiados allí, como Walter Rauff, reclamado por Alemania y a quien Allende no fue capaz de extraditar. La tercera entrega, que se llamará Yatagan, aborda un asunto polémico: la matanza, el 5 de septiembre de 1938, de unos 60 jóvenes nacistas (con c, variante autóctona de la ideología hitleriana) al aplastarse un conato de revolución pretendidamente nacionalsocialista.
“Es un tema tabú, incómodo”, confiesa la autora. “Fue una masacre pero, como las víctimas eran de tendencia nazi, no fue recordada. No está en el canon de lo políticamente correcto”. La poeta, descendiente de alemanes y españoles, quiere combatir ese olvido. Pero asegura que inició esta serie sin otro objetivo que “una búsqueda personal, una indagación en la sombra del yo”.
Fenómeno independiente
Dünkler, quien se expresa sorprendida por la repercusión de su obra, es un ejemplo de la pujanza de las editoriales independientes, una de las claves del momento literario chileno. Otro caso llamativo es el de Natalia Berbelagua. La joven escritora de Valparaíso (nacida en Santiago en 1985) alcanzó notoriedad con Valporno (Emergencia Narrativa, 2012) una colección de cuentos de sexo descarnado, que aborda lo más oscuro y sucio que ocurre puertas adentro en contraste con una sociedad en apariencia muy formal. Para su redacción se sirvió de ideas que dejaban internautas anónimos en su blog sobre erotismo. Valporno fue un grito punk, una provocación que salió del circuito de lo underground tras ser elogiada por Nicanor Parra (cuentos tan pornográficos como buenos, dijo el poeta). La autora creó allí a dos personajes llamativos, Elías y Alicia, una pareja que se trata sin ternura alguna y que revela que “la felicidad es una mentira”.
Si Valporno trataba de la perversión hasta lo repulsivo, La bella muerte (2013) continuaba esa línea fijándose en la crueldad extrema. Sin embargo, su tercer libro, Domingo (2015), da un giro y aborda sus recuerdos de infancia, adolescencia y juventud en forma de diario íntimo y en un tono de gran melancolía. Berbelagua explica en una terraza de Valparaíso, ciudad portuaria y por tanto canalla, que lo suyo ha sido el “humor negro”, inhabitual en la literatura chilena. “En Valporno quise golpear; era más joven y tiene la rebeldía de aquellos años. Domingo está hecha de microficciones que forman una historia completa”. Y ahí destaca, de nuevo, una mirada nada inocente sobre la niñez: “Yo trato el horror cotidiano”, dice. “La infancia como terreno feliz no es tal”.
Como no todo lo alternativo se entiende bien, a Natalia Berbelagua le preguntan a menudo si es sadomasoquista, como a Gloria Dünkler algunos la miran mal por si es nazi. No todo el mundo supo leer sus obras.
Una mirada escéptica
Carlos Franz (Ginebra, 1959) no pertenece a esa oleada de veinte, treinta y cuarentañeros, sino a la generación que era madura durante la transición. Al pedirle opinión sobre los que van detrás, discute el concepto: “Hay gente muy diversa”. Sí observa un cierto gusto por tendencias minimalistas, por una estructura muy tenue y delgada, pero eso, señala, ya se hacía en EE UU en los años sesenta. “No hay tendencias dominantes sino una ausencia de líderes. Como en la política”, señala. Con esa reserva, elogia a Zambra por su “oído poético”. Y lo enmarca en una tradición chilena de autores apegados al realismo y al intimismo. Porque el realismo mágico, remarca, “nunca prendió en Chile”, con la única excepción de Isabel Allende, a quien considera casi caribeña “aunque ella no lo sepa”.
Franz, que ha residido en Berlín (y en Madrid), sostiene que en Chile nunca se ha hecho una revisión del pasado como en Alemania, donde se interrogaron sobre su pasado “de forma compleja y no simplista”. En Almuerzo de vampiros (Alfaguara, 2007), el autor sitúa a un estudiante en un submundo nocturno de pícaros que se ocultaba del toque de queda, donde topará con el fantasma de uno de sus mejores profesores, transformado en un buscavidas que habla una grosera jerga. El lenguaje como disfraz. Pero Franz nunca pretendió hacer una historia de la dictadura, sino que busca valores universales. En este caso: “Las bellas palabras e ideas no valen nada ante la mierda que es este mundo”.
Y Franz advierte contra las lecturas críticas de la transición iniciada en 1988 que abundan hoy. “La transición chilena fue algo extraordinario. Sin un tiro, sin una gota de sangre. Fue inclusiva y con éxito económico”, sostiene. Pero admite que “la fórmula se ha vuelto insuficiente”. Y observa, en un país agitado socialmente, “peligrosas tendencias populistas”.
La crisis chilena actual
Muchos de los autores jóvenes chilenos expresan cierta sintonía con el movimiento de protesta, encabezado por los estudiantes, que sacude el país desde 2011, el año en que el activismo se destapó a escala global. A las demandas sociales se ha sumado la denuncia de la corrupción tras un escándalo que ha implicado al hijo de la presidenta Bachelet, cuya valoración popular ha caído en picado.
Es rotunda en su visión Alia Trabucco: “La crisis en Chile ha sido una bendición. Se ha destapado cómo se ha hecho política. Chile es una gran fractura social, en la que todos compiten con todos”. La autora cree que la sociedad se ha levantado contra el “ultracapitalismo”, herencia de la dictadura nunca cuestionada. Desde las aulas, Zambra pone el foco en el drama de los estudiantes obligados a endeudarse de por vida para pagarse la universidad, lo que ve “aberrante”. Las protestas, afirma, “tienen algo que ver con un cambio generacional y cierta autonomía de pensamiento”. Pese a todo, dice mantener esperanzas en la reforma de la Constitución aún rige la que dejó Pinochet, aunque enmendadaque prometió Bachelet.
Gumucio admite que vio con esperanza el inicio de las movilizaciones, pero teme “su deriva y la reacción de la derecha sociológica, que es temible”. En un pulso cada vez más crispado, “todo el mundo está siendo desenmascarado, y al que no le importe ser un monstruo ganará”. Zúñiga sostiene la idea de que en 2011 se despertó dormido. “La transición pareció muy ordenada y que dejaba un país próspero, pero no estábamos tan bien”. Aunque se muestra humilde: “Es cómodo hablar mal de la transición cuando uno no la vivió realmente”.
El librero Sergio Parra analiza a estos autores en función de su momento político: “Es una generación muy honesta. Han hecho la transición a la adultez en una sociedad sin transparencia y sin autoridad. Es curioso: sus padres venían delo autoritario, ahora no hay autoridad”.
¿Reproche a los padres?
En la construcción de un nuevo discurso sobre la dictadura por parte de los que eran niños está implícito un cierto reproche a la versión anterior, la de sus padres. Pero los autores que han pasado los cuarenta años, muchos padres a su vez, quieren evitar ese choque. “Me siento en paz con ellos. Logro entenderlos”, afirma Nona Fernández. Para Alejandra Costamagna, en los libros de los autores de su edad se escucha “la voz del hijo como la de un detective. Pero no ya haciendo un ajuste de cuentas con sus padres, sino poniéndonos en su lugar”.
Gumucio es más directo: “Yo ya pasé la etapa de reproche y ahora estoy en la etapa de ser padre y culpable yo”. Este autor cree que en vez de mirar a otros, lo nuevo es una literatura de “qué hicimos nosotros”, en la que cada uno se responsabilice por haber sido parte “de un falso paraíso, de ese país en crecimiento pero muy desigual”.
Para Lina Meruane, los autores de su generación “portan cierta culpa de sobrevivencia o incluso de privilegio cuando los padres y madres estuvieron a favor del régimen. Por mucho tiempo parecía que todos las novelas o los testimonios eran escritos por los mártires, o por los hijos de esos héroes de la izquierda, pero esa escena empieza a trizarse, se ha vuelto más compleja y en cierta medida, no siempre, más interesante”. Como Alejandro Zambra, que no ha dudado en narrar sus desencuentros con sus padres derechistas.
En Formas de volver a casa Zambra lo explica con belleza: “No quiero hablar de inocencia ni de culpa; quiero nada más que iluminar algunos rincones, los rincones donde estábamos. Pero no estoy seguro de poder hacerlo bien. Me siento demasiado cerca de lo que cuento. He abusado de algunos recuerdos, he saqueado la memoria y, también, en cierto modo, he inventado demasiado”.
© RICARDO DE QUEROL / EDICIONES EL PAÍS, SL 2015.
Traduzione di Maria Rossi
Ricardo de Querol è redattore capo di El País. Ha dedicato gli ultimi 24 anni alla produzione dei quotidiani, fino a ieri cartacei, oggi digitali. Laureato in Scienze dell’Informazione presso l’Università Complutense di Madrid, ha iniziato la sua carriera nel giornale Ya nel 1988, a soli 19 anni. Ha lavorato per 12 anni in Diario 16, dove è stato capo della sezione Economía y Nacional, redattore capo di Economía, Cierre y Suplementos e capo redazione fino al 2001. Tra il 1997 e il 1998 è stato direttore del quotidiano Tribuna de Salamanca. Nel 2002 è entrato come responsabile di Motor in Cinco Días, dove in seguito è stato redattore capo dell’edizione del fine settimana e sotto-direttore.
È entrato a far parte di El País nel marzo del 2006 come redattore capo di Motor y Suplementos Especiales. Con questo incarico ha lanciato i nuovi supplementi mensili Motor e Tierra. Dal 2007 al 2013 è stato redattore capo di Sociedad, area che includeva Vida y Artes, Ciencia, Salud, Educación e Pantallas. Da febbraio del 2013 fino a maggio 2014 è stato redattore capo della Mesa Digital, responsabile di ELPAIS.com. Attualmente è redattore capo del supplemento culturale Babelia.
È inoltre colonnista abituale del quotidiano, critico televisivo, coordinatore del blog Mujeres. Professore nella Scuola di Giornalismo UAM-EL PAÍS. È autore dei libri digitali El posmacho desconcertado e Los Beatles en versión comprimida e coautore di Los Beatles en 17 discos.
Foto in evidenza di Melina Piccolo.
Foto dell’autore a cura di El Pais.