FRECCE PER UNA FARETRA Terza parte – Mario Eleno

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FRECCE PER UNA FARETRA Terza parte

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Il teatro è un bambino ardimentoso che gioca e si mescola alla violenza della vita, crudelmente e senza inganni né trucchi; è mettere sul piatto della bilancia la propria ciccia, è rischiare tutto, fuori dalla scena, dentro la scena e poi fuori dalla scena, sulle strade difficilmente decifrabili; è una cosa per gente audace, perché il teatro vuol dire che devi batterti a morte col tuo demone personale, e se quello t’infilza nelle viscere e ti apre come un caco, tu devi comunque cavare dalla tua pancia il magnete, la perla, la polpa segreta, la creatura segreta che abita sotto la scorza e aspetta di strabordare in luce, suono magico, voce, alimento!
Il teatro ti scrive addosso e potrebbe farti male, ma se non hai la carne pronta a questo, lascia stare amico, lascia stare.

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Un buon attore non è un intrattenitore che venera e vezzeggia il pubblico, forse è tutto il contrario di questo: è una creatura che inquieta, nel riso, nel dolore e nel pianto, inquieta sempre.

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Beh, sai, forse dico una cosa esagerata, però la dico lo stesso: ecco, forse oggi mi starebbe stretto lavorare su Shakespeare, non mi interessa più, preferisco di gran lunga ascoltare le storie di gente che vive in questo momento assieme a me, di quelli che mi respirano affianco e sudano vicino a me, mi piace sentire il loro odore vivo, voglio stare con loro, essere il loro compagno, a bestemmiare, a immalinconirmi, a esultare e a benedire con loro; magari in passato non la pensavo così, magari smaniavo per Shakespeare, dicevo che era bravo, che era un asso che non avrei sostituito con nessuno, però oggi, in questo momento, nonostante tutto, non me ne frega più niente di lui e della sua opera vecchia cinque secoli.

Voglio dare spazio ai vivi, a chi mi sta accanto pieno di battiti, do le mie orecchie a loro, possono riversarci dentro la loro vita, è il loro turno.

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Certi attori e certi teatri sono come i supermercati: hanno bisogno di una massa di consumatori per tirare a campare.

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La gente, quando parla dei miei lavori, li chiama «spettacoli». Hanno la testa dura. È da nove vite che mi sforzo di ribadire che il teatro è senza spettacolo.

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Il teatro ci dà la chance di ripetere, con tutte le differenze, l’om primordiale della creazione: primaria sillaba schiudente.

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Ascolta amico, a me i teatranti non piacciono. Non dico tutti, non voglio generalizzare, sarebbe sbagliato da parte mia, ce ne stanno di buoni, di molto buoni, ma il tipo medio e mediocre di teatrante non mi piace. Li ho visti come fanno: se ne stanno appollaiati sulle sedie dei caffè a sventagliare le loro rivoluzioni con un pasticcino in una mano e un drink molto costoso nell’altra, fra nuvole di fumo che circoscrivono le loro teste senza cervello. Non ti sembra un comportamento da mezzeseghe questo?

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La salvaguardia del cuore del pianeta: questo è uno scopo nobile che il teatro può perseguire.

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Come attore, come scrittore, e inevitabilmente come uomo, mi chiedo cosa lascerò alle prossime 30.000 generazioni.

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Ieri ho letto due versi immortali davanti a un centinaio di persone e facevano così: IL «COME» VA CAMBIATO CON IL «PERCHÉ» / AMALO «PERCHÉ» TE STESSO.

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Chiedo scusa se a volte ho riempito la scena di fetido orgoglio: per essere attori bisogna rimanere umili come la zolla di terra.

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Un attore in gamba può svilupparsi e diventare “poeta di scena”.

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Non credo che un’opera d’arte abbia fine. Per quel che ne so io, non termina mai.

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Cerco una voce nuda come il tempo senza le vesti del giorno e della notte.

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Disprezzo la pubblicità, la vetrina, la spocchiosa rappresentazione dell’io, la sua mortuaria mercificazione. Mi nutro di ciò che viene dal cielo e dalla terra, e apprendo da questo pianeta, e dagli astri, la lezione di chi rinuncia al chiasso.
Fossero gli artisti riservati come le stelle!

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C’è gente che mi chiede cosa faccio nella vita, che mestiere. Quando rispondo mi sento scemo, perché non rispondo mai la cosa giusta. Difatti gli dico che scrivo e lavoro in teatro, però non è quello che vorrei dire, è una risposta poco generosa, molto scheletrica. Dovrei dire piuttosto che mi piace fare il lavoro della torcia, che ci provo. Il lavoro della torcia che brucia sé stessa e che illumina.

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Il giudizio che gli altri hanno di te potrebbe essere il tuo inferno, ma se tu non ci caschi, se non ci fai caso, se te ne infischi, libera, distaccata, spassionata, vivrai assoluta e olimpica, e la grazia s’impossesserà di te.

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Il teatro sei tu, senti a me: scendi nel buio di te stesso, vai a vedere che c’è, e se non trovi niente, il vuoto, il nulla completo, il perfetto vuoto, se non trovi materia nel volume del tuo spazio, non pensare che questo sia brutto, non andartene da un’altra parte, perché quello è il punto da dove cominciare, quello è il campo che sprigiona pianeti, stelle, fiori d’arancio, è la spaziatura gravitazionale della creazione e della trasformazione, è dove avviene la prima scarica di energia, così va il mondo, sicché, non farti prendere dalla strizza, non risalire, non essere una schiappa, a te non resta che fenderlo con la lamina dei tuoi piedi, e farlo scintillare, il vuoto infinito, lo spiazzo senza mura, il teatro.

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Chi vive con mediocrità i propri sentimenti dovrebbe essere bandito dal teatro.

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Il mio computo attoriale è di innescare un corto circuito nella massa sedata, in narcosi, rimbecillita dal Potere, affinché fuori da essa sorga finalmente, si elevi, l’individuo scevro dalle Padronanze, il temperamento audace, la personalità eroica, capace di generarsi dal suo stesso sangue, una seconda volta, attraverso l’uso caparbio e sagace delle proprie massime potenzialità.

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Il teatro può essere l’istante ignoto, inatteso, sovente allucinatorio; è una dinamica bruciante che scatena forze che dirompono dalla carne e destabilizzano l’ordine comandato.

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Il teatro è dentro il petto, dentro il petto è buio pesto, chi ha cuore scende, chi non ce l’ha resta agonizzante sotto i riflettori pesanti della frivolezza, sempre inconsapevole della sua agonia.

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Il teatro, checché se ne dica, è come la poesia: non può essere mutato in merce consumabile.

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Un buon attore tiene stretta in una mano la prassi e nell’altra tiene salda la teoria del teatro.

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Il teatro è il telaio dove puoi ordire, nel tempo di un’ora, il divenire mobile dell’eternità.

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Mi piace vedere un’attrice quando danza con corpo violento di tempesta.

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Il teatro è lo specchio dove ti specchi, ma che non ti rimanda l’immagine che di te conosci.

107
Quando salgo sulla pedana del teatro è come salire sopra un ring, è una sfida, il pugile sono io, ma il pugile che sfido sono sempre io.

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Spero che sulle suole di queste scarpe rubate in costumeria ci sia scritta la rotta per arrivare nell’anima di ognuno.

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Ecco una mia idea di attore: un essere alato che scala le vertigini da cui precipitare.

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Qual è il mio obiettivo come attore? Sarò un pazzo, ma adesso lo dico: diventare come uno che ha sulla testa il Sole, che ha un pampino per bandoliera, che ha in bocca il fiore profondo, che ha per scialle tutti i cieli cuciti assieme, che ha per capigliatura la scapigliatura dei flutti e per occhi i vetri infranti della Luna, che ha le radici dei nervi avvinghiate alla Terra, che ha dietro lo sterno il cuore del mondo e che ha il ventre fatto affinché ci giri dentro il cosmo.

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Spesso i registi sono tizi poco raccomandabili che si sfiniscono dietro un tavolino puzzolente e finiscono per cuocerti nel loro sugo acido. I registi spesso sono peggio di uno spillone avvelenato che ti si conficca nella tempia e ti riempie di sonno malefico.

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Il teatro inizia prima della scena, nella vita che freme dentro; è già nella carne e sulla carne e sotto la carne; e non finisce sulla scena, perché continua nelle vie segrete del sangue.

113
Il teatro è come un gomitolo di scintille che rotola: sta a noi sdipanarlo, afferrare le scintille a una a una e poi andare in giro rischiarando le idee.

114
Che me ne faccio di un teatro che non esce fuori dal teatro? Che me ne faccio di un teatro che non mette al rovescio la vita?

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Penso che l’attore debba essere come uno scavatore di pozzi: il suo intento è trapanare fino alla miniera della luce, laddove brilla una scoperta.

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Il teatro può essere studiato? Certo che sì, se c’è il desiderio, certo che sì. D’altronde il verbo studiare non si può slegare dal verbo desiderare, poiché

l’etimo dice chiaro: studēre è uguale a «desiderare vivamente». Difatti lo studium è la cura con cui il desideroso si tuffa nella materia. Ebbene sì, si può tendere con impeto al teatro e concepire un luogo che favorisca lo sviluppo delle capacità attoriali, dove si possa esplorare il vasto campo del teatro, farlo con dedizione, abnegazione, passione che è coraggio fisico e spirituale, forza fino allo stremo delle forze, esercizio messo in atto dal temerario risoluto e mosso da una vivace inclinazione al desiderio della scena.

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Tu mi chiedi che cos’è il teatro, amore? È una forza che sento di non poter mai afferrare totalmente, fatalmente troppo sgusciante per le mie mani. Il teatro è una nave marina che leva l’ancora e barcolla folle come la Terra quando girandola attorno al Sole. Il teatro è come una strada calata nella notte bella e nera, mezza gioiosa e mezza tenebrosa, una strada su cui transitano le anime nude, traslucide, che entrano nel fascio bianco dei fari come fantasmi richiamati da un canto, scagionati per un attimo dal buio a cui sono dannati. Il teatro è il diamante che fu divelto dalla testa della Creazione. Il teatro è una magia per quelle valenti creature che si strappano dal cuore una forza rotatoria, un nerbo che muove un nuovo cominciamento delle cose. Il teatro è una faretra da cui si estraggono frecce che sono visioni. Il teatro è pure una rupe da scalare, ma pochi arrivano a non avere niente fra la propria faccia e la guancia grande della faccia del cielo. E cos’altro è il teatro? Un’ala di fata e sopra ci sta un bambino in carrozza che lancia sputi stellanti verso l’infinito che gli oscilla davanti.

Mario Eleno

Segue fotoreportage dello lettura/performance TEATRO PORTO APERTO  a cura dell’Asteron Arche Teatro di Mario Eleno, con la  regia di Manuela Muse a Genova il 29 Giugno

 

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Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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