Excelsior di Salvo Lombardo: la danza contemporanea rilegge i miti del nazionalismo e del colonialismo italiani.
di Viviana Gravano
“Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio ed immaginai la presente composizione coreografica. È la titanica lotta sostenuta dal Progresso contro il Regresso ch’io presento all’intelligente pubblico milanese; è la grandezza della Civiltà che vince, abbatte, distrugge, pel bene dei popoli, l’antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia. Partendo dall’epoca dell’Inquisizione di Spagna arrivo al traforo del Cenisio, mostrando le scoperte portentose, le opre gigantesche del nostro secolo”. Luigi Manzotti così scrive nella presentazione al lettore del suo libretto del Gran Ballo Excelsior, scritto da lui su musiche di Romualdo Marenco, e andato in scena per la prima volta al Teatro La Scala di Milano nel 1881. Il ballo avrà un successo senza eguali, e collezionerà il maggior numero di repliche e di rimesse in scena, tra tutte le opere dello stesso genere italiane nel mondo.
Lo spettacolo ha un aspetto fortemente popolare e non a caso è definito dalla coreologia come una sorta di antenato del moderno musicaI, sia per la compresenza di parti danzate e di parti mimiche “recitate”, su una costante base musicale, sia per il numero enorme di danzatori e figuranti presenti, e per la sua struttura narrativa estremamente semplice e fortemente spettacolare e retorica. Il Gran Ballo Excelsior esalta la vittoria della Luce e della Civiltà, sull’Oscurantismo e sulla barbarie, attraverso il genio europeo che crea grandi invenzioni e opere d’ingegno, che faranno progredire l’intera umanità: il battello a vapore, l’elettricità, il telegrafo, il traforo Italia Francia e il Canale di Suez, (nelle varie riprese nei decenni dell’opera le invenzioni citate saranno anche se solo in minima parte in parte riattualizzate).
Viene subito di chiedersi come mai un paese che da soli due decenni si era costituito come nazione, abbia sentito l’esigenza di creare un’opera così faraonica, e con un’ambizione forte ad assurgere a opera popolare, che esaltasse un tema “universale” per l’intera Europa. L’Italia fino a pochi anni prima non esisteva, era un territorio diviso in tanti piccoli e medi stati, non uniti di fatto da nulla se non forse dalla comune fede religiosa cattolica. La costruzione dello stato/nazione italiano passa prima di tutto attraverso l’edificazione di una grande macchina culturale che inventa una “tradizione italiana” come la definirebbero Hobsbawm e Ranger: “Per <tradizione inventata> si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale e simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità del passato”[1]. Nel caso dell’Italia occorreva “inventare” un passato nazionale, e costruire una serie di oggetti popolari che potessero “inculcare” nei neonati italiani un’idea di nazione.
L’idea moderna di nazione cammina in parallelo con la concezione espansionistica dell’Europa, che inizia a concepire la propria civiltà “superiore” come il modello da esportare nei vicini paesi “incivili”, imponendolo militarmente con inaudita e sistematica violenza, ma anche culturalmente, con una medesima meticolosità attraverso la costruzione del mito etnocentrico della superiorità intellettuale.
La storiografia ha posto per molti decenni l’Italia fuori da questa visione, sia perché al momento della massima affermazione della conquista coloniale era ritenuta una nazione giovane, e quindi con mire espansionistiche scarse, sia perché l’autorappresentazione che l’Italia ha fatto di sé, dei suoi primi approcci coloniali, e poi delle sue guerre di aggressione e conquista, è sempre ammantata in maniera molto chiara di un’aura appunto di espansione fortemente culturale, artistica, dunque non violenta e stigmatizzante, ma quasi positiva. L’Italia della prima ora, appena unita, ha bisogno di costruirsi un’identità inesistente prima di tutto affermandosi come capostipite di una cultura/civiltà occidentale, che ha le sue radici comuni nell’antico impero romano, e che ha poi prodotto un’arte “universale” che esporta con generosità nei paesi “arretrati”.
Excelsior è stato il perfetto palcoscenico su cui mostrare al popolo italiano, che italiano non si sentiva ancora in nessun modo, che esisteva già da secoli e secoli un’Italia: l’Italia dell’arte, della bellezza, del “genio”, della luce della civiltà dall’inventiva superiore, l’Italia delle uniche e continue scoperte. L’enorme impalcatura spettacolare del Gran Ballo è il paradigma perfetto di un nazionalismo senza nazione, che ha bisogno di inventare un passato “classico”, che si manifesta perfettamente nelle monumentali scenografie fatte di spazi, pitture e sculture, e fatte dalle architetture di corpi che i figuranti spesso pressoché immobili disegnano. Non sono solo le citazioni riprese dal mondo romano, ma anche dal Rinascimento, dal Barocco, persino contaminate da citazioni “esotiste”, perché quello che viene mostrato è quell’eclettismo che in Italia useranno i Coppedé, ma che nella stessa Milano, proprio al momento del debutto di Excelsior, si ritrova nella Esposizione Industriale Nazionale, nei diversi padiglioni che utilizzano stilemi praticamente identici.
L’eclettismo del Gran Ballo tende a unificare sotto una sola grande campana estetica tutta la cultura mondiale, in una visione universalista tipica del positivismo piemontese di quegli ultimi decenni del XIX secolo, che ne informa l’intera storia.
Il giovane coreografo italiano Salvo Lombardo, con la sua compagnia Chiasma, ha intrapreso l’idea di lavorare sui temi e sulle urgenze che il ballo “nazionale” per eccellenza in Italia da oltre un secolo, aveva posto sul tappeto. Come lui stesso dice il suo Excelsior non è assolutamente una rimessa in scena, ma è una “rimediazione”[2] partendo dall’opera originale, cioè una complessa operazione di estrapolazione di concetti, movimenti e estetiche che sono stati decostruiti, e riproposti in maniera del tutto trasfigurata. Quei temi, quelle letture della nostra storia nazionale, e quella messa in scena di una neonata nazione ottocentesca, ritrovano un’eco importante, a tratti inquietante, e certo urgente nella nostra contemporaneità. Lo spettacolo ci impone perentoriamente di rileggere le nostre istanze nazionaliste, nate in un paese che nemmeno era davvero tale allora, con gli occhi di oggi dopo oltre 150 anni di storia “unitaria”. Questo non per fare la storia di un’opera del passato, o per scrivere il percorso delle sue altre riletture nel tempo, ma per proiettarci in un corto circuito che costruisce esplosive contraddizioni, che partono da alcune materializzazioni nell’oggi di immagini e immaginari nati in quel tardo Ottocento, ora più che mai violentemente attuali.
Quali strumenti adottare per un’operazione di così evidente risemantizzazione di segni che allora furono espressi con una nettezza chiara e decisamente politica, ma che pressoché tutta la letteratura e critica di danza[3] hanno ignorato per decenni, attribuendo a Excelsior solo il valore di “balletto”, spettacolo popolare, a tratti giudicato nemmeno così interessante tecnicamente, e senza dubbio troppo retorico e facile? Come ridare importanza a quell’opera, non in quanto solo opera di danza, ma in quanto oggetto paradigmatico di una nazione che si affermava, e lo faceva con la violenza di quegli immaginari che la porteranno al colonialismo e poi al fascismo, con una straordinaria continuità di pensiero fondata sulla superiorità della “razza” italica?
Antonio Gramsci in un suo saggio scritto in carcere dal titolo La storia come “biografia” nazionale scriveva all’inizio degli anni trenta del novecento: “Questo modo di scrivere la storia comincia col nascere del sentimento nazionale ed è uno strumento politico per coordinare e rinsaldare nelle grandi masse gli elementi che appunto costituiscono il sentimento nazionale. (…) l’Italia è veramente pensata come qualcosa di astratto e concreto (troppo concreto) nello stesso tempo, come la bella matrona delle oleografie popolari, che influiscono più che non si creda nella psicologia di certi strati del popolo, positivamente e negativamente (ma sempre in modo irrazionale), come la madre di cui gli italiani sono i “figli”. Con un passaggio che sembra brusco e irrazionale, ma ha indubbiamente efficacia, la biografia della “madre” si trasforma nella biografia collettiva dei “buoni figli”, contrapposti ai figli degeneri, deviati…”[4].
Nello spettacolo di Salvo Lombardo la destrutturazione dell’idea di nazione passa attraverso un lavoro meticoloso di riappropriazione filologica, solo a tratti ironica e spiazzante dell’opera “originale”. Alcuni brani della musica originale o fischiettati o cantati usando uno scherzoso “pom pom pom”; l’utilizzo delle sole mani dei danzatori per citare alcuni dei passi del balletto classico usati nell’Excelsior ottocentesco; il recupero della metafora della luce della civiltà nella potente scenografia, di Daniele Spanò e Luca Brinchi, fatta di un’architettura di luci al led sempre accesi in scena, alternati a frammenti video; l’utilizzo di citazioni dai costumi originali in un mix glamour e street style, disegnati da Chiara Defant, in una chiave che trasforma il popolare in pop; l’attualizzazione del grande apparato di figuranti attraverso la messa in scena di contemporaneissimi balli di gruppo o social dance. L’operazione di fondo dell’Excelsior di Salvo Lombardo potrebbe essere sintetizzata nell’espressione che Hannah Arendt utilizzava per definire Walter Benjamin[5] per la sua metodologia storica: pescatore di perle. Lombardo si immerge senza preconcetti o timori reverenziali nel vecchio Gran Ballo, e riemerge con brandelli di quell’enciclopedia visiva della modernità italiana, per poi restituirli come oggetti e gesti, terribilmente necessari per la decodifica della nostra attualità.
Una delle scene fondamentali del Gran Ballo del 1881 è dedicata al Canale di Suez, costruito per lo più dagli inglesi, con il concorso di varie nazioni europee e su disegno dell’ingegnere trentino Negrelli. La scena di Manzotti descrive prima un gruppo di persone devastate da un vento fortissimo nel deserto, e poi vittime dei predoni, che vengono improvvisamente illuminati da una luce che appare ai loro occhi: è il bagliore folgorante della Civiltà che mostra loro la meraviglia del canale di Suez. Tutti gli aggettivi riferiti alla popolazione locale alludono a instabilità, caos, confusione e violenza, mentre le parole riservate alla Luce e alla Civiltà sono di encomio, meraviglia e salvezza. Il canale fu in realtà il perfetto strumento per la colonizzazione europea in particolare dell’Africa Orientale e non solo.
Il legame tra il colonialismo e questa scena di Excelsior potrebbe apparire labile, se non nella stereotipizzazione delle popolazioni locali, che di nuovo potrebbero far pensare a una banalizzazione ingenua dovuta alla natura popolare di Excelsior. In realtà l’Italia dell’immediata post-unità investe subito molto nelle conquiste coloniali, che poi arriveranno in maniera più tangibile nel periodo fascista, ma che hanno la loro partenza, o falsa partenza si potrebbe dire, già in epoca liberale.
La storiografia italiana del secondo dopoguerra ha costruito una cancellazione sistematica, durata almeno fino agli anni settanta del novecento, del ruolo fondamentale che hanno avuto le mire coloniali italiane nello sviluppo della nostra identità. Ma ciò che è apparsa più gravemente volontaria è la totale mancanza di ricerca e analisi degli immaginari e delle iconografie, che quella tutt’altro che breve e insignificante stagione coloniale ha portato in Italia. Il canale di Suez viene inaugurato nel 1869, nel 1871 aperto ufficialmente al transito delle navi. Nel 1882 l’Italia “acquista” la baia di Assab dalle mani della compagnia Rubattino, nel 1884 acquisisce sempre in Eritrea, attraverso un accordo con i colonialisti inglesi, Massaua. Tutti territori che erano divenuti più facilmente raggiungibili grazie al Canale di Suez. In seguito, le violente guerre di conquista italiane in epoca fascista si concentreranno in gran parte proprio nel cosiddetto Corno d’Africa, cioè sotto l’Egitto.
La rappresentazione del Canale di Suez in Excelsior, come una delle grandi conquiste illuminanti della civiltà sull’oscurantismo dell’incivile Africa, è tutt’altro che innocente, ma segna invece una necessaria premessa alla volontà di educare gli italiani a un’idea di superiorità, che dominerà l’intera Europa giustificandone le conquiste coloniali. Manzotti scrive: “Tutta la civiltà europea è riunita come per incanto in quel punto dell’istmo prima affatto deserto. Tutto è movimento, tutto si prepara a solenni trionfi. Il neghittoso passato è ormai sconfitto, dimenticato. Su quelle acque vedonsi bastimenti di tutte le nazioni. Nulla havvi che non sia ornato a festa, è preparata una sfarzosissima illuminazione”. L’intento della scena del Gran Ballo è molto chiaro, e appare incredibile accorgersi oggi che in oltre un secolo di repliche e riadattamenti di quest’opera, mai la critica teatrale o di danza, mai gli storici abbiano speso una sola riga a proposito della potenza simbolica di questa scena, indirizzata a un pubblico popolare, nell’ottica di quella “tradizione” di superiorità culturale e civile sui popoli altri, degni quindi solo di essere conquistati e civilizzati. Nello spettacolo di Salvo Lombardo una serie di elementi, tratti da una rilettura postcoloniale di Excelsior, mettono in crisi in maniera netta e posizionata proprio questo malcelato violento esotismo, che non poteva che accompagnare il nascente nazionalismo italiano. La glamourizzazione di alcune scene dominate volutamente da un immaginario pop jungle, riconduce alle riappropriazioni che le culture afro-discendenti hanno fatto delle stereotipizzazioni disegnate sui loro corpi da secoli di colonizzazione “bianca” europea. Nell’opera di Salvo Lombardo non solo si recuperano le iconografie coloniali per destrutturarle, ma si declinano le loro attuali derive, tutt’altro che scomparse in Italia, con una essenzialità asettica, chirurgica che guarda ai fenomeni mediali globali contemporanei, che hanno fagocitato, nel bene e nel male, i riferimenti a una cultura dell’inferiorizzazione dell’Africa, del cosiddetto “Oriente” e in generale di qualsiasi popolazione colonizzata.
Il video d’apertura, di Isabella Gaffé, che è un preambolo inaspettato per uno spettacolo di danza, è un catalogo devastante e potente di tutte le stereotipizzazioni che i conquistatori hanno imposto ai colonizzati, e insieme di tutte le riappropriazioni che oggi i/le discendenti delle ex-colonie rimettono in scena con una radicale risemantizzazione. Non a caso il video lavora sugli immaginari della rete, degli home video, della bassa qualità, proprio per parlare, con un segno opposto, di quella “cultura popolare” che il Gran Ballo dell’Italia neonata e già coloniale provava a disegnare.[6]
La musica originale di Fabrizio Alviti nell’Excesior contemporaneo di Chiasma, opera in una maniera perfettamente coerente con l’immaginario visuale. Ogni elemento sonoro è un continuo mix di anacronismi, “esotismi naturali”, aspramente ossessivi, ripetuti con una ritmica maniacale, che servono a far emergere la complessità dell’opera di oggi, ma anche la stratificazione semantica di quella “originale”. Il suono non permette mai di riposarsi, spinge a un’incalzante veglia attenta e vigile, non accompagna ma semmai ridiscute, spezza e mette in crisi la visione.
Due scene in particolare credo possano essere una sintesi del lavoro di Salvo Lombardo e di tutte le persone che collegialmente hanno contribuito a quest’opera. Nella prima una coppia entra in scena con abiti vittoriani realizzati in tessuto a stampa jungle\tropical (ricercato omaggio “eterodosso” alle opere in batik dell’artista anglo-nigeriano Shonibare). L’uomo alza un cartello che appare come un’immaginaria bandiera al cui centro si trova una frase dell’antropologo italiano Cesare Lombroso, padre della teoria della razza in Italia; la donna alza la gonna e sotto alla crinolina appare una scritta ricamata tratta da Une Tempête [7] (rilettura da Shakespeare) di Aimé Cesaire, teorico de la negritude. Nella seconda scena una giovane donna entra tenendo davanti a sé un tappeto, con riprodotta una mappa coloniale, che la copre in gran parte, lasciando fuori solo volto e piedi. Lo stende a terra, lei è a seno nudo, cerca la posizione giusta, poi si appoggia nella stessa posa della figura femminile de Le déjeneur sur l’herbe di Edouard Manet, uno dei quadri simbolo della nascita del modernismo in Europa, che per primo segna una relazione di diretta complicità con lo sguardo dello spettatore borghese come voyeur. La danzatrice a terra ci guarda, e il cerchio si chiude: il nostro guardarla è la malattia di un intero continente che ha sognato di poter imporre il suo sguardo etnocentrico sul mondo.
Excelsior di Salvo Lombardo/Chiasma ha debuttato il 1 settembre 2018 a Rovereto nell’ambito del Festival Oriente Occidente, e avrà la sua prima replica a Roma il 20 e 21 ottobre al RomaEuropa Festival.
[1] E.J.Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Milano 2002, p.3.
[2] Cfr. J.David Bolter, R.Grusin, Remediation: Understanding New Media, MIT Press, Cambridge MA 2001.
[3] Una sola eccezione l’interessantissimo saggio di Sergia Adamo, Dancing for the World: Articulating the National and the Global in the Ballo Excelsior’s Kitsch Imagination, in: Guido Abbattista (edited by), Moving Bodies, Displaying Nations National Cultures, Race and Gender in World Expositions Nineteenth to Twenty-first Century, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2014, pp. 143-172.
[4] A. Gramsci, La storia come “biografia” nazionale (1931), in Sul Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1980, p.57.
[5] H.Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Mondadori, Milano 1943.
[6] Sulla struttura concettuale del video si veda A.Appadurai, Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001.
[7] A. Cesaire, Une Tempête, Points, Paris 1997.
Le fotografie riprodotte in questo articolo sono di Carolina Farina.
Per gentile concessione dell’autrice.
Viviana Gravano è Curatrice di Arte Contemporanea e Professoressa di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. É direttrice della rivista on line “roots§routes. Research on visual cultures” (www.roots-routes.org). È socia fondatrice del collettivo curatoriale Routes Agency. Cura of Contemporary Art a Roma. Ha pubblicato tra gli altri: L’immagine fotografica, Mimesis, Milano 1997; Crossing. Progetti fotografici di confine, Costa & Nolan, Milano 1998; Paesaggi attivi Saggio contro la contemplazione, Mimesis, Milano 2012; con Giulia Grechi, Presente Imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano 2016; Food Show. Expo 2015. Una scommessa interculturale persa, Mimesis, Milano 2016.
Fotografie di Carolina Farina.