Per gentile concessione di di Aria Fani autore dell’articolo, selezione poetica e traduzione inglese a cura di Aria Fani e Adeeba Talukder, traduzione italiana di Pina Piccolo dall’ articolo originale apparso in inglese nel 2012 nel sito iraniano Frontline – Poetry – Daughters of Afghanistan: Literary Voices of Change
Ognuno ti chiama verso di sé/ io ti invito solo dentro te stesso
–Rumi
Nella poesia persiana classica viene costantemente evocato l’Afghanistan, la sua gloriosa storia e poeti come Rumi (di Balkh), Sanai (di Ghazni) e Jami (di Ghor) sono celebri ancora oggi. Nella sola provincia di Balkh, esistono diversi gruppi letterari che costituiscono punti di riferimento sia per poeti che per appassionati di poesia, tra cui Partow Cultural Foundation, Poets and Writers Organization of Balkh e Parwaz Literary Association. Zuzanna Olszewska, traduttrice di versi afgani contemporanei, scrive che “la composizione e la recitazione di poesie è stata e continua ad essere la forma d’arte più apprezzata e ampiamente praticata tra gli afgani di tutti i ceti sociali, sia alfabetizzati che analfabeti”. Onorando ed emulando le tradizioni della propria cultura, ancora oggi i giovani e le giovani afgani continuano ad affermare le proprie voci poetiche creando stili distinti.
Nella poesia afgana contemporanea si rispecchiano le situazioni socio-politiche del Paese ed essa riecheggia le ansie e le realtà di una società che ha vissuto la guerra come pure le ambizioni e le aspirazioni di una generazione che tenta di stare al passo con il mondo, pur trovandosi invischiata in una lunga e violenta lotta associata al fanatismo religioso e all’occupazione straniera. Verso dopo verso, essa testimonia una ricerca profondamente sentita di dignità umana e di pace duratura.
Questi giovani scrittori osservano e seguono con grande attenzione le tendenze letterarie e culturali della letteratura persiana in Iran e in Asia centrale come pure gli sviluppi della letteratura mondiale in generale. Dall’amore non corrisposto, la convenzione più comune nel verso classico, sono passati a temi più idiosincratici, così come alla poesia della critica sociale. Da rigidi schemi che dettano rima e metrica, sono passati al verso libero, come pure a un rinnovamento della forma classica del ghazal; i dialoghi mistici con la divinità sono stati sostituiti da conversazioni che riguardano il sociale e i rapporti interpersonali. La poesia afgana sta attualmente attraversando una fase di lutto e molti poeti utilizzano un tono melodrammatico per trasmettere i traumi di cui sono testimoni nel Paese. Melodrammatica o meno, la loro poesia si appropria di uno spazio sociale per promuovere un dialogo nazionale e internazionale: annuncia una nuova era segnata da voci consapevoli del loro tempo e dotate di sufficiente coraggio per riflettere sentimenti profondamente personali, sfidando lo status quo.
In prima linea in questo movimento le scrittrici, che continuano a lottare per libertà fondamentali, tra le quali la possibilità di godere di uno spazio autonomo, dicendola con Virginia Woolf una “stanza tutta per sé” essenziale per il perseguimento delle arti. Ma ancora più importante, c’è un bisogno fondamentale che il movimento non sia dettato da altri, cioè che vi sia la “libertà di lasciare [la stanza] e tornarci a piacimento”, come scrive Farzaneh Milani, professoressa di studi delle donne all’Università della Virginia. L’accesso alla libertà di movimento necessaria per perseguire la scrittura rimane una sfida quotidiana per le donne afgane. Le strade e i bazar dell’Afghanistan non sono l’unica arena in cui la mobilità fisica delle donne è ostacolata e la loro presenza oscurata dalle convenzioni patriarcali: le scrittrici afgane si stanno avventurando in una tradizione letteraria che abbraccia oltre due millenni incentrati sul maschio. Creando il proprio spazio culturale accanto agli scrittori di genere maschile, le loro voci rivelano identità ben salde, e focalizzano una rinnovata attenzione verso l’eredità delle donne come narratrici orali e poetesse, ridefinendo così i confini convenzionali del contenuto poetico e rafforzando il loro posto nella tradizione letteraria afgana.
L’impatto liberatorio dell’espressione di sé, in particolare in un paese in cui le persone si nutrono di poesia fin da giovane età, è dimostrato dalla gamma di attività educative e letterarie esistenti nel Paese. Coltivano la speranza tra le vittime della guerra e degli abusi e danno loro il potere di impegnarsi nei pressanti dialoghi sociopolitici che li riguardano. Un esempio è l’Afghan Women’s Writing Project fondato nel 2009 che attraverso laboratori di scrittura incoraggia le donne a raccontare le proprie storie. La maggior parte delle lezioni è tenuta in inglese, il che aiuta le scrittrici a sperimentare il potere dell’espressione pubblica in una lingua diversa dalla lingua madre. Roya, una delle partecipanti, scrive: “Ho preso la penna e ho scritto e tutto è cambiato. Ho imparato che se faccio sentire la mia voce, lo faranno tutti, anche le altre donne del mio Paese .” Il loro coraggio è stato fonte di ispirazione per molte altre e non solo in Afghanistan, ma in tutto il mondo e le voci femminili che si sono espresse nell’ambito di AWWP sono state lette e recitate, ad esempio, da artiste in diverse parti degli Stati Uniti.
Esiste anche l’associazione Young Women for Change, fondata da Anita Haidary e Noorjahan Akbar. YWC è un gruppo di difesa delle donne con sede a Kabul che ha come programma quello di creare un ambiente sociale sicuro per le donne. Sebbene le molestie subite per strada siano una realtà quotidiana, per molte di esse, sono spesso considerate “violenza banale e minore” e non sono trattate come una forma di repressione in una società segregata per genere. Attraverso laboratori, mostre d’arte e manifesti educativi in giro per Kabul, YWC spera di eliminare la cultura della misoginia. La fan page interattiva di Facebook del gruppo, in persiano, pashto e inglese, è diventata una piattaforma per sostenitori nei social di tutto il mondo che affrontano questioni controverse come gli abusi sessuali. All’inizio di quest’anno, Anita Haidari ha proiettato il suo documentario This is My City Too, che le attiviste sperano possa innescare un dialogo nazionale sugli ostacoli alla piena partecipazione delle donne nella società.
La seguente selezione di poesie, selezionate e tradotte da Aria Fani e Adeeba Talukder, attinge a due generazioni di scrittrici afgane. Leyla Serahat Roshani (1959-2005), Bahar Saeed (n. 1953), Nadia Fazl (n. 1966), Parwin Pajwak (n. 1967) e Faegha Jawad Mohajer (n. 1976) sono state tutte costrette all’esilio e attualmente risiedono in Europa e Nord America. Grazie a un maggiore accesso alle risorse e alle libertà civili, le loro opere hanno goduto di ampia diffusione e fortuna di critica, e sono state inserite in antologie in Afghanistan, Iran e nella diaspora di lingua persiana. Principalmente praticanti di sher-e-sepid (verso bianco o libero), la loro poesia è caratterizzata da sentimenti penetranti, un tono sincero e una fraseologia colloquiale. I loro versi sono inequivocabili, le loro voci sono dirette e appassionate nel condannare il predominio della violenza e del dogma religioso nella loro patria. Raffigurando nei propri versi i giorni bui dell’Afghanistan che hanno portato alla loro rovina, fanno eco a una ricerca sincera di pace e dignità umana di cui si fa promotrice la loro generazione, pur insistendo che non si taccia sulle vite che sono state perdute. Il loro profondo rammarico per la distruzione di un passato culturale è accompagnato da genuina speranza e devozione per la ricostruzione di un Afghanistan più libero e giusto. La bellezza e la gloria di Balkh, Kabul e Herat, anche se più volte rimpiante nei loro versi, rivive nelle nuove voci degli scrittori e delle scrittrici afgani.
Anche se un po’ meno conosciuta, la seconda generazione è comunque costituita da voci potenti quali quella di Nadia Anjuman (1980-2005), studentessa di giornalismo presso la Scuola di Letteratura dell’Università di Herat, tragicamente uccisa all’età di 25 anni, molti credono dal marito, che le aveva categoricamente proibito di frequentare eventi letterari. Narrata in prima persona, la poesia di Nadia ci fa entrare in un mondo di repressione e resilienza, mobilità e immobilità, silenzio passivo e rabbia assordante. Gol-e Dudi (Fiore nero) è la sua unica raccolta di poesia pubblicata. Attraverso la sua poesia, Nadia ha raggiunto fama e mobilità, tradizionalmente ritenute prerogative maschili, violando così confini culturali a lungo incontrastati.
Khaledah Forugh (nata nel 1972) è professoressa di lingua e letteratura persiana all’Università di Kabul e membro del Pen Afghanistan Center. Acclamata come una delle poetesse più promettenti della sua generazione, fino ad oggi sono stati pubblicati sei volumi di sue poesie. Evoca elementi della mitologia persiana per creare un dialogo tra il passato dell’Afghanistan e il suo presente e per sfidare lo status delle donne nella società contemporanea. Forugh lavora anche nel campo della critica letteraria. Farangiz Sowgand, un’altra giovane poetessa, è una voce emergente nella comunità letteraria di Mazar-e Sharif. Il suo ghazal incluso in questa selezione sfida il punto di vista conservatore nei confronti delle prostitute; è solidale con la loro sofferenza, dedica loro la sua poesia, le “donne pure” dell’Afghanistan. Non piange la loro perduta “castità” o “innocenza”, ma piuttosto esprime il suo dolore per l’opportunità perduta di narrare la sua storia in maniera completa, recitare la sua canzone, “fa risuonare [il suo] faghan ” .
Interpretate dall’Occidente come vittime indifese, prigioniere in attesa dei loro liberatori occidentali, la poesia delle donne afgane colloca la loro sofferenza storica nel suo contesto ben più ampio, insieme al loro rifiuto e alla loro resistenza agli sforzi misogini di velare i loro corpi e mettere a tacere le loro voci. Dopo decenni di “privatizzazione della voce femminile nel regno della casa e della famiglia”, come afferma Farzaneh Milani, le scrittrici afgane si sforzano di documentare le loro voci padroneggiando l’arte della parola scritta. In una terra profondamente segnata dalla guerra, i loro scritti creano un monumento vivente, tangibile come un grattacielo, dove si possono ricordare le presenze di tutte coloro che hanno perso la vita a causa della violenza. Le loro poesie sfidano direttamente la perdita forzata dell’identità e creano uno spazio sociale in cui le tradizioni non sono più praticate con devozione indiscussa.
Si potrebbe obiettare che scrivere sulla poesia delle “donne afgane” declassa le loro opere a un sottogruppo separato dalla letteratura in generale. La letteratura non è né maschile né femminile, sostiene questo ragionamento, quindi categorizzarla in base al genere è arbitrario e assurdo. “La letteratura non è un palcoscenico in cui si può essere un uomo o una donna, è un palcoscenico che appartiene alle parole, non al genere”, scrive la scrittrice Homeira Ghaderi. Il regno letterario continua ad essere maschilista. La giovane poetessa afgana Zahra Hosseinzadah afferma: “Negli ultimi anni ho cercato di scrivere poesie come donna, piuttosto che come persona che potrebbe essere di qualunque sesso. Le differenze non sono grandi, perché tutti gli esseri umani hanno emozioni comuni, ma una donna vive con una certa solitudine e certe restrizioni ai suoi diritti, e cerca sempre di parlare: per dire che i miei diritti mi sono stati tolti, per dire che non sono solo una madre, io sono anche un essere umano che può essere nella società proprio come un uomo e avere diritti, e non è solo la cucina che mi appartiene, tutta la società mi appartiene”. In effetti, l’esame delle opere delle scrittrici attraverso strutture che mettano in primo piano il genere getta la luce necessaria sulla natura e sulla funzione dei versi afgani. Tratta la loro poesia come parte di una tradizione che ha sfidato le convenzioni patriarcali e ha lottato per una società più egualitaria per quanto riguarda il genere e, per estensione, una tradizione letteraria in cui vi sia maggiore uguaglianza di genere.
Lo studioso svedese e traduttore di letteratura afgana Anders Widmark scrive: “Molto di ciò che viene detto e scritto sull’Afghanistan oggi in Occidente continua ad essere contaminato da una prospettiva esterna sulla situazione – una narrativa che continua a ripetere e riformulare malintesi e generalizzazioni sostenuti in precedenza”. Nushin Arbabzadah, editore di Afghanistan in Ink: Literatures between Diaspora and Nation , scrive: “Dal momento che gli Stati Uniti stanno investendo in Afghanistan, sia in termini di dispiegamento di truppe che di aiuti finanziari, è necessaria una comprensione più profonda dell’Afghanistan che vada oltre alle immagini di donne coperte dal burqa e di uomini barbuti armati”. È di enorme importanza interrompere le abitudini di osservazione a lunga distanza e iniziare ad ascoltare le voci afghane. Ma perché, in particolare, attraverso la poesia, ci si potrebbe chiedere?
Sarah Maguire, fondatrice del Poetry Translation Centre, sostiene: “Quelle di noi abbastanza fortunate da vivere comodamente in Occidente possono spesso pensare che la poesia sia irrilevante e inutile, una ricerca minoritaria messa in atto da una élite istruita. Eppure in molte parti del mondo, compreso l’Afghanistan, la poesia è la forma d’arte più importante”. È emozionante osservare il ruolo che la poesia sta giocando nello sviluppo sociale dell’Afghanistan, una nazione in procinto di riscrivere con la visione di pace, che è diventata un segno distintivo della letteratura afghana, una storia contraddistinta dal peso della grave perdita di vite umane. Trascurate ancora in Occidente, le voci e i racconti dei poeti e delle poetesse afgani contemporanei sono parte integrante del tessuto del cambiamento sociale. Rifiutando l’immagine popolare delle prigioniere in attesa di liberazione, “vittime silenziose” cancellate dal blu monocromo del chaddori, le nuove voci afgane hanno ampliato la sfera del possibile con il loro coraggio e la loro resilienza, aggiungendo una miriade di sfumature alla nostra comprensione della loro situazione, facendo luce anche sulla nostra. Salutano il mondo in un modo nuovo. Come risponderemo?
***
Nadia Anjuman
Figlia dell’Afghanistan
Non ho voglia di aprire la bocca. Cosa potrei mai recitare?
Io che sarò disprezzata per la mia età, che reciti o no
Come potrò cantare del miele? Si è trasformato in veleno sulla mia lingua –
Che sia maledetto il pugno del tiranno che mi ha schiacciato la bocca
Sia benedetto questo mondo in cui non ho nessuno con cui condividere il mio dolore
se piango o rido, se vivo o muoio
Io e questa prigione: il mio desiderio ridotto al nulla.
È stata la futilità a generarmi, nata solo per essere messa a tacere.
Cuore! So che la primavera è passata, e anche la sua gioia
ma come potrei volare con queste ali spezzate?
Benché in silenzio per tutto questo tempo, ho ascoltato attentamente:
il mio cuore sussurra ancora le sue canzoni, ne fa nascere di nuove per ogni suo momento
Un giorno distruggerò questa gabbia, la sua stessa solitudine
Berrò il vino della gioia, canterò come un uccello in primavera.
Sebbene io sia un albero dai rami delicati, non tremerò ad ogni brezza
Sono una figlia di Afghan – farò risuonare il mio faghan, * ne tesserò i fili per l’eternità
* Un faghan è un grido, un’espressione di rammarico e dolore, mantenuto nella traduzione italiana per riflettere il gioco di parole nell’originale.
***
Parwin Pajwak
La morte del sole
[…]e
proprio qui,
Il sole è diventato freddo. *
Le stelle caddero, disperse
sulla terra
ardendo voragini profonde
voragini che riecheggiano
il vuoto
le sue grida angosciate.
E ora:
Buio.
foglie di speranza spezzettate
dal vento
talenti
tarpati
uccelli macellati
divorati
pile di libri
ridotte in cenere
solo per riscaldare
le case.
Qui, furono sradicati gli alberi gentili, i loro rami sottili
trasformati in verghe per battere i bambini
qui, i pensieri non osavano lasciare
le isolate stanze
della mente.
…
Tu che non hai colto
neppure una foglia dall’albero della speranza:
potrai mai costruire
dall’oceano di tenebre
un ponte verso la luce?
Oh voi prigionieri del mondo di voi stessi,
correrete mai, correrete mai
verso la luce?
* Da “Versi terrestri”, di Forough Farrokhzad (1935-1967)
***
Khaledah Forugh
Le cinque di sera
[…]La nostra ora
È sempre stata le cinque di sera
mai le cinque del mattino.
Le acque limpide della mia memoria
non lo dimenticheranno:
il movimento è il peccato imperdonabile
del nostro tempo.
Odore di crepuscolo, profumato di dolore.
Prende forma dentro di me
un monte scolpito
e mentre piango
fino a notte fonda
ogni notte
si spezza.
La città è un grido arrugginito
stanca
la nostra casa di canna
le sue parole si ripiegano su se stesse
e svegliano i muri stuzzicandoli
benché anche loro
galleggino alla deriva del sonno.
Stavolta, è la pioggia ad essere soffiata
nel turbinio del vento
e spensierata
scaraventa le mani degli alberi
in giro.
Canna,
Bisogna suonare
La canna solitaria
***
Nadia Fazl
ah!
senti il silenzio degli uccelli?
vedi
il loro sguardo?
Lanciati da dietro le sbarre
e nel buio della notte
nel cuore della notte
freccia dopo
freccia
***
Faeghah Jawad Mohajer
Per Kabul
Mia città calda e senza cielo
sono piena d’amore,
piena di raggi di luna
Che possa la notte colmare
di calma la tua terra desolata
e che possa la tua notte colmare
tutta l’eternità
le tue ginocchia
svuotate di vigore
la tua angoscia, ardente
mi brucia
Mio esaltato amore,
Io ti conosco
Sei tu tutto il mio valore.
Dammi la tua mano dura e callosa,
dammi la tua mano, amore mio
ora vieni, vieni
alzati
***
Bahar Saeed
Questo velo non può nascondermi, come i miei capelli –
la loro sola vista – non mi dipingeranno nuda.
Sono Sole. Brillo attraverso la tela della tenda.
Non può eclissare la mia luce, nemmeno il buio più oscuro.
L’uomo pio non mi indurrebbe a velarmi
se non fosse così devotamente, così devotamente, fragile.
O popolo della Terra del Cammino!
Ditemi, come fanno a sviarvi i miei capelli ?
Non vedo alcun senso nella saggezza che vendete:
oh, siete voi che mi avete fatto il torto, perché dovrei essere io a bruciare nell’inferno?
Mi rifiuto di essere castigata, di abbassare la testa
piegarmi per il bene delle vostre deboli gambe
Uomini di Dio! Distogliete i vostri occhi dal mio viso.
Andate e nascondete la debolezza del vostro essere-
velate, velate la vostra fede che appassisce
***
Leyla Serahat Roshani
Segno dell’eternità
In me tu
sei uno specchio
vasto come l’esistenza,
fresco e limpido come la primavera.
Pianto i miei occhi
nello specchio
in modo che possa emergere
un segno piccolo e verde
e proclamare
l’eternità della primavera.
***
Farangiz Sowgand
Solo tra sé e sé, ride un’ora intera
il respiro passeggero di una prostituta
Poi, tremando, urla forte
il dolore spaventato di una prostituta.
Per un attimo si guarda allo specchio:
lei non c’è. E poi eccola
nascosta nella polvere
la polvere del mondo di una prostituta.
Ogni notte, ogni giorno, ogni ora
stretta tra braccia robuste
piange lacrime di prostituta.
Si trasforma in scorpione,
si punge, piange
poi immagina una cura per una prostituta
Morte, occupata
a giocare da qualche parte in città
ride negli occhi umidi di una prostituta
Con la fine dell’autunno, un’altra storia
rimane inespressa:
Ho trascorso il mio compleanno
l’ho trascorso con il dolore di una prostituta.
Tutte le traduzioni sono di Adeeba Talukder e Aria Fani.
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Fonti (poesie):
Jabbari, Behrouz (2009). Hamzabani va Hamdeli (Opere scelte di poeti afgani contemporanei). Canada.
Mirshahi, Masoud (2000). Sher-e Zanan-e Afghanistan (Poesia di donne afghane). Khavaran.Publications.
Zanan-e Sokhansara dar Puye-ye Adab-e Dari (Poetesse nella letteratura persiana). Atta (1986).
Fonti (citazioni nel saggio):
Milani, Farzaneh (2011). Words Not Swords (Parole non spade). Syracuse University Press. “A Desolate Voice’: Poetry and Identity among Young Afghan Refugees in Iran, (‘Una voce desolata’: poesia e identità tra i giovani rifugiati afgani in Iran”, Iran Studies 40:2, 203-24.
Olszewska, Zuzanna (settembre 2004). “Stealing the Show: Women Writers at an Afghan Literary Festival in Tehran (“Rubare lo spettacolo: donne scrittrici a un festival letterario afgano a Teheran”,) Bad Jens. (citazione di Zahra Hosseinzadah)
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Aria Fani è Assistant Professor presso l’Università di Washington, Near Eastern Languages and Civilization. La sua ricerca e il suo insegnamento si concentrano sulla letteratura persiana moderna e sugli studi di traduzione. Attualmente lavora a un manoscritto intitolato Spaces between Nations: Afghans, Iranians, and the Making of Persian Literature che esamina la formazione della letteratura come istituzione all’inizio del XX secolo in Iran e Afghanistan. Aria è l’attuale vicedirettore del Journal of Iranian Studies. Si impegna nella difesa dei diritti di migranti e richiedenti asilo, in particolare i richiedenti asilo centroamericani, attività che offre ricco nutrimento sia al suo insegnamento che alla sua ricerca.
Adeeba Shahid Talukder è una poeta, cantora di poesia urdu e persiana. è autrice della raccolta Shahr-e-jaanaan: The City of the Beloved (Tupelo Press, 2020), vincitrice del Premio Kundiman; la sua raccolta d’esordio si intitola What Is Not Beautiful (Glass Poetry Press, 2018). Adeeba ha conseguito un MFA in Scrittura Creativa all’Università del Michigan e nel 2017 le è stata assegnata la borsa di Poeta Emergente della Poets House.
Foto di copertina di Lorenzo Tugnoli . Foto nel testo di Cheney Orr: Jessica DeBruin mentre prova “The Traffic Policewoman of Herat” di Zahra M.