FANTA AL RIBES NERO – Racconto di Makena Onjerika, trad. di Barbara Ricci

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Era nostra sorella e nostra amica, ma Meri non era come noi, sin da quando eravamo toto. Se i buoni samaritani che la domenica venivano a darci cibo e vestiti ci chiedevano cosa volevamo da Dio, alcune di noi dicevano andare a scuola, altre dicevano abbastanza soldi per vivere in una stanza nei bassifondi di Mathare, altre invece, quelle che volevano far vedere che erano rinate, dicevano ‘andare in paradiso’. Ma Meri, voleva solo una Fanta al ribes nero grande, da bere ogni giorno, che non finisse mai.

A Dio è sempre piaciuta Meri. Per le strade, quando stendevamo le mani per chiedere l’elemosina, la gente provava più pena per Meri. Notavano com’era bella con la faccia bruna da Mzung e uno spazio tra i denti davanti. Chiedevano a Meri, dov’è tuo padre e dov’è tua madre? Le davano 10 bob e talvolta anche 20 bob. Per noi che eravamo nere, solo 5 bob.

Noi eravamo tutte gelose di Meri, come una patata bollente che non voleva essere ingoiata. Rubavamo delle cose dalla sua busta di nylon. Solo cose piccole: il pane, il suo rasoio a lama, la sua latta per cucinare. Ma alcune di noi continuavano a essere gelose di Meri e desideravano le capitassero cose brutte.

E poi un giorno Meri finì in TV. È successo così: un ragazzo di nome Wanugu era stato ucciso dalla polizia. Questo Wanugu non era nostro fratello o nostro amico, ma vennero alcuni ragazzi al mjengo dove vivevamo, portavano bastoni e pietre. Hanno detto tutti i chokoraa, ragazzi e ragazze, devono andare in strada a fare rumore per Wanugu. Avevamo paura, ma siamo andate e gridavamo: “Killer, assassini, anche i chokoraa sono persone”. Finché le persone della TV non sono venute a puntarci le loro macchine fotografiche addosso.

Tutte noi volevamo finire in TV. Svelte, svelte, ci siamo tolte la polvere dai vestiti, abbiamo smesso di sorridere per nascondere i denti neri e abbiamo tirato via il moccio dal naso. Tutte noi abbiamo raccontato la storia di Wanugu, di come era stato ucciso con una pistola chiamata AK47, mentre stava seduto lì, nei giardini di Jevanjee, respirando colla e ascoltando il predicatore dell’ora di pranzo dire quanto è bello il paradiso. Non stava mica pensando a quale macchina poter rubare i fari, gli specchietti o le ruote. Tutte noi abbiamo raccontato la storia, ma quella notte, quando siamo andate ai negozi di mhindi per guardarci nei televisori esposti in vendita nelle vetrine, abbiamo visto solo Meri. Stava cantando in Ingrese:

“Meri hada ritro ramp, ritro ramp, ritro ramp.”

Alcune di noi hanno guardato Meri con tanto d’occhi perché non sapevamo che, prima di finire in strada, era stata mandata a scuola, dall’una alle tre, regolare.

Abbiamo detto: “Meri parla Ingrese, l’abbiamo sentita tutte”.

Le abbiamo dato qualche pacca sulle spalle e abbiamo riso, ma dentro di noi abbiamo tutte iniziato ad aver paura che qualcuno stava arrivando a salvare Meri dalla strada. Tutte  noi ci siamo ricordate di come l’anno prima erano arrivate delle persone a salvare un cane che aveva scovato un toto nella spazzatura. Eravamo gelose di Meri.

Lei aveva la testa vuota, non pensava. Anche se era nostra sorella e nostra amica, era inutile, respirava continuamente colla e pensava solo a dove poter trovare una Fanta al ribes nero. Se qualcuno fosse venuto a salvare Meri, tutte noi avremmo detto di essere Meri. Alcune di noi hanno cominciato a lavarsi nel fiume Nairobi, tutti i giorni, per toglierci l’odore di chokoraa, alcune di noi sono andate ai negozi di mhindi, tutti i giorni, ad ascoltare come le persone parlano Ingrese alla TV, alcune di noi hanno iniziato a raccontare lunghe storie su come, tanto tempo fa, anche noi vivevamo in una grande casa.

Ma nessuno venne a salvare Meri. Ai giorni seguirono i giorni e agli anni seguirono gli anni. Non eravamo più toto e il sangue cominciò a uscire tra le gambe. E Meri, perché stava al sole tutto il giorno, passò dal colore marrone al nero, proprio come noi. I parassiti gli entrarono nelle dita dei piedi. I denti le caddero, lasciando dieci spazi in bocca. Respirando colla, si dimenticò il nome di suo padre e il nome di sua madre. Ogni giorno, la testa non gli funzionava e si toglieva i vestiti e si lavava con la terra fino a quando non l’abbiamo inseguita, presa, ci siamo sedute sopra di lei, dandole pizzichi, schiaffi. Le abbiamo tirato i capelli e non ci siamo fermate fino a quando non le uscivamo le lacrime dagli occhi.

Tutte noi eravamo ormai big mama. Quando elemosinavamo soldi per strada, la gente ci guardava le grandi matiti che avevamo appese al petto come manghi maturi. Ci vergognavamo perché loro vedevano che eravamo inutili. Alla fine, tutte noi abbiamo smesso di elemosinare per strada. Anche Meri, ci ha seguito, di notte, quando siamo andate a vedere il Guardiano alla banca.

Disse: “Io, vi sto aiutando solo perché mi fate pena”.

Disse: “Mi pagate solo 10 bob e a voi restano 10 bob”.

Disse: “Vi troverò buoni clienti”.

Disse che era nostro amico, ma quando gli abbiamo chiesto come togliere il toto da dentro la pancia di Meri, ci ha cacciate via, chiamandoci diavoli.

Disse: “Chi vi ha detto che io so come uccidere i toto?”

Tutte noi provavamo pena per Meri. Forse, una volta, dopo che un cliente aveva finito, lei si era dimenticata di lavarsi lì sotto con l’acqua salata. Alcune di noi dissero che conoscevano un modo per rimuovere il toto con il fil di ferro, altre che conoscevano un modo con le foglie di un albero nei giardini di Jevanjee, alcune di noi abbiamo iniziato a piangere, temendo che anche dentro di noi c’era un toto.

Ma Meri, respirava solo colla e cantava una canzone tra sé e sé. Nel mjengo dove stavamo, con due pareti e mezzo tetto, se ne stava seduta tutto il giorno, sotto le scale, non andava da nessuna parte, ci indicava gli uomini che le avevano messo il toto nella pancia. Prima era uno che camminava con un bastone e le dava un nuovo bob da 100, poi diceva che era un mzungu che parla Ingrish col naso, e poi si grattava i parassiti delle dita dei piedi e i pidocchi tra i capelli e diceva che no, era stato l’uomo che l’aveva portata con una macchina nuova in una grande casa e le aveva lavato il corpo e messo il suo olio profumato, dicendole: “Vedi come puoi essere bella”. Ci siamo domandate se stesse pensando di trovare quell’uomo. Se credeva che lui l’avrebbe sposata e l’avrebbe portata a vivere in quella grande casa, a mangiare pane e a bere latte.

Tutte noi abbiamo tirato l’aria tra i denti per fare dei suoni lunghi perché stava pensando come un uovo vuoto. Ma alcune di noi, vedendo come Meri era felice, le abbiamo fatto regali – sapone che bastava per lavarsi tre volte, un pettine con qualche dente rotto, un mango ancora verde. Volevamo che quando il toto usciva, lei non poteva rifiutarci di prenderlo in braccio e toccargli la pancia per farlo ridere.

Alcune di noi hanno iniziato a dirle quale era il nome migliore per il toto. Desideravamo che fosse una femmina, anche se i maschi sono meglio, perché i maschi possono cercare nella spazzatura barattoli, documenti e bottiglie e portarli in un posto a Westland dove glieli pagano in soldi. Ma le femmine sono belle e gli puoi intrecciare i capelli e mettergli vestiti di tanti colori. La pensavamo tutte così, ma potevamo vedere tutte i problemi crollare sulla testa di Meri.

Abbiamo pregato di nuovo il Guardiano per lei, ma lui ha detto: “No, no, no. I clienti non vogliono una che ha un toto in pancia”.

L’avevamo aiutata il più possibile. Non potevamo dividere i nostri soldi con Meri. Ha iniziato a starsene in piedi, davanti a un supermercato e seguiva le persone che uscivano con le buste di nylon piene di cose per i loro toto: latte, pane e zucchero. Stendeva loro la mano, dicendo: “Idia Saidia maskini”. Alcuni sputavano a terra, pensando che Meri volesse toccarli.

Ma a Dio è sempre piaciuta Meri. Vedendo che indossava un vestito da madre con dei buchi e niente scarpe, i buoni samaritani provarono pena per lei. Prima dell’ora di pranzo, le devano 40 o 50 bob. Ma fuori da quel supermercato, c’erano anche mendicanti seduti a terra che mostravano alla gente le gambe rotte e gli occhi ciechi. Erano gelosi di Meri. Quando nessuno guardava, si sono alzati e hanno scacciato Meri, l’hanno picchiata.

Da lì Meri andò a chiedere l’elemosina alla gente seduta nel traffico, alla rotonda vicino al cinema Globe. Gli faceva vedere gli occhi pieni di pianto, dicendo: “Mamma, saidia maskini”. Ma loro non avevano pietà. Chiudevano i finestrini e la guardavano di traverso, pensando volesse portargli via i Nokia come un ragazzo chokoraa. E a volte le macchine arrivavano così veloci che quasi la mettevano sotto e poi delle teste sbucavano dai finestrini e gridavano “Kasia, levati di mezzo o t’investo”. Quando respirava colla, Meri non sentiva il dolore nel cuore.

Ma quella zona era per le mamme mendicanti e i loro toto. Il lavoro di queste mama era osservare la gente che passava e ordinare ai loro toto di seguirli per chiedere soldi. Quando queste mamme hanno visto che a Meri veniva dato un bob da 10, l’hanno fermata e l’hanno presa a schiaffi, dicendo che anche loro dovevano mangiare.

Noi abbiamo detto: “Meri, smetti di aver paura di quelle donne”.

Abbiamo detto: “Meri, Nairobi non è loro”.

Abbiamo detto: “Meri, nelle strade è un dovere sopravvivere”.

Ma tutte noi sapevamo che Meri non era un cane che ti morde le dita se provi a prendergli qualcosa. Meri non riuscì a dare un calcio di Kung Fu tra le gambe di un ragazzo chokoraa quando lui è venuto a cercarla di notte. Tutte noi abbiamo provato pietà per Meri, ma l’avevamo già aiutata più di quanto potevamo. Rimase a dormire sui suoi sacchi per due giorni e poi il cibo finì. Lei allora ha infilato tutte le sue cose in una busta di nylon e se l’è legata con una shuka sulla schiena, come fosse un toto. Non disse dove stava andando.

Un giorno, due giorni, tre giorni non abbiamo pensato a Meri. Dormivamo sui nostri sacchi, ci lavavamo la faccia di notte e ci mettevamo la cipria e andavamo ad aspettare per strada che i clienti fermassero l’auto e dicessero kss-kss-kss e andavamo subito da loro. Contavamo i soldi e guardavamo i regali che ci facevano: braccialetti di plastica, una scatola con due biscotti, un orologio con il vetro rotto – per tutto quel tempo, abbiamo pensato ai fatti nostri. Alcune di noi si chiedevano se avessimo i parassiti nelle dita dei piedi. Alcune di noi si chiedevano come sarebbe stato se le nostre madri e i padri non fossero morti negli scontri a Molo. Tutte noi respiravamo colla e contavamo sulle dita i giorni che ci restavano prima di smetterla di essere chokoraa.

Quattro giorni, cinque giorni, sei giorni e poi abbiamo iniziato a temere per Meri. Ci siamo chieste e se i ragazzi chokoraa l’hanno trovata da sola? E se la municipale l’ha presa e messa in una camionetta per portarla alla stazione di polizia? Alcune di noi, che non erano mai state dentro una stazione di polizia, hanno chiuso occhi e orecchie mentre noi altre raccontavamo storie di quando eravamo state rinchiuse in cella con scarafaggi e ratti e criminali e un secchio per fare i bisogni davanti a tutti.

Ci hanno chiesto: “Come siete uscite dalla stazione di polizia?”

Gli abbiamo raccontato la storia. Abbiamo detto: “Quei poliziotti non ti danno nemmeno 10 bob, non è come con i clienti”.

E poi Meri è tornata. Indossava un vestito che non le avevamo mai visto prima e sopra un maglione grande che le nascondeva la pancia. Si era lavata con sapone e acqua pulita. Abbiamo visto che la busta di nylon non era piena come quando era partita. Abbiamo visto che non c’erano le solite cose per sopravvivere in strada, ma Kasuku di plastica per tenere il cibo dato dai buoni samaritani, bottiglie per l’acqua, carte e bastoncini per accendere un fuoco, assorbenti per il sangue, sale e barattoli per cucinare. Non stava solo portando cose raccolte per strada come scarpe e pantofole spaiate, un orecchino, una tazza col manico rotto, un foglio con cose interessanti scritte sopra. Molto tempo fa, aveva perso le cose con cui era arrivata in strada: il rosario di sua madre, il coltello che aveva ucciso suo padre, una canzone che le cantava il fratello.

Volevamo solo vedere dentro la sua busta di nylon. Non volevamo fare niente di male, solo vedere. Anche lei aveva visto dentro le nostre buste di nylon, tante volte, ma ora se ne stava seduta da sola, sotto le scale, non andava da nessuna parte, cantava alla pancia: “Lala, mtoto, lala”. Alcune di noi hanno detto che la testa le si era guastata. Alcune di noi hanno detto che era egoista. Dal modo in cui teneva la sua busta di nylon, ci chiedevamo se pensava che volessimo derubarla. Anche noi avevamo le nostre cose, i nostri soldi, il nostro cibo. Quando andò in bagno, andammo svelte, svelte a guardare dentro la sua busta di nylon e dicemmo: “Waa”.

Meri trasportava tre pani, quattro confezioni di latte e due di zucchero. Aveva dolci legati in un fazzoletto e cavoli e riso. Potevamo sentire l’odore del pollo con patate che non aveva condiviso con noi. Sul fondo, c’erano due saponi, un fiore di plastica da mettere tra i capelli e tre Fanta al ribes nero, di cui ne restavano solo le bottiglie.

Non stavamo facendo niente di male, ma lei ci ha gridato: “Ladre, ladre”.

Ci ha tolto il pane dalla bocca e ha rimesso tutto nella sua busta di nylon. Ricordando come l’avevamo aiutata, ci è venuta voglia di prenderla a schiaffi, tirarle i capelli e morderla. Volevamo darle pizzichi e infilarle la terra in bocca. Ma per via del toto che aveva in pancia, alcune di noi hanno provato pena. Siamo andate a chiedere scusa a Meri e ci siamo sedute con lei sotto le scale, senza andare da nessuna parte.

Abbiamo detto: “Meri, non lo diremo a nessuno”.

Abbiamo detto: “Meri, ricordi chi ha condiviso con te lo spazzolino da denti?”

Ma Meri si rifiutava di dirci il suo segreto. Di notte, quando siamo andate a vedere il Guardiano, abbiamo lasciato Meri a dormire nel nostro mjengo, senza nemmeno preoccuparci che i ragazzi chokoraa la potessero  trovare da sola. Al mattino, quando siamo tornate, lei non c’era e quando è tornata, portava altre cose. Tutte noi sapevamo che Meri stava rubando da qualche parte.

Ai giorni seguirono i giorni e poi una settimana, e poi Meri è stata arrestata.

Era gennaio e il sole sorrideva rumorosamente nel cielo. Il vento inseguiva buste di nylon e s’infilava sotto le gonne delle donne che andavano in ufficio. I Makangas gridavano perché la gente andasse nei matatus e fosse portata a Kahawa, Kangemi e in altri posti. Le persone si rifiutavano di andare nei matatus perché la tariffa era di 40 bob invece che 20 bob. Alcune di noi dormivamo e ci sentivamo morire; alcune di noi accendevano fuochi per cucinare il cibo; alcune di noi saltavamo a corda, ricordando i giorni in cui eravamo toto; alcune di noi respiravamo colla e sognavamo di mangiare pollo e patate.

Abbiamo sentito Meri correre e poi è passata sotto la recinzione che circonda il nostro mjengo. Tutte noi vedevamo che non portava la sua busta di nylon e poi sono arrivati quattro uomini dietro di lei. C’era un uomo alto, uno basso, uno che indossava una camicia rossa e un uomo con un bastone enorme. Non hanno detto niente. Sono andati sotto le scale, dove Meri si era nascosta, e le hanno coperto la bocca per non farla urlare. Alcune di noi hanno respirato colla e guardato altrove; alcune di noi hanno chiuso le orecchie e si sono nascoste sotto i sacchi.

Ora sapevamo dove Meri andava a rubare. Dalle donne che andavano in ufficio e indossano bei vestiti che le modellano come un otto. Le seguiva, piano, piano, guardando che non ci fossero poliziotti o la municipale per le strade. Le donne che vanno in ufficio non camminano veloce, portano scarpe appuntite e si guardano in tutte le vetrine dei negozi. Prima di attraversare la strada si fermano, perché non vogliono essere schizzate con acqua sporca da automobili e matatus. Quello era il momento in cui Meri andava veloce, veloce e apriva la mano e diceva: “Saidia maskini”.

Se la donna che stava andando in ufficio le dava dei soldi, Meri non faceva nulla, ma se la donna le diceva qualcosa di brutto, chiamandola malaya o chiedendole a cosa pensava quando apriva le gambe, Meri tirava fuori una busta di nylon nascosta sotto il maglione. Ogni giorno, Meri metteva sotto il suo maglione ciò che faceva in bagno al mattino. A bassa voce chiedeva alle donne che andavano in ufficio di darle i soldi altrimenti le avrebbe ricoperte di escrementi e allora dovevano andare in ufficio puzzolente. E poiché le donne dell’ufficio avevano paura, le davano 100 bob o addirittura 200 bob.

E poi, Meri era molto intelligente, non scappava. Prima che le donne gridassero ‘al ladro’, Meri si metteva a parlare da sola, si buttava a terra e si copriva il viso di escrementi finché la gente non cominciava a pensare che fosse matta.

Dio amava Meri, ma lei non sapeva che quella era la zona di ladri e criminali esperti. Loro erano gelosi di come Meri fosse brava a rubare. Quattro ladri e criminali sono venuti nel nostro mjengo a picchiarla con un bastone enorme. L’hanno presa a calci con le loro grandi scarpe, pom, pom, pom come un sacco di fagioli a cui si deve rimuovere la pelle. Le hanno strappato il vestito nuovo e il maglione. Il sangue le usciva dalla testa, dal collo, dalle mani e tra le gambe. Non hanno avuto pietà per Meri.

Tutte noi volevamo aiutare Meri. Tutte noi sentivamo le urla uscirle dalla bocca coperta. Tutte noi volevamo correre e chiamare la gente per strada, la polizia e la Municipale. Ma tutte pensavamo, se quei ladri e criminali non hanno avuto pietà di Meri, con il suo stomaco gonfio, come possono avere pietà di noi?

Ai giorni seguirono i giorni e Meri dormiva sui sacchi, senza muoversi o parlare. Noi le portavamo l’acqua, masticavamo il cibo e glielo mettevamo in bocca, morbido, morbido. Anche se la sua testa era un uovo vuoto, lei era nostra sorella e nostra amica. Le abbiamo tolto il vestito e il maglione e li abbiamo lavati nel fiume Nairobi. Abbiamo coperto con il terreno dove il sangue le era uscito dal corpo. Abbiamo messo il suo toto morto in una busta di nylon e l’abbiamo gettato nella spazzatura, lontano, lontano. Ci uscivano le lacrime dagli occhi per Meri. Ma alcune di noi hanno detto a bassa voce Meri sta morendo. Hanno detto andiamo a trovarci un altro mjengo dove vivere, lontano da Meri. Noi le abbiamo prese a schiaffi. Gli abbiamo tirato i capelli. Gli abbiamo messo la terra in bocca. Meri era nostra sorella e nostra amica.

Abbiamo detto: “Meri, è meglio così vedrai”.

Abbiamo detto: “Meri, ora il Guardiano può trovare dei clienti anche per te”.

Abbiamo detto: “Meri, questa è la vita dei chokoraa”.

Ma Meri non ascoltava. Parlava sempre da sola. E poi un giorno, ha infilato tutte le sue cose in una busta di nylon e se l’è legata con una shuka sulla schiena, come fosse un toto. Ha oltrepassato noi e la recinzione del nostro mjengo. Ha socchiuso gli occhi, perché il sole rimbalzava ovunque – sui finestrini delle macchine, sulle teste delle persone di passaggio, sulle strade che brillavano di nero. Ha oltrepassato i Matatus che suonavano il clacson e schizzavano le persone col fango. Ha oltrepassato i venditori ambulanti che scappavano dalla Municipale. Ha oltrepassato i guardiani fuori dalle banche e dagli uffici. Ha oltrepassato i ragazzi chokoraa che si arrampicavano sulla spazzatura per trovare scatole, documenti e bottiglie da vendere a Westland. Ha oltrepassato i lampioni che guardavano in giù con occhi gialli e neri. Ha oltrepassato un uomo a cui stavano rubando scarpe, soldi, vestiti. Noi la seguivamo chiedendole più volte:

“Meri, dove stai andando?”

“Meri, dove stai andando?”

Ai giorni seguirono giorni e poi agli anni seguirono gli anni. Alcune di noi sono state arrestate dalla polizia e dalla Municipale. Siamo state portate alla stazione di polizia e da lì al Jaji, che ci ha guardato attraverso il vetro dei suoi occhiali per vedere se eravamo buone o cattive. Ha battuto il tavolo con un martello di legno e ha mandato alcune di noi a Langata a stare con le criminali e alcune di noi in una scuola a raccogliere erbe. Alcune di noi sono state uccise dalla polizia con una pistola chiamata AK47. Alcune di noi sono state uccise da degli sconosciuti. Alcune di noi hanno deciso di diventare le mogli dei ragazzi chokoraa. Alcune di noi, dopo molti anni, avevamo abbastanza soldi per vivere in una stanza nelle baraccopoli di Mathare e abbiamo iniziato a trovarci i clienti da sole. E ad alcune di noi, per la troppa colla che avevamo respirato, ci si è guastata la testa e abbiamo cominciato a toglierci i vestiti e a inseguire la gente per Nairobi.

Ma Meri, lei ha attraversato il fiume Nairobi e noi non sappiamo dove sia andata.

 

Inedito, per gentile concessione dell’autrice Makena Onjerika e della traduttrice Barbara Ricci.

 

 

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Makena Onjerika, autrice keniana, ha vinto il prestigioso Caine Prize for African Writing, nel 2018 ed è arrivata nella rosa finale dei candidate al Bristol Prize nel 2020, oltre ad essere stata nominata per il premio 2020 Best in the Net. Le sue opere sono state pubblicate o sono di prossima pubblicazione in Professor Charlatan Bardot’s Travel Anthology to the Most (Fictional) Haunted Buildings in the Weird, Wild World (edizione del 2021), Adroit JournalGranta, Johannesburg Review of Books, Fireside Quarterly, Wasafiri, New Daughters of Africa e numerose altre riviste. Ha fondato e insegna al Nairobi Writing Academy (@Naiwacademy). La trovate in twitter con il nome @onjerika

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Per leggere i suoi lavori potete consultare il sito www.makenaonjerika.com
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L’antologia “Equipoise”, contenente scritti dal 2020 Nairobi Writing Academy, è disponibile in Amazon e alla libreria Prestige Bookshop di Nairobi.

 

 

 

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Barbara Ricci è nata a Roma e attualmente vive in Inghilterra, dove lavora come interprete per il comune di Bristol. Traduce fiction, non-fiction, doppiaggio e sottotitoli e ha un particolare interesse nel promuovere una cultura della diversità intesa come ricchezza.

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Immagine in evidenza: Michelle Angela Ortiz, “Delmy” Familias separadas Project, 2018, Harrisburg, PA.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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