“Ho perso la chitarra” di Cheikh Tidiane Gaye, da “Il sangue delle parole” con commento di Fabia Ghenzovich

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Per Cheikh Tidiane Gaye, fornaio dei V-E-R-S.I  come lui stesso desidera essere chiamato, la parola diviene ponte di speranza, ponte tra autore e lettore, ponte tra popoli, perchè Tidiane crede nella possibilità di un’autentica trasformazione, nel senso di una parola di pace che accoglie, non divide, non ostenta, ma si schiera con coraggio e si fa voce dei poveri, dei dannati della terra. Il tema è quello della ingiustizia, ma la parola non chiude alla possibilità di una trasformazione esistenziale collettiva. Quindi il sangue delle parole sgorga da ritmi e canti originari, dal suono dello xalam e del sorong, dal profondo dell’Africa, dalla radice della vita con ardore di rinascita, perchè la parola libera da pregiudizio, diviene universale e si avvicina a quella natura che siamo, e che sa parlare al cuore degli uomini. Questa consapevolezza e questa forza nascono dalla conoscenza della sofferenza e della solitudine, eppure la parola purificata da ogni mercificazione e dal rancore, gli permette di dire: sono zingaro / nel mio pensiero / sono rom / nel riflettere / sono nero nel sangue / sono giallo / perchè vivace / sono …. la mia sillaba feconda che cerca la strada della pace.

La forza espressiva delle parole di Tidiane, cattura attraverso metafore originali una naturale empatia di chi lo legge o ascolta, ed è lo sguardo di ogni uomo liberato dalle catene del mondo, che diviene una benedizione.

E’ lo sguardo di un poeta, nato in Senegal, di nome Cheikh Tidiane Gaye, fabbro dei V-E-R-S-I.

Io voglio l’albero / per farmi un nido / e accogliere / tutti gli uccelli /di ogni ramo / mi farò altalena /

che legherà / la terra e il cielo/ o come  in “Tolleranza”: Pianterò a Gerusalemme, Gaza, Palestina / l’albero della tolleranza e aprirò gli occhi dei profughi /di Darfur e del Congo/.

In questo sguardo aperto e antico “ogni popolo reciterà la sua libertà”.

 

Fabia Ghenzovich

 

HO PERSO LA CHITARRA

Sono tornato di nuovo sotto l’ombra, nella brezza
dei ricordi, per sollevarmi dal silenzio dei miei anni
che il tempo non riconosce; dolente memoria che scorre
nel fiume delle reminiscenze, sono un dannato
la terra il nido che mi tradisce
e arde il mio respiro.
Ho perso la chitarra,
non canto la canzone per addolcire il mio cuore deserto
non si leggono più le radiose radici dei miei occhi,
le melodie mute, i colori pigri,
il cielo
non mi racconta più le missive delle stelle.
Piango,
la pianta non fiorisce
ma il mio cuore sboccia sempre di speranza
la canzone perde la forza luminosa
che non rischiara la mia stanza
priva di fiamma;
l’azzurro del cielo non canta
e non accoglie più le sue stelle
le stelle diventano orfane,
l’unico orfanotrofio
che imprigiona le parole
che erano candele, profumi e incenso.
La mia esistenza diventa una prigione.
Non dipingo più
i quadri non sono più appesi
i colori non parlano più.
Non ballo
i miei piedi non si sollevano
le catene della tristezza mi fanno inciampare.
Non mi oriento,
non so dove appendere il sospiro;
non so davvero
dove inchinarmi per invocare le sillabe
di fuoco e di fiamma,
il vento non mi accarezza,
il tempo mi offre fantasmi
la musica una cacofonia
il mio letto la terra, la mia camera il bosco
una capanna senza pane
ho perso tutto tranne il cielo e la notte
entrambi mi lodavano e la luna mi illuminava.
Ho perso la chitarra nelle vie della sofferenza
ho perso la voce
ma ho la lingua per raccontare la mia canzone
intrecciata nel buio del silenzio,
il buio rinfrescante ma candido
che mi sussurrava le note nella notte
sotto il chiarore della luna.
Sono un dannato della terra,
la mia stanza è priva di pane, di zucchero
di sale, di calore e di colore
di luce e di acqua.
Non canto
la mia voce carcerata
non dipingo
non ho la tela né il pennello
nemmeno i colori
dov’è mio essere?
La mia vita è una strada storta che non posso tracciare
una favola che non posso raccontare
una leggenda che non posso immortalare
un viaggio che nessuno può intraprendere.
In piedi
da solo
intorno a me
i topi
la fabbrica abbandonata
a volte il fulmine
a volte la tromba d’aria
a volte la tromba che canticchia
a volte la neve
a volte la pioggia
la mia canzone è il soffio del vento
l’aria della pioggia
il mio calendario furono le stagioni
l’estate la mia liberazione
l’inverno il mio carcere
e l’umanità mi respinge come la zanzara
la mia ombra non urge.
La mia ombra è improntata
nei campi di mele
e di mandarini
di pomodori
e di pompelmi e di patate,
la mia ombra è
una strada senza nome
una via senza nome.
Sono il cestino raccoglitore
che la casa respinge
la casa mi piazza in strada
la strada che mi butta
il camioncino mi porta per il riciclo;
nessuno mi chiede
né il mio nome né il passaporto
Dov’è il mio essere?

 

Per gentile concessione dell’autore.

Immagine in evidenza: Dipinto dell’artista cinese Hu Huiming. Per maggiori informazioni consultare il suo sito Hu Huiming.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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