La migrazione in Italia, da quasi un trentennio, ha dato vita ad una florida e interessante produzione letteraria. La provenienza e la cultura dei vari autori, occasionali o meno, hanno colorato di tinte diverse le pagine dei romanzi che spesso, almeno nella prima fase, erano connotati dall’ autobiografia dello scrittore. Il crollo del regime comunista ha permesso a molti albanesi di uscire, dopo anni di isolamento, dai confini della propria nazione: sono ancora impresse nella mente di molti italiani le immagini della nave Vlora stipata di persone che sognavano il benessere conosciuto solo attraverso i programmi televisivi di casa RAI.
Una delle autrici albanesi più rappresentative della letteratura dell’esilio è Elvira Dones, scrittrice scelta come case study per le sue peculiarità narrative e bibliografiche. I temi toccati nei suoi romanzi e il punto di vista squisitamente femminile rappresentano un focus attraverso il quale riuscire a dare una lettura sistematica e articolata dell’evoluzione della letteratura migrante italofona. Dones rappresenta pienamente la figura di autrice contemporanea che lavora come mediatrice tra le culture, incastonandosi tra esse come soggetto migratorio: rappresenta la letteratura albanese nata e al di furi dei confini del Paese delle aquile.
Una scrittura al femminile che nei sei romanzi snocciola vicende e personaggi. È interessante notare che lo spazio geografico narrativo è sempre caratterizzato da diversi poli che tornano in maniera evidente negli scritti: Albania, Svizzera e Stati Uniti su tutti.
Senza bagagli
Senza bagagli rappresenta il romanzo di esordio dell’autrice, ambientato in un arco temporale breve ma ricco di cambiamenti storici e sociali. Il romanzo è apparso nelle librerie italiane nel 1997 -anno in cui la nazione piombò nel caos a causa del crollo delle piramidi finanziarie- ma che ha visto una precedente edizione in lingua albanese che riporta una diversa titolazione: Dashuri e Huai, ovvero Amore straniero. Il titolo dell’edizione albanese, quindi, pone l’accento su uno degli aspetti che ha spinto Klea, la protagonista, a fuggire dall’Albania: l’amore per un uomo straniero, svizzero.
Il titolo dell’edizione italiana, invece, si riferisce alla condizione della protagonista del romanzo che, dopo la fuga, vive la sua esistenza priva di riferimenti culturali e identitari, la condizione dell’esule “senza bagagli”.
È importante sin da subito sottolineare che questo primo romanzo propone una componente autobiografica che non passa inosservata: Klea, infatti, rappresenta l’alter ego di Dones. Questo passaggio appare totalmente in linea con la necessità di riversare sulla pagina la propria esperienza dell’esilio, passaggio che ha caratterizzato la prima fase della letteratura della migrazione italofona: la fase esotica[1]. Klea è una giovane donna, madre di Toni ed ex moglie di uno dei migliori medici di Tirana che ha osato sfidare il regime due volte: chiedendo il divorzio dal coniuge e fuggendo da un viaggio di lavoro per conto della televisione di Stato.
Una scrittura autobiografica all’interno della quale, secondo Franca Sinopoli, è possibile rintracciare aspetti di scrittoterapia che mostra l’importanza della narrazione per rivivere e superare un’esperienza traumatica quale quella della migrazione. Klea-Elvira ha bisogno di attingere all’opportunità psicanalitica della scrittura, decide di affrontare questo travaglio solo dopo diversi anni dagli avvenimenti: questo dona un significato ancora più rilevante al romanzo perché si configura anche come narrazione testimoniale.
Senza bagagli, quindi, è un romanzo che narra la memoria di Elvira-Klea ma il suo fine non si esaurisce solo in questo obiettivo, seppur ambizioso: l’autrice con il suo romanzo d’esordio vuole costruire un dialogo a distanza con l’Albania, con se stessa e con i lettori occidentali.
I pronomi personali noi e voi ricorrono con particolare frequenza in tutto il romanzo, elemento che sottolinea una distanza geografica e uno spartiacque personale e culturale; una differenza che non si arresta nemmeno con la fuga in Svizzera: sembra che l’albanesità che Klea porta dentro di sé sia una condanna all’eterno esilio sociale. Non è parte del mondo occidentale ma, al contempo, non sente di appartenere all’Albania contemporanea.
Klea osserva dall’esterno il Paese solo dopo aver svestito i panni della donna che viveva una condizione privilegiata in patria e aver vestito quella della migrante. È interessante notare che la terra dell’esilio, la Svizzera, nella narrazione si trasforma in una nuova prigione, ancor meno sopportabile perché distante dalla figura di persona risoluta che la donna aveva coltivato negli anni e, soprattutto, perché distate dal figlio. Il trauma del mutamento identitario crea nella donna un continuo senso di soffocamento, una claustrofobia sociale basata sulla reiterazione esistenziale della limitazione della libertà personale. La comoda prigione dorata appare essere una condizione limbica che non permette di progredire ma nemmeno di tornare al passato: la convinzione che nulla sarà più come prima e che la scissione della sua personalità rimarrà perenne, rendono negativo il bilancio conclusivo della narrazione.
La trilogia del dolore
Dopo l’esordio con un romanzo fortemente autobiografico, Dones decide di continuare a scrivere affrancandosi, però, dai temi squisitamente personali; decide di dare spazio anche alle vicende non necessariamente affini alla sua esistenza e sceglie di farlo pubblicando tre romanzi, tra il 2001 e il 2007, che la stessa scrittrice definirà come la trilogia del dolore. Le tre opere affrontano temi diversi tra loro ma che sono accomunati dal medesimo senso di sradicamento territoriale che nasce dal bisogno di prendere le distanze da una terra che ha segnato la storia personale dei personaggi. I romanzi, come il primo, hanno vissuto una prima stesura in albanese per poi essere tradotti in italiano; è possibile ipotizzare che il legame con la lingua madre, almeno in questa prima fase, nasca da un rifiuto della possibilità di perdere l’intimità con l’idioma materno, oppure dalla paura che questo possa essere contaminato e indebolito dalle lingue dell’esilio: la lingua, in un contesto di lontananza geografica ed emotiva, si trasforma nell’unico luogo di appartenenza. È comunque utile ricordare, a margine delle ipotesi suggerite, che la il grado di competenza della lingua italiana ha probabilmente influito nella decisione di non lavorare autonomamente ad un progetto letterario in una lingua seconda.
Sole bruciato
Il titolo originale dell’opera è Yjet muk vishen kështu, Le stelle non vestono così, ed è stata pubblicata nel 2000 in Albania e solo successivamente tradotta in italiano e in francese. Il romanzo affronta il tema della tratta della prostituzione delle giovani ragazze albanesi, attività criminale nata dopo la caduta del regime comunista. È un romanzo corale quello di Dones che concede spazio alle giovani rapite e sfruttare ma che, contemporaneamente, focalizza l’attenzione del lettore su una di esse, Leila, affidandole le riflessioni attraverso la scrittura delle pagine del diario e i dialoghi.
L’elemento di maggiore interesse del romanzo risiede nella multifocalità della narrazione, che propone diversi punti di vista a seconda del personaggio e della situazione; in questo caso l’autrice albanese adotta la focalizzazione interna multipla che risponde all’esigenza di affidare ad ogni personaggio un ruolo definito all’interno della vicenda.
I due Paesi, in special modo l’Albania, non vengono mai direttamente nominati: Lassù e Laggiù sono le coordinate geografiche della narrazione.
Il romanzo è crudo, le parole non risparmiano le atrocità a cui le giovani sono sottoposte: Leila, Suela, Minira, Laura, Soraia, Viola e le molte altre ragazze sottratte alla loro vita e catapultate in un universo di sevizie e sfruttamento. Dones nel romanzo non risparmia la crudeltà e colora, con una tavolozza di sfumature che dal bianco passano al nero, i legami che intercorrono tra le ragazze e i boia, tra le giovani e il luogo in cui sono state attirate: una nazione, l’Italia, che volta loro le spalle.
Dones scaglia un’invettiva contro l’Albania, uno Stato che non ha saputo rispondere in maniera equilibrata alle sollecitazioni della modernità veloce; sembra che tutto questo male nasca dalla corsa all’oro occidentale, una maratona che porta ad una libertà senza regole.
L’inizio della trilogia del dolore rappresenta quanto di più vicino ad una denuncia culturale che ha il fine di stimolare una riflessione sui diritti umani e sulla fallacia dello stigma culturale; questo romanzo getta le basi per una triade che ha come fine quello di affrontare i demoni della migrazione, della dittatura, della schiavitù sessuale e della deterritorializzazione. L’attenzione alla scrittura come processo terapeutico qui si evolve attraverso le parole di Leila che diventano quanto di più atroce possa esistere in un flusso di coscienza che travolge il lettore.
Bianco giorno offeso
Se nel romanzo precedente il dolore viene manifestato attraverso i sogni distrutti dalle giovani destinate al mercato sessuale, Bianco giorno offeso –nato con il titolo albanese Ditë e bardhë e fyer e poi tradotto con il titolo italiano- mostra una sofferenza maggiormente collegabile alla biografia dell’autrice: il dolore della migrazione e dell’integrazione. Anche se nel romanzo l’Albania della dittatura rappresenta il passato di Ilìr, esule fuggito dall’Albania dopo la caduta del regime, mostra comunque i suoi riverberi nello stato attuale del giovane esule. Il male in questo secondo romanzo è rappresentato da un dolore più silente e nascosto rispetto a quello delle sevizie comuni dello scritto precedente: è un dolore ineffabile e inafferrabile, intimo, che nasce dalla difficoltà dell’esistenza e dalla solitudine, dall’incertezza e dalla frustrazione. Ciò che ricercano il protagonista e il coprotagonista, Illìr Bejko e Max Baumann, è un posto nel mondo all’interno del quale rifugiarsi dal passato e da se stessi. L’Albania scivola sullo sfondo dei ricordi che troveranno una collocazione definita nel racconto della vicenda personale di Illìr solo nelle ultime pagine del romanzo; il giovane fugge dal paese natio e sceglie di vivere in Svizzera, a Lugano, dove sperimenta la solitudine e la riluttanza a frequentare altre persone provenienti dal suo stesso Paese, repulsione basata probabilmente sulla necessità di marcare la distanza tra il presente e il passato.
L’uso della lingua albanese è centellinato nelle pagine, ma diventa esplosivo ed epifanico nel momento in cui il protagonista, dopo anni, racconta la sua vicenda personale usando in maniera spontanea e imprevista la lingua materna. Emergono le radici del suo dolore atavico, incontrollato e travolgente che viene accomunato alla condotta nichilista dell’amico svizzero, Max, e di Blanca, donna amata da illìr, anch’essa migrante. In quest’ultimo caso, il messaggio che sembra emergere è che solo tra coloro i quali esiste una sintonia esistenziale dovuta alla comune esperienza migratoria, possa esserci una reale comprensione e condivisione
I mari ovunque
Il terzo e ultimo romanzo della trilogia è stato edito in Albania nel 2004 con il titolo Më pas heshtja e tradotto in italiano nel 2007. Le vicende che ruotano intorno alla titolazione dei romanzi di Dones risultano interessanti in quanto il titolo risulta mobile a seconda del pubblico di riferimento e, soprattutto, appare provvisorio lungo tutto l’arco di gestazione del romanzo: durante il video blog curato dall’autrice è emerso che il titolo italiano in origine sarebbe dovuto essere E poi venne il silenzio, rimasto nell’edizione albanese.
Anche questa volta i demoni interiori interessano la narrazione che si basa sulla travagliata vicenda di Andrea, giovane sudamericana: anche in questo caso il passato affonda le radici in un regime dispotico che priva il presente di un passato sereno; la sua difficoltà viene sublimata attraverso la scrittura, che funge da contenitore intimo. Lo shock vissuto per aver assistito all’arresto dei genitori la porterà a frequenti peregrinazioni negli ospedali psichiatrici, ma questo è sottinteso alla vicenda e si evince solo nelle ultime pagine del romanzo.
La scelta dell’autrice è quella di mostrare le difficoltà della vita quotidiana, in continua oscillazione tra eros e thanatos, tra pulsione distruttiva e amore per la vita.
Vergine giurata e Piccola guerra perfetta
Nel 2007 Elvira Dones decide di pubblicare Vergine giurata, un romanzo che dal punto di vista tematico risulta interessante ed unico nella produzione dell’autrice albanese; alla base della narrazione viene proposta la realtà della burrnesh Hana che, giovanissima, deciderà di diventare una vergine giurata. Il romanzo è ambientato nel Nord dell’Albania e propone un tema che potrebbe facilmente risultare opaco ai lettori ignari delle pratiche e delle caratteristiche culturali delle Alpi albanesi. Con questo romanzo Dones propone un’opera di mediazione culturale molto importante, che mira ad omaggiare la sua terra natale e dissipare le letture fuorvianti che spesso hanno accompagnato le vicende delle vergini albanesi.
A partire da Vergine giurata l’autrice decide di scrivere affrancandosi dalla mediazione linguistica, utilizzando come lingua letteraria l’italiano. Questa decisione, fondamentale per gli autori italofoni che vengono da una migrazione culturale e geografica, ha avuto una gestazione caratterizzata da diversi passaggi e riguarda anche la capacità di comunicare sfumature e significati impliciti che difficilmente riescono a passare attraverso la mano del traduttore; una scelta coraggiosa che affonda le radici nella consapevolezza che, seppur imperfetta come lingua letteraria, l’italiano acquisito durante gli anni di permanenza in Svizzera era giunto a maturazione.
Anche Piccola guerra perfetta, edito nel 2011 in Italia e l’anno successivo in Albania, beneficia di questo nuovo processo di scrittura. Il romanzo presenta l’introduzione a cura di Roberto Saviano, una dichiarazione importante per accedere nel canone letterario nazionale.
Il titolo, che si riferisce alla presunta durata del conflitto, la guerra del Kosovo, innescato nel 1999 per fermare la pulizia etnica serba, allude anche alla modalità di svolgimento della guerra stessa: una guerra perfetta, un conflitto tecnologico.
È possibile attingere dalle parole di Saviano che afferma nella sua introduzione che Piccola guerra perfetta non è un «romanzo sulla guerra, né un romanzo di guerra […] No, questo romanzo è invece direttamente la guerra»[2]; un romanzo che adotta, come di consueto, un punto di vista femminile ma che questa volta è interno alla vicenda, una voce narrante che mima quella di chi vive il conflitto e di chi ascolta il terribile suono delle bombe che cadono dal cielo. È interessante sottolineare questa scelta narrativa che trasporta il lettore direttamente nella casa di Pristina e che lo cala nel punto di vista di coloro i quali vivevano in Kosovo; la scelta di non adottare la visione occidentale, di coloro che osservavano la guerra dall’alto dei loro aerei che bombardavano paesi e città al fine di piegare il nemico, appare centrata ed efficace per permettere una piena empatia verso una guerra celermente dimenticata dall’Occidente. L’assunto di partenza, infatti, è che non esiste una guerra raccontata correttamente se non si ascolta e non si legge la voce delle persone che l’hanno vissuta.
Rea, Nita, primariamente, e Hana sono le donne attraverso le quali la narrazione si articola; sono gli occhi e le orecchie, sono i corpi e le menti che filtrano gli avvenimenti. Dones decide di narrare la quotidianità del conflitto, gli aspetti più umani e semplici ma che, da un punto di vista stilistico, rappresentano la vera chiave di lettura del romanzo: la guerra è inenarrabile, le atrocità sono indicibili e per questo l’autrice sceglie di focalizzare l’attenzione sulla quotidianità. Dalle pagine del romanzo emerge un’assuefazione al male che permette la sopravvivenza fisica e psicologica dei personaggi che ruotano sulla scena del romanzo. La modalità attraverso la quale le donne affrontano gli ottanta lunghi giorni di guerra è pregna di significato: attendono; nel romanzo serpeggia, infatti, un continuo senso di attesa e di passività rispetto agli eventi e alla morte che sperano piova dal cielo insieme alle bombe che cadono come pioggia.
La diversa scansione del tempo, la differente quotidianità tra ieri ed oggi, viene giocata attraverso l’analessi e la divisione del mondo tra fuori e dentro le mura domestiche, che fungono da utero protettivo e materno.
Nella narrazione colare dalla voce muliebre, emerge l’unico uomo che ricoprirà una parte significativa nella narrazione: Arlind, fratello di Hana e Nita, che vive nella Svizzera italiana e che ha abbandonato la supponenza e il machismo propri della maggioranza degli uomini che popolano le pagine della narrazione.
In Piccola guerra perfetta non emergono eroi o eroine perché dietro la sua stesura non esiste un convincimento ideologico: l’autrice non si schiera né contro i serbi né a favore dell’UCK kosovaro, il suo compito è quello di raccontare la verità dal basso, dal punto di vista di chi testimonia che quegli ottanta giorni hanno stravolto il volto dei Balcani.
I romanzi analizzati mostrano un’indiscussa emancipazione da quelli che sono i temi cari all’autrice, temi che però vengono di volta in volta riproposti e sviscerati secondo diversi punti di vista. La migrazione e il dolore rappresentano lo sfondo di tutte le vicende narrate, insieme all’Albania e all’albanesità che sono la loro cifra contenutistica.
Attraverso il suo lavoro Dones è riuscita ad inserirsi nella produzione letteraria italiana contemporanea: se Senza bagagli le ha consentito l’accesso nelle patrie lettere, Vergine giurata le ha donato il passaporto per entrarvi a pieno tiolo -consacrandola come una delle autrici albanesi più riconosciute in Italia e all’estero- e Piccola guerra perfetta ha dimostrato la piena assimilazione letteraria del canone nazionale.
Dones porta un’eco dell’Albania che aspettava di essere ascoltata da una nazione divisa dal Paese delle aquile solo dal confine liquido rappresentato dall’ Adriatico.
[1] Caratteristica di questo primo momento è il ricorso alla coautorialità ma Dones decide di non lavorare a quattro mani sui testi, scegliendo di attingere ad una traduzione postuma alla scrittura.
[2] Introduzione di Roberto SAVIANO (a cura di), La guerra delle donne, in Elvira DONES, Piccola guerra perfetta, p IX.
Viviana Minori nasce a Colleferro (Roma) il 18 dicembre 1987. Nel luglio del 2017 si laurea in Italianistica presso l’Università di Roma Tre con una tesi dal titolo La memoria culturale albanese nelle scritture migranti: il caso di Elvira Dones. Ha collaborato dal 2009 al 2016 al progetto SAI per il quale ha pubblicato due saggi, frutto di ricerche storiche e d’archivio. Da anni cura laboratori di scrittura creativa nelle scuole. Nel 2017 ha collaborato alla ricerca, prevista nel progetto Educare con efficacia, presso l’asilo nido del suo paese di residenza, Paliano, approfondendo la tematica della realtà immersiva come valido supporto per la didattica innovativa. Lavora come docente di letteratura italiana e si interessa di lingua italiana come L2.
Immagine in evidenza: foto di Micaela Contoli.