Giorgio Caproni: Sulla poesia
Quando fanciullo io venni / a pormi con le Muse in disciplina, tentando i miei primi balbettii poetici nel modesto “scagno” di mio padre, in quella genovesissima Piazza della Commedia immersa nei trambusti mercantili del Porto, davvero non avrei mai osato immaginare o sognare di dover un giorno, in una città di così austere e luminose tradizioni culturali e civili qual è Urbino, e in un’Università tra le più celebrate d’Italia e del mondo, ricevere un alloro il cui inestimabile valore, confesso, non solo – comme de juste – mi fa gonfiar le penne, ma doviziosamente viene a ricompensare, e nel modo meno sperato, i patimenti sofferti nella mia già troppo lunga esistenza, tutta spesa – in epoca storica dissestatissima – in difesa di un ideale (mi si conceda questo termine oggi desueto) che credo, nei limiti delle mie forze, di non aver mai tradito.
Debbo così aggiungere, all’emozione, la commozione più viva, resa tanto maggiore se penso che a reggere questa Università (Regina Universitarium) sta proprio Carlo Bo, il Maestro dell’intera generazione cui appartegno (e cui egli stesso appartiene), il quale non si è mai stancato, in anni tristissimi e durissimi per tutti, di additarci una via di salvezza nella letteratura intesa come vita: nella vita intesa come scoperta o costruzione della propria anima. (Altra parola – anima – oggi, ahimé, caduta in disuso).
Detto questo, che altro aggiungere per esprimere, sia pur con timore e tremore, il mio stato d’animo in questo solenne momento del mio essere?
Purtroppo, non sono tagliato per i discorsi ufficiali. La veste ufficiale – credo visibilmente – è troppo ampia per la mia magra persona.
Forse, dato che non riconosco in me altro “merito” (e dico merito tra virgolette) oltre quello della ricerca della poesia, dovrei dir qualcosa sul mio modo di comporre versi: dovrei insomma parlare, almeno un poco, della mia poesia. Vi rinuncio, perché questo equivarrebbe a parlare del concetto che io ho di poesia: cioè a parlare della poesia stessa.
Non possiedo un laboratorio mentale abbastanza attrezzato allo scopo, o comunque adeguato alle illustri Personalità qui Presenti.
Forse, non sono che un modesto artigiano.
Non credo che l’antico vasaio si preoccupasse troppo di discettare con teoretica esattezza intorno alla natura e all’essenza di un vaso. Si preoccupava, piuttosto, di modellar vasi che fossero, quanto più possible, “vasi” nel senso della bellezza oltre che in quello dell’utilità: in senso estetico e funzionale, si direbbe oggi.
Definire che cos’è la poesia non è mai stato nelle mie aspirazioni, pur se più d’una volta m’è capitato di dover precisare in che consista, secondo me, la profonda differenza tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico.
Mi rifaccio al proposito a un mio vecchio scritto del l’immediato dopoguerra, dove – quando in Italia non era ancora di pubblico dominio né la semiotica né la linguistica – io, del tutto a lume di naso o quasi, inventavo, per mio privato uso e consumo… l’ombrello.
Linguaggio pratico e linguaggio poetico (cerco di riassumere quelle mie remote affirmazioni) usano, è vero, lo stesso codice di convenuti segnali (e proprio di codici e di segnali, io ignaro, già parlavo allora). Ma mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati “armonici” (e dico armonici usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma sua peculiare forza espressiva.
Farò un esempio molto grossolano.
Mi trovo in una caserma, dove ancora i segnali vengono trasmessi da una cornetta. La cornetta squilla il segnale del rancio, e il marmittone che conosce il codice prende la gavetta (allora – quando scrivevo queste cose – si usava ancora la gavetta) e si allinea nel cortile per ricevere la “sbobba”. Ma supponiamo che un estroso ufficiale di pichetto, invece dalla solita cornetta, faccia suonare quello stesso segnale da un virtuoso di flauto.
Il soldato, sì, capisce che quello è il segnale del rancio, ma anche sente qualcosa d’altro (il valore musicale di quel segnale: il significante, si direbbe oggi), e certamente resterà interdetto (incantato ad ascoltarlo), anziché precipitarsi alla chiamata.
Ricorrerò a un altro esempio, meno pedestre o dozzinale, pur se sempre approssimativo.
Prendiamo gli stupendi versi: Felice te che il regno ampio dei venti, / Ippolito, ai tuoi verdi anni correvi.
Sul piano della normale communicazione, ben poco dicono: “Felice te che da giovane navigavi tanto”. Ma sul piano della poesia, quale profondo e ineguagliabile Musica, e quale forza espressiva!
Arrivo addirittura a dire, a questo proposito, che la lingua condiziona in certo senso il poeta.
Se Racine fosse stato italiano, o meglio se avesse scritto in italiano, chissà che avrebbe detto in luogo di La fille de Minos et de Pasiphaé, verso giustamente celeberrimo per la ricchezza espressiva della sua musica, quanto del tutto comunissimo come semplice informazione. (Un dato anagrafico, nulla di più).
Eppoi, nel linguaggio poetico, la funzione della rima, quando se ne vuol far uso. Una funzione non certo esornativa, tanto per carezzare l’orecchio, ma una funzione portante, pari a quella delle consonanze e dissonanze in polifonia, o, in architettura, a quella delle colonne che reggono l’arco. Idea che chiama idea, magari per generare una terza idea taciuta.
Si leggano soltanto le rime dell’incipit della Comedia: la vita (la via) smarrita; la selva (la paura) dura, oscura. Si ha già la chiave del primo Canto dell’Inferno.
È per questa peculiarità del linguaggio poetico che anch’io sto dalla parte che ritiene intraducibile la poesia, e di chi crede pressoché impossibile la sua riduzione in termini logici.
Basta spostare un vocabolo – un accento – e l’incanto è rotto. Viene a mancare, appunto, l’energia espressiva della Musica. Della Musica, dico, non della musicalità. E quindi resta polverizzata la poesia: il valore espressivo che la parole assume, con la musica, oltre il senso letterale, caricandosi o arricchendosi di quella pluralità di significati (di risonanze mentali) da me fa poco fa chiamati gli “armonici”.
Mi si consenta una parentesi. Non voglio certamente affermare, con questo, che il poeta non debba avere un suo pensiero e una sua “visione del mondo”, e che gli basti la musica per far poesia. Voglio semplicemente ribadire ch’è soprattutto in virtù della musica della parola ch’egli riesce a suscitare nel lettore – più che a comunicare per via diretta – le proprie emozioni e riflessioni: le proprie idee.
Ragione di più – se non proprio ragione prima – perché un testo poetico concepito in una determinata lingua, e perciò appartenente a una determinata cultura, non possa esser fotocopiato in altra lingua: ossia nell’ambito di una diversa cultura o tradizione.
Al massimo, se il traduttore è un poeta, può nascere (come un figlio che tenga dell’uno e dell’altro genitore) un testo che pur rassomigliando alla personalità del tradotto e a quella del traduttore, non è precisamente né l’uno né l’altro.
Il problema si fa ancore più arduo, quando si tenta il trasporto da una civiltà d’oggi o della nostra regione culturale. È un problema – sia detto di sfuggita – che trovo toccato con estrema acutezza e precisione in una nota apposta da Bruno Gentili (‘La traduzione dei lirici. Osservazioni sul problema del tradurre’) al suo recente Poesia e pubblico nella Grecia antica, libro all’unanimità riconosciuto di fondamentale importanza, profondo quanto originalissimo nella sua autonoma e davvero nuova impostazione.
Come mai, mi domando allora, nonostante tali mie convinzioni, ho tradotto tanto? È una domanda che in anticipo rifiuta, non occorre dirlo, ogni risposta di tipo utilitario, filantropia culturale compresa. Ma in sostituzione, quale risposta giusta esige? Da parte mia non so darla, e di questo davvero arrossisco, giacché non vi è nulla più anacronistico, in quest’era in cui tutto s’è tramutato in scienza o raziocinio, d’uno che par rimasto, come me, all’epoca della caverna, o che ancora ragiona come avrebbe ragionato un artigiano dell’età comunale. Evidentamente m’è restata una mentalità arcaica, borghigiana. Dirò soltanto che in me la spinta a tradurre, identica all’urgenza del mio scrivere in proprio, forse è nata dalla certezza che ogni poeta vero, più che inventare, scopre: desta e pone in luce in noi – per dirla con René Char – dei bouts d’existence. Talché anche nell’atto della traduzione (né sembri un paradosso) chi scopre non è il traduttore, ma il poeta che vien tradotto, il quale investendo il traduttore del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che già era in lui, ma dormiente: notturno; e questo in quanto ogni poeta è un uomo e il suo mondo è quello dell’uomo; e tutto il piacere del traduttore (se piacere può dirsi) , tutta l’impellente attrazione che lo induce a tradurre, concsiste nel sentire e godere, grazie a quel certo testo, un allargamento nel campo della propria esperienza e coscienza: del proprio essere o esistere, più che del conoscere.
Passando ad altro, sempre in tema di poesia, ma non più soltanto di linguaggio poetico.
Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. O, per esser più modesti e precisi, una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mèzigues (o <<me stessi>>) che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi.
Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stratti superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscenza.
L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze, a costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare.
Mi par che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto nel profondo di se stesso una verità che vale per tutti, e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa del Principe capace di svegliarla.
E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo.
Un’ultima considerazione vorrei aggiungere, prima di chiudere. Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione. La socieà in cui viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre gli individui a una somma di “consumatori”, ai quali – nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali – si vorrebbero imporre bisogni artificialmente creati per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni scelta interiore.
Il poeta è il più deciso oppositore, per sua propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia.
Ho fisse in mente queste parole di Kierkegaard: “Si è abolito il Cristianesimo, perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità. Pare che si tema che l’Io debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato e nascosto…”.
A distanza di ben oltre un secolo, sono parole di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido – quasi contemporanee – le altre del Leopardi, profetizzanti un’”età delle macchine”, così detta “non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio” perché “ormai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattono le cose umane e fanno le opere della vita”, fino a “venire a comprendere oltre che le cose materiali, anche le spirituali”. Ma ecco che a vincere in me la desolante tentazione di una totale chamade, ecco che in questa nostra civiltà o cultura così asimmetrica e friabile (e ahimé così crudele nella sua bêtise di fondo), giunge a mio sommo conforto l’odierna austera cerimonia, in cui mi compiaccio di vedere, oltre che il più ambito anche se immeritatissimo coronamento della mia lunga – e mi si permetta di dire mai alterate – fedeltà alla poesia stessa, che in sé assomma tutti i più alti valori del Spirito.
Anche per questo – e soprattutto per questo – mi si conceda di rinnovare la mia gratitudine immensa verso l’Universià e la città di Urbino, chiedendo venia per la pochezza delle mie parole, certissimamente incapaci di esprimere intero, insieme col più profondo turbamento, l’intimo giubilo e orgoglio.
Giorgio Caproni
(Univrsità di Urbino , 1 dicembre 1984: trascrizione dell’intervento tenuto delll’autore in occasione dell’assegnazione della Laurea Honoris Causa).
Immagine in evidenza: Foto di Eliana Leshaj.