SALITA AL LAGO PADRE
di Guido Cavalli, Manni Editori, 2018, Euro 12
L’immagine del passato è creazione del presente, specie in ambito letterario. A maggior ragione in poesia. Ai lettori spetta il compito di “seguire le varie e ricche disposizioni del pensiero nel disoccultare del passato la vita per cui questi pensieri furono nuovi e vivi e attivi, e nel seguire la mobilità della loro vita nel presente”. Sono parole ferme e lucide di Luciano Anceschi. Pronunciate durante l’ultimo corso tenuto all’Università d Bologna, nel 1981, ora raccolte nel volume Che cos’è la poesia? Detto questo, ribadito il concetto che la poesia serve a ‘disoccultare’ il passato, ma anche il presente, mi sembra che uno dei libri di versi di maggior pregio e interesse apparso di recente in Italia, sia una piccola raccolta che ha per titolo Salita al Lago Padre di Guido Cavalli, Manni Editori, composto da dodici dialoghi in versi, di cui presentiamo con piacere i primi due.
Dalla lettura di questo resoconto in versi, sin da subito, si capisce che la ‘salita’ di cui ci parla il poeta è il sunto d’un viaggio inteso come metafora esistenziale, un trasognare ad occhi aperti attraverso i boschi dell’Appennino parmense. Il viaggio, con la complicità del silenzio, produce pensieri ed effetti inattesi, mentre la meta è un piccolo invaso d’acqua stagionale, a carattere palustre, posto nell’alta val Parma dell’Appennino Tosco-Emiliano.L’ascesa, prima in auto poi a piedi, porta il poeta a percepire la presenza di ombre e fantasmi, mondi e luoghi certi, benché invisibili. Labili tracce che l’odierno e pervasivo presente annichilisce giù nelle valli. Sono i luoghi delle antiche torbiere “Ghiacciai preistorici e abissali/ vene di roccia ferrosa, detriti/ sedimenti che affiorano alla luce”; in altre parole: le nostre origini ancestrali dove, in una sorta di magica sinestesia, i sensi si trasformano, s’intersecano per far udire ancora una volta “il nitido discorso di una musica/che non puoi dire cosa significa” e ricevere il bisbiglìo del sottosuolo, il suo “prodigioso balbettare incerto/nel fango del linguaggio primigenio”. Così la storia della Natura millenaria interagisce e s’intreccia con quella pur breve dell’autore. Una formula, il contagioso incantamento, in virtù della qual il poeta si sdoppia, partorisce due sembianti di sé stesso e il loro parlare; come antagonisti positivi, portatori di speciali esperienze, meglio dire sapienze: il bosco e l’uomo che l’attraversa. Grazie a questo antico espediente letterario, i due dialogano, divagano, in modo serrato e affettuoso. Vengono realisticamente trasportati in un mutevole ‘presente’ socratico, a noi vicino. Un presente che, a sua volta, deve essere giudicato, attraversato e compreso. Un ‘qui’ ed ‘ora’ da ridefinire, immergere criticamente nella storia, per tornare ad essere, a sua volta, un cancello di voci, un viatico da lasciarsi domani alle spalle, uno spessore vivo da attraversare per rivedere sé stessi pienamente. Così l’ascesa al Lago Padre diventa la cronaca poetica, esperienziale e complessa, di un uomo che torna nei propri ricordi d’infanzia. Lo fa soprattutto per predisporsi ad accogliere le orme del proprio passato. Lì le interpreta, ne fa materia di dolorosa riflessione, comparandole con l’aridità del presente. “E’ vero, ormai siamo scomparsi/restano solo fossili parole./E questo cielo che al vuoto le porge/come figure passeggere, voci/che affiorano e dissolvono attraverso/il nitido discorso di una musica/che non puoi dire cosa significa.” Quelle voci non sono altro che gli antichi giacimenti del sapere. Il patire critico, la vita ‘in corpore vili’ che si sedimenta attraverso i secoli; stampo unico dell’energia originaria, poiché altri stampi non ve ne sono, e di cui c’è chiara e virile nostalgia. Ed è un percorso multiplo e ascendente, quello che si snoda ed irradia lungo l’ intero arco delle dodici egloghe. Una struttura di chiara eco e disegno dantesco: “Non pioverà. Il calore del giorno/ora che il sole ha abbassato lo sguardo/esce dal legno e dalle foglie aperte/grava nell’aria che intorno s’adombra/e tutto sembra fermare il respiro/in attesa che un tuono batta il cielo.” Come d’impasto dantesco, con altrettanta potenza espressiva, urgente necessità, sono i versi: “Tornare indietro ormai è impossibile./ Sono un’eco i miei passi nelle valli/un’onda sul torrente che s’ingrossa/un’ombra sulla pietra vespertina./Questa radura scelgo per la notte./E’ un luogo famigliare e sconosciuto/dove giungo come ad un appuntamento/che avevo dimenticato, per caso/o ritrovando qualcosa di mio/che anticamente ho abbandonato qui./E’ diventato adesso scalfittura/ della roccia, un incavo benevolo/che ora mi accoglie, mi custodisce.” A queste riflessioni poetiche confortevoli, piene d’aspettativa per il lettore, l’altro sembiante risponde, come un moderno Virgilio: “Forse non sai quanto è antico il tuo viaggio/ quanto ci sei caro, ragazzo cervo/che pensoso ora risali il sentiero./Le tue spalle così magre sussultano/quando un poco più in alto posi il piede,/poi ancora fin quando sul crinale/del monte Orsaro riposerai il fiato.” Il cerchio magico dell’origine della nostra poesia torna a fare capolino in questo libro che, se letto adagio, può dare tanto a chi lo legge e qualche vertigine ; specie se presta attenzione alla rara potenza espressiva, liquida musicalità che trascina con sè le parole e le immagini. Con Cavalli e questa sua raccolta Salita al Lago Padre si ridisegna la vita come un bene mobile, un viaggio esistenziale; contraltare allo spessore sinistro delle cose, e a chi invece le vorrebbe solo tutte per sé. Più che viaggio interiore è il nobile sconfinamento nell’infinito che ha ancora sede nei boschi, nella metafora che li trattiene e descrive. Nell’orma dove stanno imprigionate storie, mitologie, fili invisibili della quotidianità , dove è possibile ancora incontrare figure, ascoltare voci che erano prima della parola, della sua e nostra storia. In questi versi c’è una straordinaria attenzione alla natura del linguaggio poetico, al suo farsi e disfarsi. Inoltre c’è un’aderenza al mondo delle idee, nel loro divenire, tutt’altro che comune, un atteggiamento filosofico positivo: “ Quanto è cresciuto in mille anni il bosco./ Ricordo quando la valle del Bràtica/era giovane:piccoli castagni/le radici immergevano al torrente/per gettare più in alto nuove foglie.” dice uno dei due personaggi nella egloga d’apertura, a cui risponde il secondo: “Il tempo che precede la parola è un sogno nella mente degli dei”.
Anche se è cosa banale vale la pena ricordare che la nostra poesia nasce come pellegrinaggio, come erranza, dove l’autore-attore si fa migrante del quotidiano, ridà senso a sé stesso e alla Storia, alla visione del divino, e alle proprie vicende, spartendole con gli altri. Cavalli, con rara potenza espressiva, liquida musicalità che trascina parole e immagini, mentre cessa d’esistere il ‘mondo’, fa nasce coraggiosamente ai bordi dell’abisso un sentimento critico che ci spinge a riflettere sulla Natura, sui misteri delle emozioni umane, sulla genesi dei linguaggi, su ciò che ci precede e forse seguirà.
Per accedere alla recensione di Elena Cesari alla raccolta di Guido Cavalli “Nel castagneto”, cliccare su questo link http://www.lamacchinasognante.com/recensione-de-nel-castagneto-di-guido-cavalli-a-cura-di-elena-cesari/