Fessura improvvisa
Fessura improvvisa
nel turgido denso calore
d’estate, che incolla i pensieri
come ombra di serra vischioso,
e gonfio di foglie e di umore
come avide labbra di donna,
stupisce
lo scroscio impetuoso dell’acqua
che gronda da nuvole amanti
senz’urlo di vento
né rombo di tuono
né brivido secco di lampi.
Così, come semplice dono
senz’astio o rancore. Soltanto
fragore di pioggia più fresca
e suono
di verde cascata. In un letto
di erba bagnata
tu prendimi, amore. In un campo
percorrimi d’umido tocco
con mani di petali e pioggia.
E scivola dita bagnate
nel soffice e fresco vapore
che s’alza dal tiepido prato
e dalla mia pelle in calore.
E aprimi: fresco, disseta
quest’arso mio grembo. Diventa
un ramo uno stelo una foglia.
Sferzàti dall’acqua che scroscia
stringiamoci, nodi di seta.
Beviamoci, coppe di menta.
Da “SPECCHIETTI”, Giugno 1996
Matadora
C’è un giardino.
E in quel giardino voglio che i miei baci
diventino banderillas
da conficcarti nel collo.
C’è un giardino:
tu lo sai.
E lì
oltre al ciliegio ( ormai invecchiata sposa )
c’è lo scheletro grigio di un castello
di carte. Intreccio vuoto
di metalliche barre. Casa. Gioco.
Alla più alta barra trasversale
come ad un gancio
voglio vederti appeso,
nudo e bianco,
tutto il tuo peso stanco
dall’incavo sorretto dei ginocchi
– alle cosce legate le caviglie
con una corda stretta -.
Lì,
sospeso
come nuova altalena,
come teso lenzuolo di bucato,
voglio osservarti muta,
vederti come sei
in questa prospettiva scombinata
d’un tratto rovesciata
sullo sfondo del prato e della siepe.
Come sarà
la tua testa umiliata?
E i neri ricci infine lasceranno
scoperta la tua fronte
così limpida e bianca?
Sorprendente
la linea da cui piovono i capelli
verso il verde dell’erba!
E tenere e indifese
nere
– nero su bianco –
le ascelle spalancate
a sostenere il peso delle braccia
che cercano il conforto della terra.
Tòrte le spalle
e i lisci òmeri gonfi.
Così esposta la gola,
il collo così stanco…
E il tuo sesso riverso
– oh il tuo sesso: riverso! –
nero su bianco.
Nero su bianco.
E’ odio
questo?
O è forse solamente
una fame carnivora e innocente
che ti vuole legato,
di succo di ciliegie insanguinato,
mio per un giorno almeno
appeso come un toro macellato
nel mio giardino?
Lì ti vorrei lasciare
dondolante sul prato
e scioglierti soltanto nel momento
in cui le stelle appaiono
a spettinare i rami dei ciliegi.
Delle spose i capelli.
E insieme a te nell’erba riposare.
E cento e cento stelle
insieme a te
contare.
Da “POESIE DELL’ODIO, DEL RANCORE, DELL’INDIFFERENZA”
Fondali
Seduto a me di fronte,
le forti cosce aperte
come ponte lanciato ad aspettare
il mio passaggio,
sei un’àncora perduta in fondo al mare.
Guizzano le mie mani
veloci come pesci scintillanti
d’argento, sopra e sotto
di quest’àncora i bracci, e la mia bocca
nuota verso la punta nella sabbia
nascosta. Sono alghe
i miei capelli molli fra le onde
tiepide di quest’acqua. E tutto fonde
in sé il salmastro muoversi del tuo
bacino a me proteso e l’inarcarsi
della mia schiena soggiogata e avvinta.
Cinta dalle catene
d’àncora conficcata sono io.
Mi si discioglie sale nelle vene.
E ritmico fluttuare è il bacio mio.
Da “QUI DOVE PARLA SOLAMENTE IL MARE”
LILITH
Io me ne vado, uomo.
Me ne vado da questo paradiso
terrestre, fatto su misura
non per me ma per te, che sei capace
di renderlo un inferno. Fosse stato
per chi è forte di cuore, non di braccio,
io l’avrei governato con saggezza,
l’avrei dato
ai miei figli com’ era, ancora intatto.
Puro. Splendido. Giusto. E il nostro patto
in eterno ci avrebbe conservato.
Eravamo due parti,
noi, di un unico parto:
nati insieme, una cosa
sola.
E solo
stando uniti, chi ci aveva creato
avremmo rispecchiato.
Ma l’unione indivisa non poteva a sua volta
creare, germinare, dare vita
nel tempo.
Così fummo spezzati. A te andò tutto
quel che è potere, egemonia, egoismo.
A me invece la forza più nascosta,
quella della pace
e del coraggio.
Sarei stata capace, lo sai, di continuare
a servirti per sempre, per amore,
nascondendo per non umiliarti
tutto quel che mi fa, di te, migliore.
Sarei stata domestica, ubbidiente,
quella che è sempre sotto. Quella senza.
Ma in me è giustizia, e anche preveggenza:
ho l’intuito, dove tu hai solo mente.
Così ho visto il futuro,
ho visto Eva,
la maliarda, la finta sottomessa.
L’ho prevista tentarti, l’ho sognata
mentre una mela atroce ti porgeva.
Ti ho capito
debole, assurdo, stupido, bugiardo.
Corrotto da una smania che mi è ignota.
E ho visto nel futuro questo mondo
in cui non ho accettato di abitare.
Ho visto il paradiso trasformato
in un luogo in cui il sangue non è vita
ma sempre e solo frutto di violenza.
Un luogo in cui la legge è la paura.
Un luogo in cui la donna non è pura
se non sta sotto un uomo.
Unica colpa mia: la preveggenza.
Tieni Eva con te, mio sempre amato.
Tieni la giovinezza che ti tenta.
Tieni chi ti fa credere adorato,
chi non ha rughe e si finge contenta.
Io sono Lilith, e non ho peccato.
Me ne vado, sai, uomo? Me ne vado.
Da “CORONA DI SPINE”, Marzo 2018
NOTA. Esiste un mito, tra quelli della Genesi, poco conosciuto e spesso omesso: quello di Lilith. Secondo questo mito sarebbe stata Lilith, e non Eva, la prima donna creata da Dio.
Prima ancora che nell’Antico Testamento, il mito di Lilith compare nelle antiche religioni mesopotamiche ed ebraiche.
Una leggenda antica narra infatti che la prima moglie di Adamo fosse proprio Lilith, creata dalla stessa sostanza del compagno e a questi contemporanea nella nascita. Nel primo capitolo della Genesi si legge: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò “ (Genesi, 1:27; 10), il che fa intuire una creazione simultanea dell’uomo e della donna, quasi un unico essere ancora indiviso, come l’ermafrodito platonico. Nel secondo capitolo si racconta invece, con parole diverse, prima la creazione dell’uomo con polvere del suolo (Genesi 2:7) e poi, solo in un secondo tempo, la creazione, dalla costola di Adamo, della donna chiamata Eva (Genesi 2:22).
Di Lilith si sa che preferì fuggire dal Paradiso Terrestre piuttosto che sottomettersi alla volontà di Dio e di Adamo. Non volle giacere sotto al suo compagno né in senso fisico né in quello simbolico, così andò via, senza aver assaggiato il frutto proibito che l’avrebbe resa corruttibile.
La cultura Medioevale, tuttavia, non ci si mise molto a trasformare la figura di Lilith in quella di un demone. Lilith divenne così nell’immaginario comune sinonimo di male. Nei tarocchi compare come la carta della Luna Nera.
Fedra
L’assurda perfezione del ragazzo
che guizza laggiù al largo
sulla cresta dell’onda,
indifferente al murice spezzato,
alla ruga profonda,
al marcire del mitilo insabbiato,
è crudele a te, Fedra,
come la coppia di gabbiani in volo
dove il cielo è più cupo,
là, oltre il molo.
Fedra, non puoi fermare,
patetica chimera,
il disfarsi impietoso del momento.
Ma nel vento
resta l’idea della bellezza altera.
Da “ISTANTANEE”
Alto mare
Vieni mio amato. Ti aprirò la porta
oltre la quale sarà solo mare.
Guardami dentro gli occhi e gira piano
la chiave. E poi deciso con un passo
oltrepassa la soglia. Qui c’è luce
abbagliante.
Qui c’è caldo.
E sono umide alghe
quelle che ti rinfrescano la pelle.
E’ una conchiglia
il mio seno di sole insaporito
dal sale. E se ci accosti
l’orecchio, puoi sentirci
il richiamo del cuore.
Diventa onda, amore, fatti chiglia
che solca le mie acque.
Lambisci la mia pelle e le mie ciglia
segnando la tua rotta incandescente.
Siano le braccia tue la gonfia vela
che dà riparo alla mia guancia ardente.
Da “QUI DOVE PARLA SOLAMENTE IL MARE”, Giugno 1998
Le cimici
Le cimici
sono già morte da un pezzo.
E’ dunque solamente il mio pensiero
che intestardito sbatte contro il muro
chiuso dentro all’inverno come un pazzo
nella camicia di forza.
Le cimici venivano a morire
nella stanza in settembre.
Cercavano la pianta,
ronzando di quel loro ronzio cupo
e chiocciante
come un pensiero verde e delirante
che a schiacciarlo fa puzza.
Sono morte da un pezzo
le cimici ubriache di ricordo.
E sebbene settembre sia finito
da mesi, inferocito prigioniero
sbatte il pensiero mio, svolazza ancora
dentro il ricordo caldo delle fronde.
Sola,
qui nella stanza dove il freddo
è più freddo che fuori, io non ti amo
più. Eppure strisciano le mani
a frugare l’estate fra le cosce.
Le cimici impazzite,
nel caldo traditore della stanza
sono morte da un pezzo.
E mi impazzisce dentro un desiderio
che ronza sordo
e non è più del cuore o della pelle:
solo voglia di starmene nel caldo
senza ricordo e senza più parole.
Immobile e abbagliata contro un vetro
proprio nel centro esatto
di una chiazza di sole.
Da “POESIE DELL’ODIO, DELRANCORE, DELL’INDIFFERENZA”
Aldina Sommariva è di origine milanese. Ha iniziato a scrivere in versi all’inizio degli anni ’90, dopo aver abitato in varie città sia in Italia sia all’estero. Da sempre affascinata dalla mitologia classica, è stata definita da Giuseppe Conte una poetessa mito-modernista, pur non essendosi mai sentita inquadrata in una particolare corrente. A cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio di questo millennio ha condotto insieme col cantautore e poeta Bruno Lauzi diversi recital di poesia. Suoi componimenti sono stati pubblicati su varie riviste, tra cui “Specchio” de La stampa e “Poesia” di Crocetti. Nel 2001 è stata a lei dedicata un’intera puntata della trasmissione radiofonica “Cortometraggi” (curata da Roberto Baracchini) sui poeti italiani contemporanei. Nel 2017 ha pubblicato per La Mandragora la raccolta “Poesie del malamore”. Attualmente risiede a Imola, dove ha tenuto alcuni corsi laboratoriali sulla scrittura creativa e sulle sue tecniche poetiche.
Immagine di copertina: Disegno di Giacomo Cuttone.