E POI ARRIVA L’UOMO NERO. Diario di una famiglia italo-senegalese

bianco e nero

di Susy Cavone

 

 

 

Mangia tutto altrimenti arriva l’uomo nero e ti porta via!”

Quante volte, da bambini, abbiamo ascoltato dai nostri genitori in tono minaccioso questa frase come risposta ad un nostro capriccio….

I nostri genitori non avevano certamente cattive intenzioni ma non possiamo negare il fatto che abbiano contribuito a creare nella nostra mente lo stereotipo dell’ “uomo nero che rapisce i bambini se non fanno i bravi”.

Quanto a pericolosità, nel nostro immaginario infantile, l’uomo nero batteva addirittura l’orco di Pollicino e il Mangiafuoco di Pinocchio.

Poi ci è piombato addosso il mondo mediatico che ha decisamente stravolto le cose. Shrek, l’orco verde della Pixar Distribution ha dimostrato che l’orco diventa buono quando si innamora della bella ma risoluta fanciulla. Il povero Mangiafuoco è rimasto il cattivo della situazione ma è stato rappresentato in modo così colorato e magistrale da Benigni nel suo film che non ce la sentiamo proprio di considerarlo un delinquente, nonostante trasformi i bambini in asini.

All’uomo nero non è andata così bene.

Nell’immaginario collettivo, è colui che arriva in Italia per “rubare il lavoro, le case e ingravidare le nostre donne, non pagare le tasse ma soprattutto, oltre ad avere vitto e alloggio gratis, riceve anche 35 euro al giorno, mentre gli italiani non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese” (cit.).

È la favoletta raccontata da quei “soliti razzisti ignoti”, che poi si fermano con la loro macchina vicino a una tangenziale a chiedere una prestazione sessuale occasionale a una giovane nigeriana o senegalese o la storiella raccontata dalle solite razziste ignote che poi programmano, con largo anticipo, le vacanze estive in paesi come Costa D’Avorio o Kenya per collezionare selfies mozzafiato con giovani e aitanti “Big Bamboo”.

Noi portatori sani di rispetto per le culture altre, estremamente convinti dell’importanza della “pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge per tutti”, sappiamo bene, invece, che quei 35 euro sono frutto di un finanziamento dell’Unione Europea e che non vengono dati direttamente all’immigrato ma sono utilizzati per finanziare le spese sostenute dalle cooperative che si occupano della loro accoglienza. Sappiamo quindi che ivi sono compresi i costi del vitto e dell’alloggio, delle spese mediche e che una piccola quota copre anche i programmi per l’inserimento lavorativo. Sappiamo che all’immigrato, alla fine, restano solo circa due euro per sopperire ai suoi bisogni giornalieri.

A questo punto, mi piacerebbe promuovere un sondaggio presso i “soliti razzisti ignoti” e chiedere loro cosa comprerebbero con soli due euro giornalieri….

Ma, ripensandoci, preferisco impiegare le battiture a mia disposizione, per spostare l’attenzione verso un’altra tipologia di razzismo, quello che io chiamo “Razzismo silenzioso” cioè quello subìto da colei che sceglie un uomo “di colore” come compagno di vita.

Non parlerò degli uomini che scelgono di iniziare una relazione con una “negra”, perché in questo caso le cose cambiano decisamente. L’uomo in questione diventa l’essere più fortunato del pianeta Terra e sarà oggetto di lusinghe e battutine maliziose per il resto della sua vita, perché l’immagine della bellissima, prosperosa e sottomessa donna africana, è stereotipo diffuso fin dalla notte dei tempi, nel mondo occidentale.

Una donna bianca non può e non deve scegliere un compagno nero, invece.

Moglie e buoi dei paesi tuoi”. E se poi la relazione va male, non perdono occasione di dirti “te la sei cercata”.

Lo dico per esperienza vissuta.

Sono passati vent’anni anni da quando decisi di iniziare una relazione, culminata poi nel matrimonio, con un cittadino senegalese, nella città di Bari.

Si sa al cuore non si comanda, ma la comunità barese non la vedeva esattamente nello stesso modo allora.

È pur vero che nel lontano 1996 (non poi così lontano, a dire il vero…) non era usuale vedere due giovani adulti di differente colore tenersi per mano o scambiarsi dei baci. Ciò era ritenuto offensivo alla tradizione religiosa cattolica, ma soprattutto, destava un senso di nausea; più o meno lo stesso senso che prova ancora oggi qualcuno a guardare due uomini o due donne che si baciano; tanto per chiarirci.

Ciò che era ed è interessante, oltre che riprovevole, è che una coppia italo-cinese, per esempio, non destava e non desta ancora oggi lo stesso sgomento di una coppia italo-africana.

E mentre negli anni ’90 si moltiplicavano convegni locali e nazionali, manifestazioni antirazziste che portavano avanti il tema dell’uguaglianza fra i popoli, nella vita reale erano solo belle parole e nient’altro.

Nessuno parla mai delle situazioni di discriminazione di cui sono oggetto le cosiddette “coppie miste” e che riguardano anche le semplici scelte di vita quotidiana. Quelle delle quali fummo protagonisti io e il mio, ormai ex, marito furono molteplici e paradossali.

Noi per esempio riscontrammo notevoli difficoltà a trovare un municipio che decidesse di accogliere la nostra richiesta di celebrare il matrimonio con rito civile. Difficoltà nel trovare un fotografo per quel giorno per noi così importante perché tutti i fotografi contattati ci dissero che non potevano accettare l’incarico in quanto non avevano filtri adatti affinché potessero rendere al meglio il volto così scuro del mio futuro marito! Il ginecologo che avevo scelto mi liquidò dicendomi che mi affidava ad un suo collega perché aveva deciso di non prestare più il suo servizio in un ospedale pubblico ma solo in forma privata e noi non potevamo permettercelo dal punto di vista finanziario. Me lo ritrovai poi in sala parto con sua grande sorpresa. Quindi non aveva mai smesso di lavorare in forma convenzionata in quell’ospedale…

Nel 1997 io e il mio ex marito abitavamo ad Adelfia, un piccolo comune in provincia di Bari e nonostante la presenza di una numerosa comunità senegalese in loco, qualcuno poco accettò quel matrimonio misto. I residenti vennero numerosi ad assistere alla celebrazione del nostro matrimonio, notevolmente incuriositi; la stessa curiosità con la quale ci si reca al circo a vedere gli animali ammaestrati.

Una volta i bambini del paese, mentre camminavo con mio marito, mi lanciarono le pietre sul pancione urlandomi che avrei dovuto solo “portarmelo a letto un “nero” e non sposarlo!”. La prima pediatra di mio figlio non volle nemmeno visitarlo e frettolosamente mi congedò consigliandomi di rivolgermi a una sua collega, appena ritornata dall’Africa e quindi più preparata in merito.

Per fortuna i miei figli non hanno subìto gravi episodi di discriminazione, tranne una frase di un bambino alla Scuola Primaria di Primo Grado, che consigliò a mia figlia Amina di immergere il padre nella varichina in modo tale da avere una famiglia normale!

Però ricordo anche, ancora oggi sorridendo, di quella volta che mio figlio Omar rischiò di essere addirittura sospeso perché ascoltò la maestra parlare con alcune sue colleghe del fatto che non era un bambino adottato ma che aveva “la madre bianca e il papà nero” e lui recriminò specificandole che suo padre veniva dal Senegal che si trovava nel continente africano, mentre sua madre era nata in Italia, che si trovava in Europa. Fui contenta della spiegazione precisa e disarmante data dal mio Omar alla sua maestra, perché avevo risposto alle prime domande dei miei bambini sul perché il padre fosse di un altro colore, proprio nello stesso modo: attraverso il concetto di nazionalità diverse e con il planisfero alla mano.

Nonostante le difficoltà, nel nostro percorso di vita (mio e dei miei figli) ho sempre cercato di insegnare loro che non conta il colore della pelle ma contano le idee di una persona. Non è stato semplice spiegare loro che essere figli di una coppia mista significava essere portatori delle singolarità culturali e sociali di due popoli che li avrebbe portati, nel tempo, a un’apertura mentale notevole, ma al contempo avrebbe rappresentato una grande responsabilità: quella di educare il mondo all’idea che le diversità sono un valore aggiunto, che lo arricchiscono di colore e calore.

Per questo motivo, ho sempre detto ai miei due figli che avrebbero dovuto avere molta pazienza perché non sempre avrebbero incontrato sulla loro strada persone capaci di comprendere tale valore.

Omar e Amina ormai sono adulti.

Mi sono sempre posta numerose domande.

In che modo abbiano percepito questa duplice portata culturale e se talvolta ne abbiano avvertito il peso. Se sono riuscita a infondergli l’amore per quel Senegal che non hanno mai visto, dato che loro padre ha scelto di seguire la sua strada, lontano da noi. Se si sentono “diversi” per quel colore della pelle che li caratterizza ma che ai miei occhi li rende unici. Se hanno mai sentito il peso degli sguardi sdegnosi che mi rivolgeva la gente, mentre io camminavo a testa alta con loro al mio fianco. Se talvolta, in cuor loro, mi hanno giudicata per la mia scelta di andare contro le regole di un sistema, quello “dei bianchi”, infrangendole per amore; semplicemente per amore.

Talvolta le risposte alle nostre domande arrivano all’improvviso, nel momento in cui smettiamo di porgercele.

A mia madre, donna bianca con due figli neri in un mondo razzista.

A mio padre, immigrato a diciotto anni dal Senegal in Italia.

A mio fratello Omar.

A Stefano, il mio migliore amico che mi ha sempre detto che gli piace il colore della mia pelle”.

Questa è la dedica con la quale mia figlia ha concluso il suo esame di Stato.

Sono passati tanti anni, eppure ricordo bene il volto e il tono di voce sdegnato di colui che mi disse che avevo ancora l’odore dell’Africa sulla mia pelle, nonostante fossi separata da qualche anno.

Ancora oggi qualcuno mi chiede il perché di una scelta così azzardata e quasi da pioniera. Rispondo sempre allo stesso modo: non mi sono mai pentita della mia scelta.

Mi sono innamorata di un uomo che proveniva da un mondo lontano; un mondo ricco di colori, tradizioni e culture che ho avuto la curiosità di conoscere. Ciò non può oggi essere considerata ancora una colpa.

foto SusySusy Cavone nasce a Bari nel 1971.Frequenta il corso di Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Bari “ Aldo Moro”, laureandosi a pieni voti nel 2012. Nel 1995 partecipa agi scavi archeologici effettuati presso l’Ipogeo Manfredi in Località S. Barbara, Polignano a Mare (Bari) diretti dal Prof. A. Geniola, docente di Paletnologia presso l’Università degli Studi di Bari. Dal 1996 al 2001, lavora per l’Associazione Culturale “Historia Ludens” di Bari, della quale è tuttora socio fondatore, in collaborazione ad Antonio Brusa ( docente di Didattica della Storia presso l’Università degli Studi di Bari) con la quale realizza Laboratori di Didattica della Preistoria, nelle scuole di Primaria e Secondaria di 1° e 2° Grado del territorio barese. Attualmente scrive articoli sulla Didattica della Preistoria e sulla Preistoria Sperimentale sul sito web dell’Ass. Cult. “HISTORIA LUDENS” (www.historialudens.it). Dal 2014 fa parte delle Brigate Poeti Rivoluzionari di Bari, un gruppo di poeti che hanno scelto di utilizzare la poesia come strumento di denuncia sociale.

Immagine in rilievo: http://www.sitographics.it/imagini_batory.html

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista