FELICIA: I VOLTI DELLA MADRE DI PEPPINO IMPASTATO

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FELICIA.
FRAMMENTI DI FELICIA IMPASTATO.

di Gianni Antonio Palumbo

La pièce di Teodora Mastrototaro si configura come un monologo di Felicia Impastato, madre di Peppino, “militante dell’antimafia sociale”, in una riuscita tessitura di lingua e dialetto siciliano. Le oscillazioni di un’anima ferita sono sapientemente rese attraverso la continua e straniante variazione dei registri. Alla memoria della figura del figlio sono affidati attimi di puro lirismo come quando la protagonista rivela le domande che l’attanagliavano da fanciullo. Eppure sempre compresente è l’idea della mattanza, vera e propria ossessione che percorre il testo per riaffiorare in più segmenti, veicolata soprattutto dalle continue allusioni alla scrofa e ai lattonzoli. Anche la metafora culinaria in posizione incipitaria prelude all’idea dell’inaccettabile mattanza compiuta dalla mafia per autoperpetrarsi. In forme allucinate, eppure a tratti anche profondamente lucide, rivive l’immagine del corpo smembrato di Peppino, come un novello Orfeo della verità. La madre ne conta le membra disiectae, ambisce a ricomporle come Iside, ma la sola vita che potrà donare al figlio è quella della memoria.

Impastato_1Sempre fortemente stranianti gli istanti in cui si assiste a una sorta di regressione temporale, che conduce la donna a rivivere, empaticamente, l’infanzia del bambino, a cantare nenie, assumere ritmi cantilenanti, quasi lallanti. Nelle nenie finisce tuttavia con l’affiorare come un’eco l’orrore (“Glielo do alla sua mamma che gli canta una ninna nanna / a questo bimbo sparso a terra…”) e allora l’allure fiabesca si tinge di nero. A momenti di alta caratura emozionale l’autrice contrappone volutamente altri in cui si assume un’intonazione asettica, per esempio quando è richiamato alla memoria il referto del medico legale, con la nuda descrizione scientifica che ancora una volta fa risaltare il tema della dispersione del corpo dell’individuo, della sua assoluta e inaccettabile profanazione.

Un’opera che si muove per discrasie, aporie, disidentificazioni, a rievocare il mondo di una donna psichicamente distrutta (ma integra nel suo senso morale), che ha visto l’unheimlich del deserto etico penetrare nella sua dimora di sposa, avvelenarne i ritmi, fino a rubarle il figlio tanto amato. Distruggendolo fisicamente e infangandone la memoria. Ecco la genesi della metafora del frammento, alla base anche del sottotitolo. Frammenti di Felicia Impastato vale per l’asistematicità con cui l’autrice registra i pensieri della donna, rivelandone le emozioni, ma anche perché l’entità monologante stessa, sospesa nel tempo mitico delle matres dolorosae, è al contempo Felicia Bartolotta, Sicilia, spettatrice e attrice di una disumana tragedia, madre del lattonzolo destinato al macello sin dalla nascita. In lei coesistono mille voci ed è ella stessa entità cosmica, garbuglio di dolore e granitico coraggio. Questo concetto emerge bene nell’ipnotica sequenza in cui l’attrice si muove come un automa in un incrociarsi di suoni disarmonici (ottimo l’apporto di Daniele Vergni nel progetto sonoro e di Olga Mascolo nella messinscena) e voci registrate che danno vita a un suggestivo momento di sapore metateatrale.

Tutto questo sullo sfondo di un’isola straniata, terra di Sole che rivive poeticamente nella sua ancipite forza di fattore luminoso, ma anche di latore di aridità, non solo climatica. Terra di sangue, cui è connessa la forza metaforica dell’allagare, del trasmettere il virus malefico della mafia. Il sangue affiora costantemente nei pensieri e nelle parole di Felicia, come sangue del parto, sangue del tramonto, sangue che si autogermina, divenendo madre esso stesso di altro cruore. È questo lo scenario che il gioco scenico evoca con maestria, soprattutto grazie all’abilità dell’autrice, che ne è anche la carismatica e lunare interprete.

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Antonio PalumboGianni Antonio Palumbo (http://www.giannipalumbo.it). Alfiere del Lavoro, ha conseguito il Dottorato in Italianistica a Messina. È stato docente a contratto di “Letteratura italiana del Rinascimento” presso l’Università di Foggia; lo è attualmente di “Metodologia della critica letteraria” per l’a.a. 2018-2019. Insegnante di lettere presso il Liceo Classico e Scientifico “Matteo Spinelli” di Giovinazzo, è autore di contributi di critica letteraria sull’Umanesimo-Rinascimento, sulla letteratura contemporanea e delle monografie Vestali in un mondo senza sogni e La biblioteca di un grammatico, dedicata all’umanista Giuniano Maio. Ha edito criticamente i libri VII-IX della Villa di Giovan Battista Della Porta, nell’ambito di un progetto diretto da Francesco Tateo per le Edizioni scientifiche italiane; ha curato anche l’edizione di opere di Benedetto Cocorella e Jacopo Filippo Pellenegra. Ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale a professore di seconda fascia nei settori 10/F1 (Letteratura italiana) e 10/F3 (Linguistica e Filologia italiana). Redattore della rivista «La Vallisa» e dei periodici “Quindici” e “Luce e Vita”, è autore di romanzi, della silloge di poesia “Non alla luna, non al vento di marzo” (Schena, 2006), dei racconti di “Il segreto di Chelidonia” e di pièce teatrali, edite e inedite. È stato Direttore artistico dell’ottava edizione della “Notte bianca della Poesia” presso l’Istituto Vittorio Emanuele II di Giovinazzo (23 giugno 2018); ha ideato, per la stessa, il format dell’ Ostracismo 2.0. Con lo pseudonimo di Giano bifronte critico, è artefice del blog di critica militante https://gianobifrontecritico.wordpress.com/

Foto nell’articolo di Francesco Balestrazzi

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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