CARLINO
romanzo di Stuart Hood
Questa prosa fu scritta dall’autore 17 anni dopo gli avvenimenti narrati. Quando fece ritorno in Inghilterra, nell’autunno del ’44, tentò di fissare i suoi ricordi del tempo trascorso in Italia. Dall’armistizio del 8 settembre al momento in cui, nel luglio del ’44, passò le linee. Ma gli fu impossibile. Certo allora aveva in mente date, nomi di persone, località più chiare di quelle che conservava nel ’61. Ma aveva smesso di scrivere perché quell’elenco di fatti ancora non trovava un suo senso. Non riusciva a spiegarsi quelle esperienze né a trovare negli intrecci del passato un qualche significato.
Per questo occorreva tempo, anche riconciliarsi con certi fatti, ferite personali, certe morti. Quello che poteva finalmente affidare alla pagina era il lavoro del tempo, della memoria e della storia.
PROLOGO
La memoria non è solo cose ricordate. Alcune cose noi preferiamo dimenticarle; altre, che non siamo in grado di dimenticare, le rendiamo sopportabili. La vita scorre in noi come una marea. Col suo flusso e riflusso leviga i frammenti del passato tanto che, col trascorrere del tempo, noi giungiamo a coglierli come ciottoli da una pozzanghera sugli scogli, ammirandone le tinte, la forma e la struttura. Non sappiamo quale di essi si rimetterà in moto, risuonerà; trascinato dalla marea che si ritira per l’ultima volta. Questi sono i ciottoli dal mio teschio.
Si sentiva scorrere l’acqua dal gabinetto. Una sagoma nuda avanzava rigida lungo il corridoio di piastrelle con fare spettrale, poi scomparve in un dormitorio. L’acqua nella cisterna mandava un gorgoglio metallico. Le sentinelle nelle torri di guardia si agitarono sulle gambe. Aspettavano come me il cambio. Alzando gli occhi potevano scorgermi alla finestra del solaio. Sapevo che non avrebbero sparato subito, come in passato. Le cose erano andate troppo avanti, erano diventate troppo complicate. Erano le quattro del mattino del 9 settembre 1943.
I cambi della guardia se ne uscirono dalla guardiola cigolante imbracciando goffamente i loro fucili antiquati, e marciarono via tra i reticolati interni poi esterni; calpestando rumorosamente la ghiaia. Il mio cambio salì le scale in silenzio e chiese: “Nulla di nuovo?”, “Nulla”. Ci sedemmo assieme sul davanzale della finestra del solaio a guardare la pianura. L’orfanotrofio, la nostra prigione, era sul limitare del villaggio e confinava coi campi. C’era una doppia barriera di filo spinato fra noi e loro. Le macchie bianche sui reticolati erano fiori. Potevi scegliere come chiamarli: convolvoli o felicità del viandante.
Alla nostra sinistra, dietro un muro senza finestre, abitavano le suore di clausura che, nel villaggio, si occupavano del Santuario del Santissimo Rosario di Fontanellato di Parma. Erano loro a fare il nostro bucato. In cambio della gentilezza mandavamo letterine di ringraziamento o regalini insignificanti; ricevuti coi pacchi della Croce Rossa: una saponetta, un pezzo di cioccolata, del tè, fatti su in una camicia oppure nei pantaloncini sbiaditi dalla guerra del deserto. Erano loro che suonavano le campane e ci svegliavano con le prime luci dell’alba; quando si poteva ancora distinguere la brace e il consumarsi della prima sigaretta. Il 15 agosto, giorno della grande festa, le campane avevano suonato notte e giorno, in onore della Beata Vergine Assunta. Noi maledivamo quello scampanare seduti al sole, accanto ai reticolati, mentre guardavamo le ragazze in vacanza che passavano in bicicletta; con le gonne gonfie fin sopra il ginocchio . Alla nostra destra un alto muro di cinta, dipinto a calce; appariva chiaro nell’oscurità. I morti del villaggio vi giacevano nelle loro nicchie strette, richiusi come larve nel bozzolo. Al di là del cimitero una strada polverosa si biforcava; come in due nastri bianchi. Da una parte scendeva verso la ferrovia e la via Emilia – da dove sarebbero venuti i tedeschi. L’altra saliva a nord, verso Busseto; a una decina di chilometri, dove era nato Verdi e più oltre c’era il fiume Po; impossibile da guadare o da attraversare a nuoto.
Una volta alla settimana, in fila per tre, passavamo al di là della barriera sotto scorta; per fare una passeggiata di un chilometro e mezzo. Le guardie camminavano al nostro fianco a passo svelto con gli stivali rattoppati. I fucili, lunghi e antiquati, sobbalzavano su e giù. Alla sosta, il massimo della spiritosaggine era raccogliere un trifoglio o un margherita e infilarli nella bocca arrugginita del fucile. Erano le nostre piccole rivincite; come camminare a passi lunghi, facendo stancare le guardie di quarta classe dal culo basso. Le strade inghiaiate erano piene di polvere. L’acqua scorreva ovunque nei fossati e nei canali d’irrigazione. Gli alberi e i cespugli erano pieni di usignoli. In un cancelletto di un casolare ben tenuto: PARVA SED APTA MIHI. Qualche professore in pensione. C’era solo un negozietto di alimentari; e un altro pieno di candelabri e bigotteria, attaccato al convento. Poi un monumento di guerra; grigio, greve di retorica e spade spezzate. In un vialetto alberato mettevano su una fiera con giostre, durante i giorni di festa, baracconi per il tiro a segno con premi da niente; bancarelle di ciambelle e arrosto freddo di maiale che sapeva di rosmarino. Sopra il tetto del convento si scorgeva una torre tarchiata, piena di feritoie. Non sapevamo che ci trovava in mezzo ad una piazza con dei negozi ombreggiati e freschi; un mercato settimanale: bancherelle di Parmigiano, burro che si scioglieva al sole, zoccoli, ombrelli, vestiti da campagna. Nella torre gli impiegati del Comune, allora come adesso, rimuovevano gli schedari macilenti della burocrazia italiana. L’acqua nel fossato è verde opaco; vi si muove pigramente qualche pesce. Bolle di gas dalla melma.
Tornai nella mia camerata. Venti letti. Venti uomini che più o meno avevano imparato a vivere assieme; che più o meno si erano adattati alla cattività. Eravamo divisi pressappoco in tre categorie. Quelli la cui vita era ordinata secondo una routine ordinata e non spiacevole; come avevano già conosciuto nelle scuole private e nei college. Quelli che giocavano ad evadere – trasportando i detriti di impossibili tunnel; in un’eterna e inutile cospirazione. E quelli che si ribellavano, si sottraevano all’attività del campo – ai passatempi, alle discussioni, ai gruppi di studio – come fossero una droga; come motto quello antico e rivoluzionario: “tanto peggio, tanto meglio”. Avevano la pazienza del rivoluzionario, la mancanza di scrupolo, e la passione per il mistero. Alcuni non appartenevano a nessuna categoria. Erano quelli che dovevano essere sorvegliati a vista, perché capaci in pieno giorno di balzare in piedi e scavalcare i reticolati. Difficile sapere cosa desiderassero di più: se fuggire o essere uccisi.
Avevamo molte cose in comune. In particolare lo shock, il trauma della cattura; il sentirsi in qualche modo a disagio per essere ancora vivi e la sensazione del fallimento. Oltre a questo certi ricordi. La polvere sollevata di carri armati di quelli che venivano all’attacco; i camion che correvano disperatamente sulla faccia del deserto. Punti rossi di fuoco all’imbrunire, dove bruciavano i relitti; ardevano ancora sotto i chiarori languidi dei segnali luminosi. Immagini di dolore, di paura, di morte. Un corpo penzolante dalla torretta di un autoblindo; come una bambola svuotata della sua segatura. La confusione di una battaglia notturna imbastita dalle pallottole trancianti. Le sensazioni di un calore estremo, di estremo freddo, di fame e di sete. Nomi di luoghi e di persone. I bar, i locali notturni, i bordelli del Cairo. La lealtà al reggimento, ai luoghi d’origine, al ceto, alla nascita. Presto, forse, ci saremmo trovati di fronte alla libertà. La libertà significava pericolo.
Mentre la luce cresceva sui muri imbiancati tentai di fare il bilancio della nostra situazione. Sapevamo ben poco. Da quando un soldato italiano – a luglio – era entrato nell’ufficio del campo, aveva staccato una fotografia di Mussolini dal muro e l’aveva frantumata coi piedi, s’era vissuto in una specie di limbo; sbalestrati tra tante dicerie, una selvaggia speranza e scoraggiamento. Di due cose eravamo sicuri: che gli Alleati si trovavano nella punta estrema dello stivale dell’Italia; e che c’era in atto un armistizio – senza capire bene in cosa consistesse. Immaginavamo che i tedeschi si sarebbero mobilitati in forze per prendere il controllo della situazione. Non sapevamo se avrebbero avuto un qualche interesse per il destino di quattrocento ufficiali. C’erano altri fattori da ponderare: che cosa avrebbe fatto il comandante italiano? I suoi uomini gli avrebbero ubbidito? Com’era la gente al di là dei fili spinati? Come avremmo reagito alla libertà? Fino a che punto ci aveva reso vili la prigionia; limitando le nostre decisioni, proteggendoci dal mondo, procurandoci un habitat – l’angolo di una stanza, un letto, qualche libro, la sicurezza? Avevo uno strano sentimento fatto di paura, di eccitazione e di attesa. L’avevo già provato; quando lasciai per l’ultima volta la casa; quando la nostra nave mollò gli ormeggi, quando vidi scoppiare sulle nostre trincee il primo proiettile.
Per aiutarmi in caso estremo, ci fosse stato bisogno, ero addestrato alle tecniche normali d’uccidere. Mi avevano insegnato come orientarmi seguendo le stelle, a studiare il terreno; a giudicare le distanze, ad utilizzare l’occhio. Inoltre forse ne sapevo di più dell’esercito tedesco che del mio. Avevo una certa abilità negli interrogatori. Conoscevo qualche trucco: che fra due prigionieri il secondo probabilmente avrebbe parlato se l’altro fosse stato condotto dietro un autocarro e si fosse sentita una raffica. Che in certi casi non è necessario spargere sangue. Che la paura è un’arma potente. Avevo letto quotidianamente i giornali italiani; interpretandoli con l’abilità acquisita come ufficiale del Servizio Informativo; traendone deduzioni, trovando le omissioni altrettanto rivelatrici quanto le indicazioni dirette. Pensavo di poter riconoscere una situazione rivoluzionaria; se mi fosse capitato di incontrarla. Avevo una fede profonda negli istinti della gente comune. A prima vista non sembravo inglese. Sentivo che la prima cosa da farsi era raggiungere le falde dell’Appennino e uscire dalla pianura. Nella foschia le intravedevo a una ventina di chilometri, mentre mi vestivo. Scorgevo la torre di un castello. Sarebbe stato un buon punto di riferimento. L’incertezza finì dopo aver fatto colazione. Ci fu un rumore di piedi che si precipitavano nel corridoio. Grida, risate, comandi e i primi squilli stonati di una tromba. Corsi assieme agli altri nel cortile.
tratto da Il Taccuino di Cary, Londra, aprile 1985, traduzione italiana di Walter Valeri, Serena Russo
Stuart Clink Hood (1915 –2011) è stato un romanziere e traduttore scozzese, nonché produttore e controllore per la BBC. Durante la seconda guerra mondiale, durante un’operazione di intelligence in Italia dell’esercito britannico è stato è stato catturato e fatto prigioniero. Dopo la fuga si è unito ai partigiani. Nel 1963 è uscito il suo libro di memorie su quell’esperienza Pebbles from my skull (Hutchinson) , e una versione riveduta nel 1985 (Carcanet). Nel 1946 ha intrapreso anche la carierra di traduttore traducendo On the Marble Cliffs di Ernst Jünger, condinuando per molti decenni a a tradurre nomi importanti delal letteratura quali Erich Fried, Dario Fo, Dino Buzzati and Pier Paolo Pasolini.
Ha scritto anche numerosi volumi di analisi e critica dell’industria televisiva tra cui A Survey of Television (1967), The Mass Media (Studies in Contemporary Europe) (1972), Radio and Television (Professions) (1975), Questions of Broadcasting with Garret O’Leary (1990), Behind the Screens: The Structure of British Television (1994), e On Television con Thalia Tabary-Peterssen (1997).Tra i suoi romanzi: A Storm From Paradise (1985), The Upper Hand (1987) e A Den of Foxes (1991).
Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.
Foto dell’autore dal Guardian.