feb 5 2018, 6:35am
Luca Traini poco dopo l’arresto.
Questo articolo, apparso nella sua versione originale qui, è frutto della collaborazione di VICE con GRIOT, un magazine online e un collettivo che celebra la diversità attraverso le arti, la creatività e la cultura, e le storie ad esse connesse di afrodiscendenti e altre culture in Italia e nel mondo.
La mia giornata di sabato è iniziata in maniera tranquilla. La mattina sono andata a vedere la mostra di Arcimboldo, a Roma, poi ho pranzato al ristorante. Il pomeriggio, però, l’ho passato con gli occhi incollati al telefono, fino a notte inoltrata, scorrendo le notizie e i post che parlavano del gesto “folle” di un criminale “squilibrato”, come l’ha definito tra gli altri Giorgia Meloni. Un uomo che a Macerata ha sparato a casaccio contro alcuni “immigrati”—termine usato da troppi media—la cui unica sfiga, o colpa, è quella di essere neri; e quindi di condividere la stessa dose di melanina del ventinovenne nigeriano Innocent Oseghale, accusato di aver ucciso, fatto a pezzi e rinchiuso in due trolley il corpo della povera Pamela Mastropietro, ragazza romana di 18 anni scappata da una comunità di recupero. Sarebbe lei—o la “vendetta”—il presunto movente dell’atto terroristico. Credo sia solo una scusa. E anch’io, come molti, ho provato un profondo senso di rabbia per quello che le è successo, augurando d’istinto umano la stessa sorte a chi ha compiuto il gesto.
Sei persone, sei africani—Jennifer Odion, nigeriana di 29 anni; Mahamadou Toure, maliano di 28 anni; Wilson Kofi, ghanese di 20 anni; Festus Omagbon, nigeriano di 32 anni; Gideon Azeke, nigeriano di 25 anni; Omar Fadera, gambiano di 23 anni—sono stati colpiti dalla ferocia razzista di Luca Traini, un terrorista fascista vicino agli ambienti neofascisti, candidato l’anno scorso nelle liste della Lega Nord a Corridonia. Armato di pistola, ha colpito ogni passante con la pelle color marrone e prima di essere arrestato, con il braccio teso, il saluto romano, e il corpo avvolto nella bandiera tricolore, ha urlato “Viva l’Italia.”
La prima cosa che ho pensato quando ho letto la notizia è stata questa: “È ufficialmente iniziata la caccia al ne*ro.” La mente mi ha riportata ai fatti di agosto 2017 di Charlottesville, Stati Uniti, quando un suprematista e terrorista bianco si è scagliato con la sua macchina contro dei manifestanti antifascisti, uccidendo una ragazza e ferendone altri. Poi ho ripensato alla sorte toccata, nel 2011, a tre ragazzi senegalesi a Firenze, uccisi—uno gravemente ferito e oggi sulla sedia a rotelle—a colpi di arma da fuoco dall’attivista di CasaPound Gianluca Casseri. O all’omicidio di Fermo del nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi, ammazzato con un pugno da Amedeo Mancini, anche lui vicino agli ambienti dell’estrema destra, per aver difeso la compagna dai suoi insulti razzisti.
Successivamente ho letto il post di Matteo Salvini in cui denuncia che “la violenza non è mai la soluzione,” che è da condannare; e che pure, nello stesso messaggio, usa quel ma avversativo—ossia: “l’immigrazione fuori controllo” porta allo “scontro sociale”—e continua a dare la colpa a loro, a noi, alle vittime, perché sono nere e perché sono in Italia, perché sono immigrati. Perché avrebbero deciso di “invadere il paese.”
Non basta chiedere scusa, poi. Non serve ammorbidire i toni quando per anni e anni hai usato questo linguaggio. Non sono ingenui. Sanno benissimo cosa hanno innescato. E lo hanno voluto. E ci troviamo ormai in un punto di non ritorno.
È così: la stagione della caccia al ne*ro è ufficialmente iniziata. Per quelle strade potevo esserci io a passeggiare con mio figlio, o altri italiani come me, afroitaliani. O dei turisti/lavoratori africani, o afroamericani, o afroeuropei, o afrodiscendenti, insomma. E non lo dico perché voglio distinguermi dagli immigrati, elevarmi a quella condizione di superiorità, del tipo “sono italiana, una cittadina di questo paese, non merito di essere attaccata.” Da un po’ di tempo a questa parte, tuttavia, ho la piena consapevolezza che la mia italianità—sempre più invisibile—non mi proteggerà da questi discorsi d’odio, da questo razzismo e xenofobia crescenti che nessuno ferma, ma condanna solamente a parole, con vuote dichiarazioni stampa o ospitate nei talk show.
Questa è gente che gioca sulla mia pelle, sulla mia incolumità e quella di mio figlio e del mio compagno. Sulla mia sicurezza. Sui miei nervi. Sulla sicurezza e sui nervi degli italiani con origini africane e non. Sulla tenuta sociale dell’intero paese.
La tensione la sento sempre di più, così come avverto il rifiuto crescente del corpo nero negli spazi pubblici, il senso di impunità nel trattarti in maniera differente, sprezzante, perché intanto la politica, il discorso pubblico sembrano aver preso questa direzione. E noi non ci siamo, da nessuna parte, e non veniamo presi in considerazione perché qui in Italia la nostra voce non è forte.
Le responsabilità di Salvini e Lega, Fratelli d’Italia, CasaPound, Forza Nuova & co. sono evidenti. Così come quelle di altri politici e media a destra— Libero, Il Giornale, programmi come Dalla Vostra Parte—e a sinistra, che hanno permesso all’estrema destra e al fascismo di indossare l’abito istituzionale invitandoli nei loro salotti. Non per democrazia, attenzione; ma secondo me per pavoneria, per presunta superiorità intellettuale, per aumentare di qualche punto percentuale lo share di un programma. Programmi, non a caso, dove non si vedono mai italiani con origini africane—o solo raramente, e quando ne trovi mezzo è grasso che cola. Mai che vengano invitati in talk show che non hanno necessariamente a che fare con i temi di immigrazione, razzismo, terrorismo. E che dire del pubblico? E degli autori? Quanti italiani con origini africane vengono coinvolti? Come si fa a raccontare un paese se non lo mostri tutto?
Alcuni mesi fa, dopo i vari, troppi episodi di intolleranza razziale vissuti da diversi neri italiani, avevo scritto che oggi camminare per strada, per le città, negli spazi pubblici, con un corpo ne*ro è un atto di resistenza politica e sociale. Oggi più che mai lo confermo, come quando i tuoi amici black se ne vanno al ristorante al ghetto ebraico di Roma e ti raccontano che le stesse amiche/ragazze bianche si sono rese conto dell’atteggiamento, cioè del servizio diverso rivolto al loro tavolo; oppure quando porti dei tuoi ospiti afroitaliani del nord a bere in un bar a Prati e, seduti al bancone, i barman ti guardano e servono quasi con fastidio e ti chiedono di pagare appena hai finito di ordinare i drink, mentre ai vicini no; o come quando Giulia, 15enne italiana e africana campionessa di basket, viene presa a calci da un uomo su un autobus, che le dice: “è inutile che vai a scuola, tanto finirai per strada, tornatene al tuo paese.”
Si potrebbero aggiungere fiumi e fiumi di parole. Ma sappiamo tutti che questo gesto continuerà a riproporsi sotto varie forme di caccia che non necessariamente prevederanno l’utilizzo di armi.
L’essere consapevole dei tempi bui che sta vivendo il mio paese non mi toglierà però—spero—la voglia di fare, la volontà di cercare di migliorare le cose, di continuare, insieme ad altre persone, a fare quello che stiamo facendo, di occuparci di arti, musica e cultura; di essere leggera e cazzeggiare, quando mi andrà di farlo. Certo, un po’ di paura, timore, incazzatura ci sono; eppure se cediamo, se ci chiudiamo, inevitabilmente finiremo in un cul de sac, e allora sarà ancora più dura venirne fuori.
Johanne è la fondatrice di GRIOT. Segui GRIOT su Facebook e Instagram.