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Dalla Prefazione: Spiccare il volo
“La nuova raccolta di testi poetici di Bartolomeo Bellanova riconduce al quadro dei suoi interessi civili, con i quali tenta una riflessione penetrante e attenta a dinamiche sociali inclini a incertezza, sospensione e disagio, che paiono sollecitare, forse più della politica, le notazioni dense degli intellettuali. È stato così a proposito di narrazioni e raccolte precedenti, nelle quali con una tastiera articolata di risorse e tonalità ha costruito un progetto letterario teso a richiamare il lettore a una doverosa coerenza ai cardini fondamentali dell’esistenza associata, quali libertà, dignità e rispetto, che alimentano istanze profonde, emozionali e sensibili, di ciascun essere umano.
L’impianto permane anche in questo frangente, sino dal titolo: Diramazioni che rinvia all’intrico di punti di repere che paiono ovunque offrirsi a una navigazione intralciata da mappe funzionali a un mondo sempre più sorvegliato e campionato. Il che alimenta il disorientamento fra universo immateriale e reale, ove risulta difficoltoso riconoscere tracce utili all’avanzare, luoghi acconci al distacco, posizioni utili al riparo riflessivo. Incertezze e dubbi che anche derivano da una globalizzazione che crea pulviscoli di spazi residuali e di margine, oltre i quali a fatica sopravvivono tracce e linee che intrecciano flussi naturali ed esigenze delle civiltà.
Quello del poeta non è mai attraversamento cieco e insensibile, spinto a reazioni non facili che contestualizzano gesti e sentire attraverso angolature personali, capaci di traguardare con maggior rilievo la visione mai scontata e superficiale del reale, che si sforza altresì di collocare Nel tempo, con l’ultimo nucleo della raccolta. Non un tempo totalmente umano, che prevarica in una scansione omogenea e lineare sui cicli naturali; pertanto soccorrono i richiami reattivi a figure naturali, come i Merli, o il recupero di curvature tutte interiori, a ricostruire le stagioni della giovinezza e il loro emozionale trascorrere. Ne sono parte essenziale le figure dei genitori, che fanno Nascondino fra le tessere della memoria, e la connettono al vissuto nella dimensione pubblica e storica di momenti sofferti ed esaltanti quali la Liberazione (In tua memoria, padre).
Eppure non c’è pretesa di esibire l’eccezione di una voce lirica e introversa, manifestando tonalità equilibrate e misure contenute (che solo si allargano nell’ultima sezione, dove il gioco dei piani temporali si riflette nell’alternarsi dei tratti recitativi e grafici) che evitano all’espressione di procedere con illuminazioni criptiche, per utilizzare piuttosto immagini dense nei rimbalzi analogici e figurali. Il ritmo scandito dei versi si modella sulla tradizione (con novenari o endecasillabi inframmezzati ai versi liberi), nel richiamo a un retroterra denso di letture, suggestioni e citazioni, da Ungaretti a Hajdari, da Alex Langer a Battiato.
Bellanova rifiuta di adeguarsi alla routine dell’esistere nel contesto dato, e perciò ricorre a una risorsa basale dell’essere umano, all’archetipa forza del narrare e del versificare. Essi incanalano e danno forma alla potenza distintiva del logos, ancora oggi indispensabile per costruire quadri condivisi con intenzione di definire un pensiero complesso, a contrasto coi messaggi frammentati da una tecnologia direzionata sull’individuale, che nega riconoscimento al dialogo e alla riflessione quali fondamentali risorse per connettere in una rete scambievole, viva e reciproca le persone. È questa l’intenzione proclamata nell’emistichio scelto a titolo di queste semplici pagine, che esorta allo sforzo di ciascuno, in un abbraccio comune, perché si possa «spiccare il volo» (Trecce), rinnegando quanto di greve, egoistico, avaro, non generoso, il presente ci carica come densa zavorra, riuscendo finalmente a
scrollarsi di dosso
gli schizzi di fango.
Fulvio Pezzarossa
Docente di Sociologia della Letteratura presso l’Università di Bologna”
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Dalla Sezione I – Nei corpi
Prospektiva
La tramontana gioca alle montagne russe
sotto gli archi del porticato;
disegna curve ellittiche,
avvolge i capitelli
che dissertano di buon’ora
di risvegli, saracinesche,
lune cadenti
e crepuscolari nostalgie.
Si passa lenti
dal portone al forno,
con gli spiccioli contati
per il pangrattato
con l’aroma della moka
impregnato nella pelliccia
anni cinquanta.
Si passa veloci a occhi bassi
in attesa, dalle budelle di facebook,
di responsi ai tanti affanni
esercito di codardi
che non fa prigionieri.
La prospettiva è nuda,
non si vede la fine della retta
ma c’è, dopo l’ultima colonna.
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Dalla Sezione II – In te
Trecce
Abbiamo fatto una treccia di tendini
muscoli e capelli
lunga cinquant’anni.
Abbiamo visto la doppia elica
del nostro genoma srotolarsi
e svolazzare in estasi sul soffitto.
Abbiamo recitato a memoria
la sequela dell’alba:
impasto, cura, spiccare il volo,
scrollarsi di dosso
gli schizzi di fango.
Abbiamo svuotato la mente
dall’ansia di prestazione del tempo,
dal peso del sangue che ristagna
nelle caviglie gonfie di memorie.
Ci siamo fatti tana e corazza,
concimati con parole
e petali di marzapane.
***
Dalla Sezione III – Negli spazi
La sciabola
Sotto al portico dei Servi
una sciabolata di luce
è in agguato dietro alle colonne magre.
All’improvviso mi mozza un orecchio,
pulsa forte la cicatrice di sole.
Cento, mille fasci di luce fusi
pattinano sul marmo e spandono
pepite d’oro tra piedi ciechi;
i passanti continuano
ad ammirarsi la punta del naso.
L’aria disegna bambagia
di filigrane antiche e fiori di ciliegio.
***
Dalla Sezione IV – Nel tempo
Merli
Adoro le smargiassate volanti
di questi uccelli guasconi,
moschettieri dal mantello nero
col becco sguainato e i fischi.
In singolar tenzone con i fiori di pesco
offrono il petto alle cancellate appuntite
e perdono il senno soavemente
tra gli accoppiamenti e le gemme.
Ritorna sullo schermo
socchiuso degli occhi
il film in bianco e nero
della domenica mattina,
le matinée dei ragazzini
nutriti a cappa e spada;
l’incessante gracchiare dei pop-corn
ai tempi dell’austerity
e dei governi Andreotti e Fanfani.
Merli miei impavidi,
sogni dolceamari di chi
ha perso l’uso delle ali
atrofizzate come gli animali impagliati
nelle ville di yankee pedofili.
***
Nascondino
Oggi i miei morti
– i morti che hanno tessuto i miei capillari –
mi osservano nascosti dietro agli alti fusti,
più alti dei condomini a bare intorno.
Una bolla di sapone esce all’improvviso
dal tronco di un pino, si alza al fiato delle loro voci
– un tempo rifugio e ora straniere –
Ci sono i collant smagliati della mamma
rappezzati con lo smalto da unghie
e la grisaglia di mio padre che fruscia lentamente
mentre 90° minuto diffonde euforiche vittorie
o ignominiose sconfitte.
Sono venuti a braccetto per un saluto
e per curare al primo sole di primavera
l’osteoporosi della solitudine.
Tra i miei piedi resta solo una cartolina
–saluti da Montecatini Terme–
impregnata dal tanfo della fonte Tamerici,
saluti appiccicati con le briciole di brioche
il mio spleen goffo inseguendo Baudelaire;
il suo albatro e i suoi fleurs
e un ago di pino che porto ancora
conficcato ben dentro al cuore.