“FUTURE” (Effequ, 2019): un grido d’amore e d’allarme – Recensione di Amina Abducarim

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FUTURE – Il domani narrato dalle voci di oggi. A cura di Igiaba Scego

Autrici: Marie Moïse (Milano), Djarah Kan (S. Maria Capua Vetere), Angelica Pesarini (Roma), Ndack Mbaye (Dakar), Lucia Ghebreghiorges (Roma), Leaticia Ouedraogo (Ouagadougou), Addes Tesfamariam (Milano), Leila El Houssi (Padova), Alesa Herero (Roma), Wii (Khourigba), Esperance Hakuzwimana Ripanti (Rubaya).

Edito da Effequ, 2019.

 

L’ultima frontiera, la pelle nera.

FUTURE rappresenta le voci di undici donne contemporanee italiane che hanno voluto lanciare un grido d’amore e d’allarme verso il loro Paese, dove per troppo sono state marginalizzate dal discorso pubblico, rispondendo così ad uno stato di necessità per una nuova consapevolezza liberata, una presa di coscienza in cui si elabora il sentimento di appartenenza a una terra che è sempre stata crogiolo di migrazioni e culla di diversità.

L’intento dichiarato: realizzare il proprio futuro, ontologicamente, non solo immaginarlo: “…abbiamo inondato il mondo della nostra sofferenza, ma finalmente l’abbiamo lasciata defluire. La rabbia aveva frantumato gli argini di quell’isola di inesistenza. Abbiamo liberato la nostra patologia, senza più costrizioni né amputazioni. E il discorso finalmente ha avuto le sue parole, quelle dei nostri desideri più appassionati”, così enuncia Marie Moïse alla fine del racconto Abbiamo pianto un fiume di risate (pag. 53), regalandoci una patologia etimologica composta da passione e logica, oltre il trauma subìto: una conquista di successo.

Il libro è un esercizio corale di autenticità nato da una dirompente forza vitale in cui ci si interroga profondamente sulle proprie radici, identità, cultura e lingua per comprendere appieno il senso più profondo di sé, in un ambiente in cui si è stati stigmatizzati perché non rientranti nel canone estetico standard: “Papà ed io siamo nati in Burkina Faso e in Italia abbiamo scoperto di essere neri, come tanti altri. Mathys invece è stato molto più fortunato di noi due: è nato in Italia, e lo ha scoperto quasi subito di essere nero.”, l’incipit del racconto Nassan Tenga, narrazione, come quella di Moïse, a focalizzazione interna ma a opera di Leticia Ouedraogo (pag. 99). Lo stile è diretto e duro per il lettore che non sia abituato a subire episodi di razzismo.

Un vademecum introspettivo nell’Italia di oggi sulle necessità delle seconde e terze generazioni dei cittadini immigrati; libro che, tuttavia, per una corretta veicolazione del messaggio richiede al lettore un approccio sincero come prerequisito indispensabile per il superamento al proprio pudore, con annessa l’intera quota di responsabilità e solitudine che ciò potrebbe implicare. Queste le condizioni ideali per addentrarsi e avvicinarsi alle vicende narrate. Nessuna delega a terzi e nessuno sconto verso sé stessi: la potenza e il coraggio contraddistinguono i racconti di tutte le autrici.

Solo con questa predisposizione al viaggio introspettivo la dirompenza dei personaggi può insegnarci come sia la realtà del nostro Paese sia il linguaggio utilizzato per descriverla siano assolutamente perfettibili; come ciò sia diventato un imperativo categorico impellente giacché l’Italia alberga ormai decine di migliaia di cittadini neri che semplicemente rivendicano il proprio diritto di essere italiani come gli tutti gli altri.

“Poi aveva imparato a leggere e aveva scoperto che a Roma non ci era nata, ci era arrivata e chi arriva non è cittadino. E chi non è cittadino non nasce, semplicemente arriva. E come arriva se ne va, da dove è arrivato, da dove è venuto. […] Se l’era chiesto tante volte dove se ne sarebbe potuta andare, o dove credevano che se ne dovesse andare”, confida la narratrice di Eppure c’era odore di pioggia, di Alesa Herero (pag. 153). Ammetto di essermelo chiesto anch’io infinite volte e di aver posto la questione in Questura in tutte le occasioni in cui ho dovuto rinnovare il permesso di soggiorno, sebbene nata in centro a Roma e la mia famiglia risiedesse in Italia. Una sorta di contrappasso per una colpa mai commessa. La riposta, sempre uguale: le leggi dello Stato non sono ad-personam, non prevedono singoli casi. Questo trent’anni fa. Di conseguenza le autrici, investite loro malgrado da un opprimente senso di responsabilità a causa della propria diversità, consce del proprio ruolo, con resistenza e resilienza si sono esposte per varcare l’ultima innominabile barriera, quella geografica stampata sul corpo e che tanti sentono di poter giudicare: la frontiera della pelle nera. “C’è la modalità bianca e c’è il suo opposto. Ma il contrario del normale non è semplicemente l’anormale. La normalità è la condizione di chi ha il potere di farti sentire sbagliato, di sancirti inferiore, di marchiarti come fallito. L’opposto della normalità bianca è il fallimento”, esplicita molto bene la narrazione onnisciente di Moïse (pag. 41).

Quando ho finito di leggere il libro la prima volta, io stessa, donna nera italiana ultraquarantenne, ho dovuto scandagliare la mia storia per meglio comprendere quelle evocate negli undici racconti. Complici un’età anagrafica distante e gli enormi cambiamenti culturali e politici che hanno investito il Paese negli ultimi quarant’anni, è stato sconcertante realizzare che neppure io riuscivo in effetti ad immedesimarmi in tutte quelle storie di vita in cui avevo sempre avuto la presunzione di riflettermi. E perché, in fondo, avrei dovuto? Le circostanze storiche, politiche, culturali, sociali ed economiche in cui sono cresciuta erano completamente diverse da quelle attuali, quindi capire e accettare la diversità delle persone che reputavo simili in tutto e per tutto a me, ha richiesto sforzo ed empatia. Insomma, anch’io ho i miei bei pregiudizi come tutti gli altri, duole ammetterlo, ma è proprio questa la rivoluzione copernicana del libro, la sua ragion d’essere e la funzione innovatrice che svolge: affrontare il tema universale dei valori umani da una prospettiva multiculturale, in un’ inedita forma antologica individuale e corale allo stesso tempo, con la chiara nozione della propria esperienza personale a seguito di un’analisi introspettiva sia del senso di appartenenza in ambito privato sia nello spazio pubblico. Perché ogni persona fa storia a sé, compresi i cittadini migranti o figli di immigrati. Infatti, ci si sente appartenenti ad una comunità quando si avverte di essere accettati come singoli membri attivi, quando le differenze sono riconosciute e tollerate e ci si sente connessi gli uni agli altri; trattasi in fondo di un bisogno fondamentale dell’essere umano. Ma cosa succede quando tutto ciò non accade? Opposto al senso di appartenenza vi è quello di alienazione, bassa autostima e poco sentimento di reciprocità.

Nel racconto Lamiere, di Esperance H. Ripanti, l’autrice ci porta in quello che è già il nostro distopico passato, quando si svolse la caccia al nero con le armi: “Awa era ben diversa da come mi sentivo io […], ma il suo sfiorare la rarità era un difetto in un paese terrorizzato dai barconi pieni di disperazione e non dalla disperazione di essere tutti sulla stessa barca. […] Uscivano articoli e servizi speciali, quando di speciale non c’era niente e per le strade l’aria vomitava odio e diffidenza.” (pag. 201).

Laddove mi sono sempre sentita sicura, oggi negli occhi delle persone vedo paura e risentimento: non riconosco più il mio ambiente ed ora so cosa significa vivere in un clima politico di intolleranza.

Il punto di vista delle autrici è quello di una minoranza ostracizzata dalla funzione pubblica e deprivata del proprio spazio sociale a causa tanto di una mancata accettazione culturale quanto dell’attuazione di politiche discriminatorie perpetrate dalle istituzioni. Con estrema lucidità e sofferenza, le autrici perlustrano, descrivono e denunciano lo stillicidio quotidiano delle pratiche razziste cui sono sottoposte, che ne condizionano inesorabilmente l’esistenza con soprusi e ingiustizie, dovendo poi fare i conti con il grave fardello emotivo e psicologico derivante da questa esclusione.

 

Non s’intravede speranza alcuna

Nell’omonimo racconto di Angelica Pesarini, il fardello del colonialismo italiano piomba addosso ai protagonisti come una catastrofe, distruggendo le loro vite ripudiate causa promiscuità sanguigna, deputate cioè fuorilegge dal regime fascista vigente all’epoca in cui sono narrati i fatti riportati nei documenti originali trascritti nel testo. E’ lì che si annida il razzismo stereotipato: nella mancata risoluzione delle dinamiche colonialiste, diluite nel tempo in un’acqua di colonia denominata “italiani brava gente” con cui si sono imbellettati un po’ tutti, senza alcuna coscienza critica che permettesse alla nazione di guardarsi allo specchio, fare i conti con sé stessa ed evolvere in una identità sociale post-coloniale. Ricordo vividamente quando viaggiai a Mogadiscio la prima volta e discutendo con mia nonna materna, le sciorinai tutti i luoghi comuni che avevo studiato a scuola ovvero che gli italiani, in fin dei conti, avevano apportato infrastrutture dove forse ce n’era bisogno, come i famosi “ponti” (sigh). La risposta di nonna mi trafisse e bruciò come un fulmine, asserendo che gli italiani non avevano costruito ponti, nella capitale non ce n’erano, ma sì strade e gli operai dello Stivale, pur di non sporcarsi gli stessi nel fango, utilizzavano ponti “umani” per asfaltare le poche vie costruite.

A questo pensiero, mi si gela il sangue ancora oggi.

“I professori più illuminati erano convinti che i bambini e gli adolescenti come noi, solo perché venivano da contesti e culture diversi, non potessero emanciparsi nel sistema educativo italiano”, ci illumina Leticia Ouedraogo in Nissen Tenga, (pag. 113). Dunque, non è contemplato sviluppo alcuno per l’intelletto e l’affrancamento del corpo nero.

“’Buongiorno signorina, mi sa mica dire chi è che lavora qui?’ Ecco la sciura milanese di mezza età; non si capacita del fatto che, essendo l’unica persona presente al banco, io possa anche essere proprio la persona che sta cercando”, ci dice la protagonista, commessa in uno dei magazzini generali più lussuosi del centro città in La maratona continua, di Addes Tesfamariam (pag. 127); la stessa signorina che poi, una volta all’estero per un master universitario, realizza “[…] che expat se sei nera si dice ‘refugee’” (ibid. pag. 133).

 

Per tutto ciò, le voci eterogenee che scaturiscono con grande vitalità da queste pagine costingono il lettore ad una riflessione sulla propria vita e sull’ambiente in cui ci si muove ogni giorno.  Come davanti a uno specchio, le scrittrici affrontano e dissezionano le relazioni umane, in primis quella con sé stesse, poi quelle con il resto dell’universo. Le italiane Afrodiscendenti con enorme energia scuotono “sia l’attualità sia l’essenza profonda della nostra umanità”, citando le parole della curatrice Igiaba Scego. Non solo; il loro vissuto ne esce caparbiamente vincente perché hanno saputo affrontare una catarsi tramite cui il loro agire (e scrivere) è diventato significativo e imprescindibile: loro si sono affrancate. La questione è come possa farlo anche il resto del Paese.

Purtroppo, ciò che mi ha fatto più riflettere davvero è stato il constatare amaramente quanto fosse cambiato il Paese. Durante la mia infanzia a Roma, città in cui sono nata e cresciuta per parte della mia vita, mi sono sentita accettata e ricordo la mia fanciullezza con serenità, sebbene sempre conscia della mia diversità essendo l’unica nera a scuola e nel quartiere. Quando ho iniziato a fare i primi lavoretti durante l’adolescenza, non ho mai avuto problemi nelle fiere campionarie o nei negozi e quando mi sono specializzata durante l’università, è stato un processo naturale l’inserimento professionale come bibliotecaria o insegnante. Insomma, non ho trovato grandi ostacoli lungo la via. Ad esempio, non esisteva il pregiudizio di classe verso il colore della pelle; anzi, a Roma moltissimi stranieri erano figli di diplomatici e funzionari di organismi internazionali. Il Presidente della Repubblica era un partigiano che ebbi la fortuna di incontrare; la Resistenza, periodo di eroi e perno della Costituzione. Nessuno si permetteva di contestare l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo né di dileggiare i sopravvissuti dei campi di sterminio. Il linguaggio razzista era tabù, non era stato volgarmente sdoganato, né erano state emanate quelle leggi in tema d’immigrazione che negli anni a venire avrebbero determinato la nascita dei primi centri d’accoglienza, diventati poi veri e propri centri detentivi coatti di identificazione ed espulsione. I costanti flussi migratori verificatisi negli anni Novanta e Duemila non sono stati affrontati con norme volte a garantire le condizioni per un’equilibrata inclusione sociale, bensì con il cliché dell’emergenza, espediente tramite cui si adottano leggi restrittive sancendo, di fatto, lo sfruttamento e la segregazione di intere fasce della società a vantaggio di altre. Ovvero espedienti funzionali a una gerarchizzazione organizzativa in cui il gruppo della donne Afrodiscendenti occupa oggi il gradino più basso.  Il divieto di entrata con un visto legale ha generato una nuova strutturazione della società che è andata di pari passo con la frammentazione dell’identità dei figli della diaspora, orfani della loro stessa Madrepatria, che rifiuta loro addirittura il più banale e civile dei riconoscimenti, quello di cittadinanza, che ormai, dopo trent’anni, non è più legge ad-personam.  Relegare in clandestinità un segmento della popolazione destabilizza la società intera, depauperandola culturalmente ed economicamente, soprattutto nel contesto globalizzato di oggi; più diritti significa più doveri.

Fino allo scorso anno, nessuno mi aveva mai insultata per strada per il colore della mia pelle ed è stato scioccante.

 

Mediterraneo, crocevia di civiltà.

Eppure l’Italia, quasi isola al centro del Mediterraneo, è sempre stata il porto naturale aperto fra le rotte del Nord e del Sud del mondo, ce lo insegna la storia dei Popoli del Mare, con le grandi civiltà antiche e con le migrazioni moderne e contemporanee, perciò risulta del tutto anacronistico lottare contro la propria natura. Importante crocevia di incontri, scontri e contaminazioni di ogni genere che hanno posto le basi per il germogliare di valori quali la democrazia, la diversità e la fiducia nel divenire costruito insieme, chiunque vi abbia viaggiato e vissuto sa che gli abitanti delle città costiere del Mediterraneo sentono costantemente l’irresistibile attrazione verso l’”oltre” e l’”altro”.

La responsabilità che ho, come mediterranea, è proprio quella di decostruire un errore di prospettiva ricorrente in quest’epoca post coloniale: c’è da ribilanciare un’identità collettiva che, a un certo punto, è stata rinnegata; si è deciso che il mare non era più una possibilità di crescita e contaminazione trasversale, quanto piuttosto un veicolo di ‘invasione’. Si è deciso che ogni Stato-nazione bastava a se stesso, circoscrivendo lo spazio e facendo finta che i tempi non coesistessero, che il passato fosse passato e che bastasse rinchiudersi nella propria fortezza dando le spalle al Mediterraneo, al Al-Bahr-al-Mutawassit, che non è solo un mare, ovviamente, ma un’identità collettiva soffocata”, scrive Wii in Che ne sarà dei biscotti (pag. 173), racconto biografico scritto in prima persona con uno stile agile, in cui autrice e narratrice coincidono. Wii pone al centro del racconto il tema dell’origine, da cui scaturiscono il suo punto di vista e la sua crescita personale ovvero una risposta che per essere elaborata ha impiegato una vita intera. E non una risposta qualsiasi, ma una prospettiva talmente deflagrante da risultare destabilizzante per chi, non essendo costretto dalle circostanze, non è abituato a interrogarsi in modo così propulsivo. Ella chiede come mai sia così difficile porre le domande corrette a coloro che hanno un aspetto differente, trovare quegli interrogativi che trasportano direttamente oltre i convenevoli e gli stereotipi e che aiuterebbero le persone a conoscersi veramente, cambiando la società e includendo la diversità. La lingua e il modo in cui essa viene utilizzata fungono da agente in base ai quesiti posti; questa azione non è mai neutra, bensì oggetto di veicolazione di precisi messaggi di potere stratificati nella società e volti al mantenimento dello status-quo. Infatti, definire l’interlocutore serve a rafforzare un (pre)giudizio. Dopotutto, può il luogo di nascita contenere l’identità di un’intera vita? Non è affatto detto. Quindi chi o cosa può realmente definire un’esistenza? Forse, suggerisce l’autrice, la vera discriminante è il tempo, intrinsecamente associato allo spazio, non il luogo: “Chi non nasce con radici scava nella mente per cercarle da più vicino”.

 

Nell’incipit di Abbiamo pianto un fiume di risate, ne scrive anche Marie Moïse (pag.37) “Ho passato tutta la mia giovinezza a cercare di recuperare le mie radici, recise da una migrazione da una sponda all’altra dell’Atlantico. […] In quel viaggio, le menti dei miei familiari si erano come scisse, metà qui e metà lì, e a me avevano portato in dono il malessere di chi non è”. Un malessere che iussivamente impone la conoscenza dei desideri e delle passioni scoprendo le proprie radici nell’assenza di radici.

Oppure, paradossalmente, il segreto della propria identità può essere un nome volutamente taciuto, quello che ti colloca nel giusto tempo e nello spazio adeguato in qualsiasi luogo: “E’ il nome che ti permette di stare con la tua famiglia e con i tuoi antenati sempre, ovunque tu vada. Puoi vivere anche alla fine del mondo, da sola e senza nessuno, ma quel nome ti ricorderà sempre da dove vieni e dove puoi arrivare. Hai capito? Non un nome europeo per non dare fastidio ai bianchi quando devono imparare come pronunciare il tuo nome, ma un nome segreto, soltanto tuo, nostro e di nessun altro. Un nome di potere che ti fa guardare avanti, e che tiene insieme tutto. Dio, i tuoi antenati, il tuo futuro”, ci insegna la Zia della protagonista del racconto Il mio nome, di Djarah Kan (pag. 61), narrato anche questo in prima persona.

La nostra identità è l’essenza che definisce la nostra personalità ed essa non potrà mai essere rinchiusa in una legge ingiusta imposta solo ad una minoranza di persone di un determinato Paese, negando loro dignità e rispetto. In un contesto globale, multiculturale, la categoria d’identità sfugge ad ogni previa classificazione e questo libro insegna come il divenire si possa elaborare per appropriarsene attivamente e provvidenzialmente.

“Il futuro del tempo verbale però papà lo usa solo in mooré”, dice la protagonista di Nissen Tenga (pag. 107), denunciando in un’unica frase l’impossibilità di appartenenza al luogo respingente in cui si vive. Il dramma del congelamento dell’anima che non può coniugarsi in divenire. La disgregazione di sé in una costante, ribollente sofferenza emotiva che paralizza ogni emozione e rende impossibile ogni interezza esistenziale, che acuisce anche il divario culturale transgenerazionale -tema di grande rilievo nel contesto migratorio-, degenerando in un abisso difficilmente colmabile. “Il trauma di papà, di un uomo a cui si rifiuta di riconoscere parte del proprio vissuto, si è trasformato nella fobia della carta: la carta dei libri, a cui non vuole più essere familiare come quando faceva l’insegnante, la carta del suo diploma, quasi bruciato dopo l’ennesimo rifiuto di riconoscimento” (ibid. pag 104).

L’accettazione è una fase cruciale e imprescindibile sia per la propria crescita che per la risoluzione di conflitti interni ed esterni e da questa rielaborazione fluisce la forza che scaturisce da tutti i racconti; ci si augura che la crescita sostanzialmente riuscita dei personaggi, in tutti i loro aspetti complessi e stratificati, sia di buon auspicio per quella del Paese in cui essi agiscono. Al contrario, coloro che invece rifuggono questo processo evolutivo semplificando la realtà e banalizzando la propria identità sono destinati all’implosione. E’ decisamente scorretto e deviante proclamare l’uguaglianza universale con coloro che vivono il rifiuto sulla loro pelle, letteralmente; è solo funzionale alla ricusazione dell’argomentazione, un’ulteriore negazione: un bianco che professi uguaglianza e pari diritti con un nero neutralizza proprio quegli strumenti utili allo scopo. Sarebbe più proficuo ragionare con persone dello stesso colore cambiando completamente la narrazione delle minoranze etniche, il che non è un esercizio poi così difficile: basterebbe cambiare il focus chiedendosi se si volesse essere neri in Italia; rispondere con sincerità; ripartire da lì per comprendere tutte le motivazioni intrinseche alla risposta datasi e fornire soluzioni concrete. Poiché anche la semplicità si nutre di fattori complessi che, se debitamente decodificati, selezionati, sviluppati e infine rielaborati, sfociano nell’essenzialità vera, il cuore di tutte le cose vive. “Ho capito tante cose crescendo, ma prima ho avuto tutto il tempo di sentirmi sbagliata e di meditare il suicidio” (ibid. pag. 109).

Nascere e risorgere da questo rifiuto è un atto rivoluzionario in un Paese immobile e stantio, anche a causa di un modello economico esasperato che crea disuguaglianze strutturali che ne hanno paralizzato i canali di mobilità sociale: “I figli di questa prima generazione di migranti sono ora maggiorenni – sono cresciuti in Italia sapendo di essere italiani, ma non sono stati riconosciuti dalla società in generale come ‘italiani veri’; hanno subito umiliazioni razziste da parte delle loro maestre alla scuola superiore o da parte dei loro compagni di scuola, rappresentazioni stereotipate nei media, e in molti casi hanno dovuto affrontare la burocrazia labirintica del processo di naturalizzazione italiano. Queste esperienze condivise hanno scatenato un’identificazione crescente con le categorie ‘afro’ e ‘nero’ come strutture di azione politica collettiva in Italia”, chiarisce Scego.

 

L’incanto della memoria

E’ auspicabile una riflessione collettiva sulla memoria storica per riconoscere e accettare tutte le sofferenze subite dalla comunità meticcia e nera; che gli spazi collettivi del nostro Paese vengano decolonizzati attraverso interventi mirati nelle scuole e in ambito istituzionale, perché è soltanto attraverso l’accettazione di sé che è possibile conoscere e amare il prossimo e il mondo, cioè l’altro da sé.  Ciò vale anche per l’identità e la coesione nazionali: “Il nostro rapporto con il passato, non lo vogliamo più arido e passivo, ma fecondo e conscio. Ci stiamo appropriando del diritto e del dovere di reinvenzione, della nostra voce per cambiare la narrazione. Perché sempre più menti e sensibilità possano capire che l’identità collettiva è aleatoria, complessa e sempre soggetta a nuove rielaborazioni. Mettendo costantemente in dubbio il fatto che essere cittadino di un paese voglia dire corrispondere a un prototipo identitario in cui costringere tutti a immergersi, negando parti fondanti di sé stessi. […]

E non ci affanniamo più alla ricerca di modelli, perché a suon di fatiche e sconfitte, stiamo diventando noi stessi i nostri modelli.

E lo stiamo facendo in una maniera bellissima. Il tipo di bellezza che fa venire le vertigini.”, (Nassan Tenga, pag. 123).

 

E’ questo l’augurio che si rivolge ai lettori e alla nostra Cara Italia.

 

 

 

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Amina Abducarim, genitori somali, nata a cresciuta a Roma. Laureata presso la Scuola Interpreti di Trieste, traduttrice e insegnante per hobby, lavoro a Milano presso il settore non-profit.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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