Nel numero 10 della Macchina Sognante vogliamo rendere omaggio a Franca Rame. Lo facciamo ripubblicando la testimonianza auto-biografica che segue, apparsa per la prima volta sulla rivista Teatri delle Diversità. È una pagina di diario, un sorta di monologo teatrale tipico della scrittura di scena asciutta e senza sbavature di Franca Rame. Un monologo che permette di capire meglio il carattere e la personalità artistica di Franca Rame, una delle voci più alte e coerenti della drammaturgia italiana al femminile, oltre che presenza umana e civile insostituibile. Fra i tanti esempi di coerenza e dignità politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, è quello delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica, dopo essere stata eletta come indipendente nelle liste dell’Italia dei Valori. Lo ha fatto in modo trasparente, come sempre. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed esemplare che andrebbe riletta e commentata ancora oggi, durante l’ora di educazione civica nelle Scuole Medie, nei Licei e nelle Università del nostro paese. Forse anche per questo la stampa e i media che normalmente sono soliti glorificare il nulla, con un’assiduità colpevole che rasenta l’inverosimile, non l’amavano affatto. E l’hanno dimenticata rapidamente. I capo redattori preferivano mandare in macchina baggianate tipo: “Franca Rame insulta il Papa Benedetto XVI”, allora in carica e ora Papa dimissionario e in pensione. Semplicemente perché Franca, magari in un giorno di sole e buon umore, con tutto il rispetto dovuto, ebbe modo di ricordava al mondo che da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non ha l’utero. Ora siamo nella fase successiva, ulteriormente deteriorata: è il tempo delle fake-news delle tempeste mediatiche che vorrebbero disintegrare ogni produzione e testimonianza artistica, processi creativi, informazioni e contenuti politici umani e formativi;suggerendo come unica medicina il silenzio. Un silenzio che, amio avviso, sarebbe ugualmente e diversamente colpevole, schierato dalla parte di una frammentazione accentuata del pensiero. Esiste un pensare dissociato dalla parola che lo renda manifesto?
Un’altra dote di Franca Rame, che non tutti conoscono, consiste nel non aver mai voluto distinguere fra sfera personale e politica. Spesso a tanti, e a chi come me ha avuto modo di lavorarci assieme per ann, ripetevai: ciò che appartiene alla sfera ‘personale’ appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa. Era ed è il nodo centrale del suo teatro femminile; di ogni suo discorso che riguardasse i rapporti strettamente personali, l’etica, la giustizia, la possibilità di un futuro migliore della nostra società; di ogni società a dire il vero. In questo Franca Rame era una persona a modo suo religiosa; un pò marxista e un pò francescana ‘sine glossa’; a volte dolcissima e a volte infleassibile, benché pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva, la interpretava e da anni numerosissimo l’ascoltava, lo sapeva; dato che i monologhi femminili di Franca Rame e del premio Nobel Dario Fo spesso erano un punto di riferimento teatrale espressivo e opposizione autentica ad ogni sopruso, sistema politico e genere di oppressione.
Non solo la drammaturgia dei monologhi femminili, ma di gran parte delle opere del premio Nobel Dario Fo sono state fortemente rimodellate dall’intelligenza attorale e coraggio politico di Franca Rame. Spesso, come nel monologo che segue, Franca ha ripreso il tema della madre come figura primordiale ineludibile. Non a caso i titoli dei suoi monologhi più famosi: “Medea”, “Maria alla Croce” di Mistero Buffo, o “ Mamma Togni”, “Michele lu lanzone”, “Il risveglio”, “Sesso?, grazie tanto per gradire”, “La marjuana della mamma è la più bella” , o episodi di natura autobiografica come “Lo stupro” , “Il diario di Eva”, etc; sono testi in cui la struttura dell’archetipo della madre trova una sua contemporaneità e risonanza. È la testimonianza del processo di trasformazione e presa di coscienza tangibile del mondo femminile; come punto di transito, luogo ideale e reale di trasformazione di una donna del XX secolo che ha fatto uso del palcoscenico per darsi voce e coraggio.
Questo frammeto è uno degli ultimi testi scritti da lei. La testimonianza di una donna che vorremmo proiettata nel cielo dei tempi che verranno, di quello che noi chiamiamo il ‘nostro futuro’. Un futuro che, non dimentichiamolo, sarà ciò che saremo; non disgiunto dalle grida assordanti degli apocalittici, la voracità dei teologi del proprio tornaconto, la cecità dei professionisti della lacrima, le astuzie dei nuovi carnefici e stupratori di turno, gli inconfessabili sogni di successo personale nel naufragio generale di politici corrotti, gli applausi degli integrati e dei violenti, assieme alle chiare e auspicabili “nostre resistenze”.
W.V.
RITORNO ALLA VITA
Alcatraz, 8 agosto 2000
Una luna esagerata.
Settembre.
Da fuori viene un’aria ancora tiepida. Guardo il cielo e le sue stelle. Tante
e non mi danno nulla.
Il giorno è lontano.
Morte di mia madre.
Non ho sonno. Gli occhi mi bruciano, ma non ho sonno. Sono rientrata da poco. Ho recitato un po’ distratta, col pensiero in questa cameretta. Mi appoggio meglio alla poltrona.
Ho posato in grembo il detergente per lo strucco. I clinex.
Me lo passo sul viso, con sospiri lunghi. Di quelli che ti sconquassano l’anima.
Non avrei voluto mai vivere questo momento.
La guardo. Lei è lì che sta faticando a morire.
Un rantolo costante da giorni ci segue in ogni stanza.
La sua mano che tengo più che posso nella mia, è tiepida, se non fosse per quel respiro strozzato che le esce e le labbra spaccate per l’arsura, potrebbe sembrare una bellissima anziana signora addormentata.
“Sì, mamma, ora te le inumidisco” – mi viene normale parlale come mi sentisse. Da una tazza prendo la garza intinta nell’acqua, delicatamente gliela passo sulle labbra. Sulle gengive. Qualche goccia sulla lingua. Mi sembra che ne succhi un po. Chissà.
“Sono qui, mamma. Sono qui, dammi la mano”.
La casa dorme. Anche l’infermiera della notte, riposa.
In questi lunghi solitari silenziosi momenti, il pensiero fa salti qua e là nella nostra vita. Penso sia una cosa normale: come tirare le somme, mettere in fila i ricordi. Il passato ti viene davanti a saltelloni, il bello e il brutto, sorridi e ti rattristi in un attimo… tutto è così veloce.
Sento mamma che mi racconta della sua infanzia: “Che ragazzina generosa la Sgarbina, figlia del nostro droghiere… quando andavamo da lei subito si metteva una caramella in bocca, la succhiava un po’, poi me la regalava.”
Mi vedo la scena con un sorriso. Che m’è venuto in mente?
La mia famiglia.
Non ho conosciuto nessun nonno e da piccola invidiavo le bambine che li avevano.
Cerco di immaginare mia madre tra i suoi, una famiglia medio-borghese… il padre ingegnere del Comune di Bobbio, o forse solo geometra,. Ingegnere sì… ma poveri come l’acqua… ricchi solo di dignità e pregiudizi. Di pregiudizi mia madre era miliardaria! la mia nonna, casalinga, tirava avanti con gran fatica la famiglia.. Undici figli: sette femmine quattro maschi. Appartenevano a una certa classe sociale, ma con troppe bocche da sfamare e da far studiare. Maschi e femmine non potevano mai uscire tutti insieme: mancavano le scarpe.
Donna bravissima la mia mamma… perbeeene! Maestra. Cattolica-fervente-praticante… e votante! Per tutta la vita ha votato Democrazia Cristiana. Che mi ha dato dei dispiaceri! Una spina nel cuore! L’ho perdonata…
L’Emilia, la mia mamma, a 17 anni diventa maestra. Per quei tempi era già tanto. La mandano a insegnare in una scuola sperduta in montagna ad una ventina di chilometri da Bobbio. Viene ospitata da un cugino prete, giovane, grasso e gentile. Il povero pretino si innamora perdutamente di lei. Per quanto cercasse aiuto nel Signore un bel momento, bruttissimo per la giovane cattolica-fervente-praticante-Emilia, le palesa il suo perdimento. Si vuole spretare e tenta pure di baciarla. Vola un ceffone sul facciotto pallido dell’impunito e quasi soffocando per l’indignazione, l’integerrima maestrina, se ne torna a casa dai genitori, a piedi, che era già scuro… E c’era pure la neve.
Quanto fervore nella tua voce, quanta indignazione, mamma. Dopo tanti anni è sempre come fosse ieri, nella tua testa, indelebile. Fotografia mai ingiallita.
Credo sia stato l’unico momento “vergognoso” come lei lo definisce, della sua vita. “Ma mamma, quel povero pretino, in quel paesino sperduto in montagna… potevi anche darglielo un bacino…” le dicevo ridendo. “Mai. Si vergogni!” Chissà da quanto è morto. “All’inferno! Sarà certamente all’inferno!” A 85 anni, e non era la prima volta, a Cesenatico, mi chiede di confessarsi. Dario, in bicicletta va a chiamare il prete. Lo vedevamo tutte le estati, sempre a confessare mammà. Aperto, intelligente, un buon cristiano. Li lasciavamo soli. Parlottavano per una mezz’oretta. Lei, seduta, compunta, seria, con gli occhi bassi come bruciasse ancora di vergogna per tanta offesa. Lui, con la bocca piena di biscotti, la rincuorava. Li spiavo dalla finestra sciogliendomi di tenerezza.
Quando usciva gli chiedevo: “Ha visto che peccati tremendi ha fatto la mia mamma? E’ sempre quello eh… il povero pretino… e il ceffone…” Lui se ne andava ridendo intascando l’offerta per la chiesa. In bicicletta.
Di mio padre si innamora poco dopo la storia del pretino.
Me la immagino. La vedo giovane, bellissima. E quando dico bellissima voglio proprio dire “bellissima”, senza alcun aiuto. (Nessuno di noi, quattro figli, pur assomigliandole, s’è avvicinato a tanta autentica beltà).
Arriva il principe azzurro.
Mio padre Domenico Rame: “marionettista girovago” con il suo carro, il fratello Tommaso, la sorella Stella, il padre Pio, grande estimatore di Garibaldi tanto da portare una barba come la sua. L’unico ritratto in nostro possesso lo raffigura vestito e somigliante all’eroe dei due mondi! A quel tempo, in un paesotto (ora cittadina) come Bobbio, l’arrivo delle marionette doveva essere certamente un evento.
Il fatidico incontro.
Si conoscono a carnevale ad un gran ballo, le sette sorelle Baldini con costumi d’epoca cuciti da loro stesse, folgoravano i maschi presenti sotto lo sguardo attento di tutta la famiglia. Lui… il mio papà… “Era bellissimo! Aveva un costume azzurro… M’ha invitato a ballare sette volte. E mi stringeva anche!” cinguettava mia madre illuminata dal ricordo e per nulla imbarazzata da tanto ardire.
Fulminati.
Lui, finita la stagione in quel di Bobbio, se ne va. Lei sicuramente piange.
Dopo un anno di lettere d’amore il Domenico torna. Si sposano con grande scandalo della famiglia e del paese. E sì, perché tutte le altre sorelle erano fidanzate con tipi ben piazzati, il professore, il giudice, il direttore di banca. Lei no: il marionettista, col suo carro e senza fissa dimora. Altro che scandalo.
Bellissima, giovane, innamorata, cerca con tutte le sue forze di adeguarsi alla nuova vita, tanto diversa da quella che aveva condotto sino a quel giorno. Aiuta la famiglia come può. Non sa manovrare le marionette, ma si ingegna a cucire vestiti, e rinnova tutto il guardaroba dei pupazzi di legno. A pensarci pare una favola.
E’ molto orgogliosa di quello che fa. Più avanti, dirà qualche battuta.
Con l’avvento del cinema (1920) i fratelli Rame intuiscono che “il teatro delle marionette” sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Decidono un cambiamento radicale la loro condizione (con grande dolore del nonno Pio): “Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette”. Così mio padre con l’Emilia, la zia Stella, lo zio Tommaso con la moglie Maria (nuova recluta della compagnia), si sostituiscono ai pupazzi di legno, vere e proprie sculture, tre delle quali sono esposte al Museo della Scala di Milano. Debuttano nel teatro di” persona”, recitano loro stessi i testi, i personaggi che avevano fino allora interpretato muovendo e doppiando le marionette, e lei, la mia mamma, diventa la prima attrice. Un’attrice che di giorno tirava su i figli, li aiutava a studiare, si occupava della casa, e come una più che provetta casalinga (a tutti gli effetti) teneva l’amministrazione della compagnia come fosse quella di un normale menage familiare. E alla sera, via!… e Giulietta e Tosca, e la Suora Bianca dei “Figli di nessuno”, e la Fantina dei “Miserabili”, tutti ruoli che via via, abbiamo interpretato anche noi figlie e le cugine Ines e Lucia. Mi vedo a percorrere l’apprendistato dei teatranti interpretando tutti i ruoli che crescendo erano adatti alla mia età, maschili o femminili che fossero.
Il vantaggio della compagnia di mio padre rispetto alle altre compagnie di giro, (così si chiamavano le piccole compagnie di provincia) era l’invenzione di impiegare tutti i trucchi scenici del teatro fantastico delle marionette, nel “teatro di persona”: montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù, nella montagna e che man mano che scende s’ingrandisce fino ad entrare in scena con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. Mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in proscenio, che illuminate a dovere ti facevano vedere come era fatto il paradiso. Insomma tutti gli espedienti tecnici dell’antico teatro seicentesco dei Bibbiena, che viveva ancora, dentro la scenotecnica delle marionette.
Soltanto che in quel teatro tutto era stato miniaturizzato, si trattava adesso di eseguire una operazione da Gulliver alla rovescia: da minuto che era, ingrandire ogni oggetto, aggeggio, marchingegno fino a renderlo simile alla realtà.
In questa nuova veste la compagnia di mio padre realizza un successo insperato. Si lavora tutte le sere, 363 giorni l’anno. Si riposava solo il venerdì santo, e il 2 dei morti, a novembre. O se c’era il funerale di un defunto importante del paese: il prefetto, il podestà, il dottore, il prete, il farmacista. La domenica, la compagnia si divideva in due e si faceva doppio spettacolo, pomeriggio e sera.
Mio padre, il capo, con il ruolo di primo attore, manager P.r., lo zio Tommaso nel ruolo dell’antagonista o del comico-brillante a secondo dei testi e di drammaturgo-poeta di compagnia; le mogli, i figli, gli attori scritturati, i dilettanti, gli amici componevano la nostra compagnia. Giravamo cittadine, paesotti e paesini del nord Italia su di una corriera che chiamavamo “Balorda” a causa del comportamento bizzarro che aveva, che più che al suo cattivo carattere andava attribuito agli anni. In certi paesi nei quali ad una certa ora del giorno si passava, nei turnichè particolarmente ripidi, LEI, la vecchia signora, NON CE LA FACEVA. C’erano sempre dei ragazzi che ci aspettavano. Ci spingevano fra tante risate, poi la sera ci raggiungevano ed entravano a godersi lo spettacolo gratis. “Siamo quelli che abbiamo spinto la Balorda.” “Passate”.
Mio padre, amava la Balorda, e zingarone com’era, gioiva tutto nel vedersela rilucente di colori sgargianti. Mia madre, la maestrina-cattolica-di buona famiglia ogni volta che lui le cambiava colore: “non sposeremo mai le nostre figlie!” lamentava col pianto in gola. “Hai ragione Milietta… domani le cambio colore”. E l’indomani quando “Milietta” si affacciava in cortile, ecco la Balorda ridipinta. D’argento!
“Non sposeremo mai le nostre figlie!” bisbigliava rassegnata:
Cos’è?… m’ha stretto la mano?… Trattengo il fiato. Giro appena la lampada del comodino. No, mi è solo parso… Ma forse… Che debbo mai aspettarmi, in che spero? Ha 88 anni, è in coma profondo da oltre 20 giorni.
Fuori è ancora buio. Guardo l’ora. E’ passato poco tempo e mi pare un’eternità.
Finisce la guerra. Bombardamenti non ne avevamo avuti. Qualche bomba sulla fabbrica di aerei: la Macchi, alla periferia di Varese, a Masnago. Masnago… Ricordo una notte che si stava tornando a casa dopo lo spettacolo e veniamo fermati, sia noi che tutti quelli che passavano per quella strada dopo di noi, da un gruppo di fascisti e S.S. Ci hanno fatto entrare in un cortile, (era quello dove abitava uno dei nostri dilettanti, chiamato “Luigino-cassa-da morto”, perchè suo padre le fabbricava) dove siamo stati bloccati per ore. Solo intorno alle 7 ci hanno lasciati andare. Non è stato per niente drammatico, per noi giovani. Dopo poco la serietà degli adulti l’abbiamo cancellata. L’aria, era di festa. La mamma del Luigino-cassa-da-morto, ci aveva offerto qualcosa da mangiare. Si parlava, si rideva nonostante i tedeschi e i fascisti con i loro mitra, giù nel cortile. “E’ arrivata altra gente… stanno fermando tutti.” Cominciamo ad avere sonno, si parla e si ride di meno, qualcuno s’è addormentato.
Sarebbe, questa strana notte, finita in tragedia se col mattino fosse arrivata la notizia del fallimento di una missione tedesca. Ci avrebbero fucilati tutti. L’abbiamo saputo qualche giorno dopo, da Lunardi, un prestigiatore fantastico amico di mio padre, che bazzicava in ambienti fascisti.
L’abbiamo scampata.
Altre volte, capitava che ci fermassero dei partigiani. Non dicevano “siamo partigiani” ma erano in borghese con i mitra “Signor Rame, ci dà un passaggio?” Ci stringevamo e li facevamo salire e via che si riprendeva a cantare. Più avanti, a volte capitava di essere fermati da una pattuglia di fascisti, non chiedevano i documenti, ci conoscevano. Avevamo un permesso speciale per girare con il coprifuoco. “Buona sera signor Rame. Com’è andata?”
Il cuore si fermava per un attimo. “Benissimo! Grazie.” “Buona notte” “Buona notte”. Ce ne andavamo riprendendo a cantare col fiato che si strozzava in gola. I partigiani cantavano più forte di tutti.
“Come va?” “Bene, dorme…” Non mi veniva di dire COMA.
Dario mi dà un bacio. “Va a dormire, ci sto io.” “Non ho sonno…” Come se ne va mi metto a piangere. Che momento orribile. Appoggio la testa. Poi mi rimetto dritta. Non voglio addormentarmi.
“E’ ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni.” E’ mia madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”, così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia sorella Pia in “La passione del Signore” atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore! Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete d’argento ha venduto il suo Signore!”
Non era una gran parte, non ci devo aver messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” diceva la mamma paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!”
Mia madre per i suoi figli era ambiziosissima.
Per l’occasione mi aveva cucito un bellissimo abito bianco da angelo, con due grandi ali bianche e oro appoggiate sulle spalle. Seppur credente non andava mai in chiesa ma aveva il famoso cugino prete. Lei, lo sapeva benissimo che gli angeli erano vestiti così! Mio padre, ormai entrato nel gioco, mi fabbricò una coroncina di lampadine con una pila infilata nelle mutandine, e me la mise in testa.
E’ ora d’andare in scena e tutti: “Ma che bell’angiolino! Ma che bel vestito!” La mia mamma faceva andare la coda e io, lì pronta con le mie ali e le lampadine in testa, a ripetere la battuta. Non mi avevano fatto fare nessuna prova. Sapevo solo che ad un certo punto avrei dovuto seguire mia sorella Pia (Non le piaceva proprio quel personaggio, anche perché entrava praticamente sotto finale e le toccava aspettare tutta la sera il suo momento)
nell’entrata in scena ed ad un segnale della mia mamma sistemata in quinta avrei dovuto gridare “pentiti-pentiti…”.
Il guaio, l’imprevisto che più imprevisto di così non si poteva immaginare fu che il personaggio di Giuda era interpretato da mio zio Tommaso, un uomo che avevo sempre visto calmo, sorridente, che mi raccontava storie bellissime, mi regalava un sacco di divertimenti, al quale volevo molto bene e vedermelo lì, proprio vicino vicino, con una parruccaccia nera in testa… gli occhi che lanciavano saette tra un minaccioso tuonar e lampeggiar nel cielo… che disperato gridava: “Possano i corvi divorarmi le budella, le aquile strapparmi gli occhi!” e altri animali che non ricordo “mi divorino un pezzetto alla volta ad incominciare dalla lingua”, mi fece un terribile effetto. Mamma mia che spavento! Cosa stava capitando?! Ero stravolta, me lo ricordo benissimo. Ma quello che mi buttò completamente fuori, fu il vedere mia sorella, solitamente rispettosa ed educata, che per nulla intimorita gli e ne stava dicendo di tutti i colori! Una sfuriata in piena regola che trascinava il nostro povero zio in una disperazione sempre più nera. “Ma cosa sta capitando? Perchè lo zio Tommaso fa così?” Il groppo che mi sentivo in gola stava per scoppiare. Mia madre dalla quinta mi faceva gesti più che perentori, le sue labbra ripetevano “pentiti pentiti”. Giuro che avrei potuto dire la mia battuta, ma non me la sentivo proprio di rincarare la dose. No, io no, allo zio Tommaso non dico proprio un bel niente! Non so cosa gli sia capitato, poverino. Forse è impazzito.
A piccoli passi, camminando come pensavo camminassero gli angeli, seppur spaventatina, gli sono andata vicino, lui era in ginocchio e gridava più che mai… proprio fuori di testa. Dio che paura! Senza dire una parola mi sono arrampicata al suo collo e l’ho abbracciato, tempestandogli la faccia di baci. Insomma cercavo, con i mezzi che avevo a disposizione, di calmarlo e piangevo nel silenzio che era calato in palcoscenico.
Pia era ammutolita. In quinta mia madre faceva segnali che non prospettavano niente di buono. Lo zio-Giuda si blocca per non più di cinque secondi, giuro. E poi con voce profonda (intanto con la mano solleticava la mia e con gli occhi mi rideva per tranquillizzarmi) dice rivolgendosi al cielo: “Dio, sei grande! A questo orrendo peccatore mandi il conforto… un piccolo angelo… mi tendi la mano… No, no, non me lo merito!” e , dal momento che lo spettacolo doveva pur terminare, taglia corto “M’impicco! Dov’è l’albero più alto? M’impicco!!” Deve usare un po’ di forza per liberarsi da me che proprio non ne voglio sapere di lasciarlo andare ad impiccarsi. Cosa vuol dire impiccarsi? Non lo sapevo ma ero certa fosse una cosa brutta. “L’albero più alto… dov’è l’albero più alto… Lasciami andare angiolino… Lasciami..” e con un urlo agghiacciante esce di scena. Mia sorella (l’unica volta nella sua vita, credo) non sapendo più che fare, camminando anche lei sulle punte, immediatamente lo segue. Grande applauso.
Tutti mi chiamano dalla quinta con grandi cenni. Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco.Ce l’avevo fatta: l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.
“Signora, vada a dormire, è mattina.” È l’infermiera del turno di giorno. Mi corico vestita. “Mi raccomando, mi chiami se…”
di Walter Valeri, per gentile concessione dell’autore
foto in evidenza dall’archivio di Dario Fo e Franca Rame.