Estratto da Aratro ritorto, di Itamar Vieira Junior (trad. Giacomo Falconi)

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Estratto da Aratro ritorto, di Itamar Vieira Junior

Traduzione
 dal portoghese di Giacomo Falconi

Tuga Edizioni, 2020

 

Quando presi il coltello dalla valigia dei vestiti, avvolto in un pezzo di stoffa vecchio e sudicio, con macchie scure e un nodo al centro, avevo poco più di sette anni. Mia sorella Belonísia, che era con me, ne aveva uno in meno. Poco prima di quell’evento, nel terreiro della casa vecchia, stavamo giocando con delle bambole fatte con il mais raccolto la settimana prima. Sfruttavamo la paglia che si andava ormai ingiallendo per rivestire le pannocchie con abiti improvvisati. Ci dicevamo che le bambole erano le nostre figlie, di Bibiana e Belonísia. Quando ci rendemmo conto che nostra nonna si era allontanata da casa attraversando lateralmente il terreiro, ci lanciammo con lo sguardo il segnale di via libera, era ora di scoprire quello che Donana nascondeva nella valigia di cuoio, in mezzo a vestiti intrisi dell’odore di grasso rancido. Donana si era accorta che stavamo crescendo e che, curiose, invadevamo camera sua per farle domande sulle voci che avevamo sentito e sulle cose di cui non sapevamo nulla, come gli oggetti che si trovavano nella sua valigia. Immancabilmente, venivamo riprese da nostro padre o da nostra madre. A mia nonna, in particolare, era sufficiente guardarci con fermezza per farci provare un brivido sulla pelle e ardere, come se ci fossimo avvicinate a un falò.

Così, quando vidi che si allontanava in direzione del cortile, guardai Belonísia. Decisa a rovistare tra le sue cose, non esitai a camminare, in punta di piedi, in direzione della sua camera, per aprire la vecchia valigia di cuoio, piena di macchie e con uno spesso strato di terra che si era accumulato sopra. La valigia, durante tutta la nostra esistenza fino a quel momento, era rimasta sotto il letto. Andai in cortile io stessa per spiarla dalla porta, vidi nonna Donana trascinarsi in direzione del bosco, che si estendeva oltre il frutteto, l’orto e il pollaio con i suoi vecchi posatoi. A quel tempo, era normale per noi vedere la nonna parlare da sola, chiedere cose strane, come allontanare qualcuno – che non vedevamo – da Carmelita, la zia che non avevamo conosciuto. Pregava lo stesso fantasma che abitava i suoi ricordi di tenersi alla larga dalle bambine. Era una profusione di frasi sconnesse. Parlava di persone che non vedevamo – gli spiriti – o di persone delle quali non avevamo quasi mai sentito parlare, parenti e comadres lontane. Ci abituammo a sentire Donana parlare in casa, parlare sulla porta d’entrata, sul sentiero per i campi, parlare in cortile, come se stesse conversando con le galline o con gli alberi secchi. Io e Belonísia ci guardavamo, ridevamo senza ostentazioni e ci avvicinavamo a lei senza che se ne accorgesse. Fingevamo di giocare con qualcosa lì vicino solo per poterla ascoltare e poi, con le bambole, con gli animali e con le piante, ripetevamo quello che Donana aveva detto seriamente. Ripetevamo ciò che mia madre diceva a bassa voce a mio padre in cucina. «Oggi ha parlato tanto, ogni giorno parla sempre di più da sola». Mio padre esitava ad ammettere che mia nonna stava mostrando segni di demenza, diceva che sua madre aveva parlato tra sé per tutta la vita, ave- va ripetuto preghiere ed encantos con la stessa distrazione con cui rimuginava sui suoi pensieri.

Quel giorno, sentimmo la voce di Donana allontanarsi nello spazio aperto del cortile, in mezzo agli schiamazzi e ai canti degli uccelli. Era come se le preghiere e le sentenze che proferiva, e che molte volte non avevano senso per noi, venisse- ro trascinate lontano, portate via dal soffio dei nostri respiri carichi d’ansia per la violazione che stavamo per compiere. Belonísia si infilò sotto il letto e tirò verso di sé la valigia. Il cuoio di caititu che copriva le imperfezioni del pavimento di terra si raggrinzì sotto di lei. Aprii la valigia da sola, sotto i nostri occhi luminosi. Tirai fuori alcuni abiti vecchi e logori, e poi altri che conservavano ancora i colori vividi che la luce del giorno secco irradiava, luce che non ho mai saputo descrivere in modo esatto. E in mezzo ai vestiti spiegazzati e sparpagliati notai un pezzo di stoffa sporca avvolto intorno all’oggetto che attirò la nostra attenzione, come se fosse un gioiello prezioso, il più grande segreto della nonna. Fui io a sciogliere il nodo, sempre attenta alla voce di Donana che si manteneva ancora distante. Vidi gli occhi di Belonísia scintillare per il luccichio di ciò che scoprimmo, come fosse un regalo nuovo, forgiato in un metallo appena estratto dalla terra. Alzai il coltello, che non era né grande né piccolo davanti ai nostri occhi, e mia sorella chiese di poterlo tenere in mano. Non glielo lasciai fare, prima toccava a me. Lo annusai e non aveva quell’odore rancido degli effetti personali di mia nonna, non mostrava macchie né graffi. Il mio obiettivo in quel breve lasso di tempo era esplorare al massimo il segreto e non lasciarmi sfuggire l’opportunità di scoprire la funzione della cosa che risplendeva nelle mie mani. Vidi parte del mio volto riflesso come in uno specchio, così come vidi il volto di mia sorella, più di- stante. Belonísia cercò di strapparmi il coltello di mano, ma io indietreggiai. «Dammelo, Bibiana». «Aspetta». Fu quando misi in bocca il metallo, tale era la voglia di provarne il gusto che, quasi all’istante, il coltello mi venne strappato via in modo violento. I miei occhi rimasero perplessi, erano vitrei negli occhi di Belonísia, che ora portava anche lei il metallo alla bocca. Al sapore di metallo che mi restò sul palato si aggiunse il gusto del sangue caldo, che scorreva da un angolo della bocca semiaperta e che finì per sgocciolarmi giù dal mento. Il sangue tornò a impregnare il tessuto logoro con le macchie scure che ricopriva il coltello.

Anche Belonísia allontanò il coltello dalla bocca, ma vi portò la mano come se volesse trattenere qualcosa. Le sue labbra si tinsero di rosso, non sapevo se per l’emozione di assaggiare l’argento o se, proprio come me, si fosse ferita, perché anche da lei fuoriusciva del sangue. Provai a ingoiare ciò che potevo, anche mia sorella si passava rapidamente la mano in bocca, con gli occhi stretti e pieni di lacrime, tentando di scacciare il dolore. Sentii i passi lenti di mia nonna che chiamava Bibiana, Zezé, Domingas, Belonísia. «Bibiana, ma non vedi che le patate stanno bruciando?». C’era un forte odore di bruciato, ma c’era anche l’odore del metallo, l’odore del sangue che inzuppava il mio vestito e quello di Belonísia.

Quando Donana sollevò la tenda che separava la stanza in cui dormiva dalla cucina, io avevo già tolto il coltello da terra e lo avevo avvolto alla buona nel tessuto intriso di sangue, ma non ero riuscita a rimettere a posto la valigia di cuoio sotto il letto. Vidi lo sguardo spaventato di mia nonna, che abbatté la sua mano grossa sulla mia testa e su quella di Belonísia. Sentii Donana chiedere cosa stessimo facendo lì, perché la sua valigia era stata spostata e di chi fosse quel sangue. «Parlate» disse, minacciandoci di strapparci la lingua, non sapendo che si trovava già in una delle nostre mani.

I nostri genitori ritornarono dai campi e trovarono mia nonna disorientata, con le nostre teste immerse in una tinozza d’acqua, gridando: «Ha perso la lingua, si è tagliata la lingua». Lo ripeteva così tanto che, sicuramente, in quei primi istanti, Zeca Cappello Grande e Salustiana Nicolau dovettero pensare che le due figlie si fossero mutilate seguendo un qualche rituale misterioso che avrebbe richiesto molta immaginazione per poter essere spiegato. La tinozza era una pozza rossastra e noi stavamo piangendo entrambe. Più piangevamo abbracciate, desiderose di chiedere scusa, più risultava difficile capire chi avesse perso la lingua, chi doveva andare all’ospedale, a leghe di distanza da Água Negra. L’amministratore della fazenda giunse a bordo di una Ford Rural bianca e verde per portarci in ospedale. La Rural, come semplicemente la chiamavamo noi, serviva ai proprietari quando si recavano nella fazenda e serviva a Sutério per svolgere le sue attività di amministratore, tra la città e Água Negra, oppure per colmare le distanze all’interno della stessa fazenda, quando non voleva andare a cavallo.

Mia madre arraffò coperte e tovaglie dai letti e dal tavolo per cercare di assorbire il sangue. Gridava il nome di mio padre, che raccoglieva erbe con mani tremanti intorno alla casa, impaziente, trasmettendo la sua disperazione nella voce, che divenne più acuta, oltre allo sguardo spaventato. Le erbe sarebbero state usate nel viaggio fino all’ospedale, in preghiere ed encantos. Gli occhi di Belonísia erano rossi per tutto quel piangere, i miei io non li sentivo nemmeno più, e mia madre chiedeva perplessa cosa fosse successo, con cosa stessimo giocando, ma le nostre risposte erano lunghi gemiti difficili da interpretare. Mio padre teneva la lingua avvolta in una delle sue poche camicie. Perfino in quei momenti, il mio timore era che l’organo strappato si mettesse a parlare da solo tra le sue braccia, raccontando quello che avevamo fatto. Che raccontasse della nostra curiosità, della nostra ostinazione, della nostra disubbidienza, della nostra mancanza di premura e rispetto nei confronti di Donana e delle sue cose. Ma soprattutto, della nostra irresponsabilità nel metterci un coltello in bocca, sapendo che i coltelli servono per far sanguinare gli animali selvatici e quelli del cortile e per uccidere gli uomini.

Mio padre ricoprì il piccolo involto con le foglie che aveva raccolto prima di partire. Dal finestrino dell’auto vidi i miei fratelli intorno a Donana, dona Tonha che la sosteneva per il braccio e la conduceva in casa. Il rimorso per quel giorno sarebbe giunto anni dopo, per aver lasciato mia nonna disorientata, in lacrime, sentendosi incapace di occuparsi di chiunque. Durante il viaggio, avvertimmo l’angoscia di mia madre tra- smessa nei sussurri delle sue preghiere e dalle sue mani callose e sempre calde, ma che ora sembravano uscite da una bacinella d’acqua lasciata fuori al freddo per tutta la notte.

Giunti in ospedale, dovemmo attendere molto, prima di essere visitate. I nostri genitori erano raccolti in un angolo accanto a noi. Vidi i pantaloni sporchi di terra che mio padre non aveva avuto il tempo di cambiare. Mia madre aveva un fazzoletto colorato legato in testa. Era lo stesso fazzoletto che metteva sotto il cappello con il quale era solita proteggersi dal sole nei campi. Puliva i nostri volti con scampoli del fagotto di vestiti, ogni volta con un nuovo tessuto che aveva l’odore degli abiti riposti da tempo, e che non riuscivo a identificare. Mio padre portava ancora con sé la lingua avvolta nella stessa camicia. Le foglie erano state riposte nelle tasche dei pantaloni, forse per la vergogna di essere identificato con sdegno come feiticeiro in quel luogo che non conosceva. Fu il primo luogo in cui vidi più gente bianca che nera. Notai che le persone ci guardavano con curiosità, ma senza avvicinarsi.

Quando il medico ci portò in sala e mio padre gli mostrò la lingua come un fiore appassito tra le mani, vidi la sua testa dondolare in segno di negazione. Notai anche il sospiro che fece al momento di aprire le nostre bocche quasi all’unisono. Lei dovrà rimanere qui. Avrà problemi a parlare e a deglutire. Non c’è modo di reimpiantarla. Oggi so che si dice così, ma all’epoca non mi passava nemmeno per la testa cosa significasse tutto quello e, ancora meno, nella testa di mio padre e di mia madre. Belonísia in quell’istante non mi guardava nemmeno, ma restavamo ancora unite.

Le nostre ferite vennero suturate e restammo insieme per altri due giorni. Uscimmo con un carico di antibiotici e analgesici in mano. Saremmo ritornate lì due settimane dopo per togliere i punti. Avremmo dovuto mangiare pappa d’avena e purea, alimenti pastosi. Nelle settimane seguenti, mia madre avrebbe lasciato il lavoro nei campi per dedicarsi interamente alle nostre cure. Solamente una delle figlie avrebbe subìto danni permanenti al linguaggio e alla deglutizione. Ma, a partire da quell’evento, il silenzio si sarebbe trasformato nel nostro stato prevalente.

Non eravamo mai uscite dalla fazenda. Non avevamo mai visto una strada così ampia con auto che si incrociavano nelle due direzioni, provenienti dai luoghi più distanti della Terra. O almeno fu ciò che disse Sutério. Nel viaggio di andata, eravamo state prese dallo sconforto, dall’odore del sangue che si coagulava, dalle preghiere di mio padre e di mia madre, attoniti. L’amministratore della fazenda si era limitato a ridere, dicendo che i bambini sono come i gatti, che scompaiono nel nulla, un momento sono da una parte e un attimo dopo da un’altra, quasi sempre impegnati ad architettare qualcosa per dare grattacapi ai genitori. Lui aveva figli e lo sapeva. Nel viaggio di ritorno eravamo piuttosto doloranti, una più dell’altra, entrambe svuotate allo stesso modo, nonostante l’estensione delle lesioni fosse diversa. Una aveva subìto l’amputazione della lingua, l’altra un taglio profondo, ma non rischiava di perderla. Non eravamo mai salite sulla Ford Rural della fazenda né su qualunque altra automobile. E come era diverso il mondo fuori da Água Negra! Com’era diversa la città, con le sue case incollate l’una all’altra, separate da pareti. Le vie rivestite di pietre. Il pavimento delle nostre case e delle strade della fazenda era di terra. O al massimo di fango, che serviva anche per preparare il pranzo alle nostre bambole di pannocchie, ed era da lì che germogliava quasi tutto ciò che mangiavamo. Dove sotterravamo i resti del parto e i cordoni ombelicali dei neonati. Dove sotterravamo i resti dei nostri corpi. Dove tutti saremmo finiti un giorno. Nessuno poteva evitarlo. Tutto ciò potemmo osservarlo solo al ritorno, dai lati opposti del veicolo, con nostra madre in mezzo, assorta in pensieri che il nostro piagnisteo aveva fatto precipitare nel suo intimo.
Una volta arrivati a casa, c’erano solo Zezé e Domingas, piccoli, accompagnati da dona Tonha. Vidi mio padre chiedere di Donana mentre mia madre ci prendeva per mano davanti alla porta. «Se ne è andata un paio d’ore fa, diretta al fiume», fu la risposta di dona Tonha. «Da sola?», vollero sapere. «Sì, è uscita portando con sé un fagotto».

 

Per maggiori informazioni, vedi recensione di Loretta Emiri,  Arando l’editoria, in questo numero.

 

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Itamar Vieira, Salvador da Bahia, Brasile, 1979 Etnologo e scrittore brasiliano. Vive nella sua città natale, Salvador da Bahia, con alle spalle un dottorato in Studi etnici e africani, ha esordito con due raccolte di racconti (Dias e A Oração do Carrasco, finalista nel 2018 del “Prêmio Jabuti”). Ha pubblicato nel 2018 il suo celebrato romanzo Torto arado (trad. it.: Aratro ritorto. Tuga Edizioni, 2020) con il quale si è aggiudicato il prestigioso premio internazionale Leya, il Prêmio Jabuti e il Prêmio Oceanos (maggior riconoscimento dell’area della lusofonia).

Considerato dalla critica brasiliana e portoghese uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni, Torto arado ha riscosso anche un immediato successo di pubblico grazie alla voce forte delle sue due protagoniste, Bibiana e Belonísia, che rappresentano un Brasile fermo nel proprio passato schiavista, ritratto attraverso una narrativa epica e lirica, realista e magica.

 

Nota bibliografica:

Vieira, Itamar Junior. Aratro ritorto. Bracciano (Roma), Tuga Edizioni, 2020, 273 p. (Torre de Belém ; 8) [Tit. orig.: Torto arado, Alfragide, Leya, 2018]

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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