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SECONDA PARTE
R: Come è avvenuto il mio ritorno da New York?
G: Io mi ricorderò sempre, che avevamo saputo da mia nipote, le difficoltà che i tuoi amici avevano riscontrato e io ti ho chiamato un lunedì e chiedendoti se volessi venire a casa hai risposto subito di sì e il sabato seguente, con un volo diretto, sei tornato. Papà è quello che ci ha sofferto di più.
R: Perché?
G: Lui comunicava poco, però si capiva come stava nei modi che aveva per gestire la sua quotidianità, si capiva che fosse molto preoccupato. Per esempio quando sei tornato, ogni tanto uscivi e lui non faceva che stare alla finestra per vedere se tornavi, e insomma ci soffriva tantissimo. Quando se ne parlava fra di noi, lui non faceva altro che piangere.
R: A parte piangere, faceva anche qualcosa?
G: In che senso?
R: Rispetto alla mia problematica della droga.
G: … no, lui non sapeva come gestire questa cosa, non sapeva cosa poteva fare. Non aveva idea di come aiutarti …
R: Però eravate già stati a parlare al SERT. Quindi sapevate quali erano le cose da fare.
G: No, perché il SERT purtroppo non è che ti aiutava perché tu essendo maggiorenne … .
R: Sì, c’era la privacy, ma qui stiamo parlando di dopo, quando ero io a frequentarlo, ma io so che eravate andati al SERT perché sempre parlando con papà mi aveva detto che tra le varie problematiche che ci potevano essere dei motivi che mi avevano portato alla dipendenza, c’era una conflittualità della sessualità vissuta in maniera confusa o meno. In quell’occasione avevo specificato a papà, siccome tra noi era già stata chiarita anni prima la questione della mia omosessualità e della mia libertà di vivere la mia vita secondo quanto sentissi, che non erano quelli i motivi per cui io mi drogavo. Quindi c’era già stato questo confronto, magari non ti ricordi bene … .
G: Mh…
R: Come è stato il percorso di recupero?
G: È stato molto duro perché intanto tu non volevi saperne di comunità, o farti aiutare più di tanto. Eri convinto che tu ce l’avresti fatta da solo e in comunità non ci volevi andare. Essendo maggiorenne era una decisione che era solo tua e papà infatti soffriva di questa cosa, lui infatti avrebbe voluto che tu andassi immediatamente in comunità, per farti aiutare perché, come tra l’altro pensavo anch’io, sapevamo che era l’unica soluzione per superare questi momenti.
R: Quando sono tornato sono ricaduto subito nella droga o sono rimasto astinente?
G: Sei ricaduto nella droga subito, dopo poco tanto è vero che a volte sparivi, un’altra volta non ti trovavamo più allora sono venuti i tuoi amici a cercarti e a riportarti a casa.
R: No, c’è stata una fase in cui io ero astinente, almeno i primi 5 mesi. Infatti sono andato a lavorare per Adidas all’Expo, ed era stata una fase positiva. Comunque pochi mesi dopo papà è risultato malato di tumore al fegato e al pancreas, come è stato affrontare tutto questo insieme per te?
G: E’ stato molto doloroso e molto tragico per me perché mi sono ritrovata praticamente sola anche se papà era presente, nonostante la sua malattia. Prima è stato in ospedale perché il decorso è stato rapidissimo. Dicevo mi sono ritrovata sola a gestire tutto anche se sono stata sostenuta dai tuoi amici che mi sono stati vicino moltissimo, col conforto delle parole anche perché, riguardo alla sostanza è facile suggerire ad un genitore di sbattere fuori di casa il figlio tossicodipendente, che gestisca autonomamente la propria vita, perché tu come genitore non puoi andare avanti così. E’ facile suggerirlo ma è molto difficile farlo.
R: Quindi come ti sei sentita?
G: Malissimo. Anche se tutti mi dicevano, come dicono tutt’ora che sono una donna forte, ma io forte non lo ero per niente. Quando mi ritrovavo sola con me stessa non sapevo a che santo rivolgermi.
R: Quindi eri da sola nella tua fragilità.
G: Sola. Non sapevo, quando mi svegliavo al mattino come ti avrei trovato. Se ti avrei trovato fatto oppure no.
R: Come hai gestito me a casa e papà in ospedale?
G: Le cose positive, di cui ti devo ringraziare, sono il fatto che hai detto a papà che saresti entrato in comunità e così quando sono andato a trovarlo nel pomeriggio, lui mi ha detto questa cosa e davvero io non ho mai visto una persona come lui in quel frangente. Poi, ti devo ringraziare del fatto che, quando papà e venuto a casa dall’ospedale per finire i suoi giorni in famiglia, perché in quel periodo, quelle due settimane non ti sei mai fatto e mi hai aiutato tantissimo nella gestione di papà. Di questo ti ero molto grata e pensavo che questo fatto avesse concluso come dici tu il tuo cerchio e ne fossi uscito.
R: Invece che cosa è cambiato dopo che è morto papà?
G: E’ cambiato che hai ripreso a farti normalmente. Mentre inizialmente era ogni qualche giorno, l’ultimo periodo era una cosa quasi quotidiana.
R: Come ti sei comportata rispetto ad amici, vicini e parenti che sapevano o non sapevano?
G: Al vicinato in generale non ho mai raccontato niente. Sono poche le persone a cui ho raccontato che oramai eri molto dipendente e siccome avevo anch’io bisogno di parlarne con qualcuno che non fosse O. o tua cugina ne ho parlato a qualche coppia di vicini amici, con lo scopo di averne uno sfogo mio per parlarne con qualcuno, anche se sapevo che nessuno di loro avrebbe potuto materialmente aiutarmi.
R: Quindi hai, in qualche modo, chiesto aiuto?
G: Ho chiesto aiuto, e l’ho avuto con il confronto.
R: Come è stata questa solitudine di cui più volte hai fatto menzione?
G: E’ tremenda. E’ tanto tremenda che un giorno ero talmente giù di corda e disperata, siccome era un paio d’anni che non fumavo, che quel giorno mi sono detta ‘ O vado a comprarmi le sigarette o mi butto giù dal balcone’.
R: Infatti eccole qua, mentre parliamo, hai già fumato due sigarette. Come è andato il primo soccorso, attraverso la comunità?.
G: Be’ anche li pensavo, quando eri nella prima comunità a Como, che tu stessi facendo un bel percorso anche perché eri in un posto molto bello, seguito da esperti e con molte persone. Poi un bel giorno hai deciso che saresti andato a fare un’esperienza monastica, di tradizione cattolico-giapponese perché secondo te era un’esperienza che ti poteva servire d’aiuto ed erano cose che a te interessavano …
R: Li ci possiamo tornare dopo, ma quello che voglio sapere è se era stato un periodo di tristezza perché non ero con te, se invece in quella condizione di solitudine hai potuto maturare il tuo lutto per papà, oppure eri contenta perché ero in un posto sereno e quindi hai potuto finalmente pensare a te. Pensiamo al mentre della prima comunità e non al dopo.
G: Certo. Pensavo che tu fossi in un posto sicuro dove persone esperte ti potevano aiutare, quindi mi ero rilassata un pochino, avevo incominciato a iscrivermi ad un corso dove incominciare a parlare dei miei sentimenti e dei miei problemi, cosa che non ho fatto fino in fondo ma per pochi mesi perché non lo ritenevo utile per me. In quel corso tutti dicevano la solita storia, io mio figlio l’ho sbattuto fuori di casa, io mio figlio ho fatto là … poi però quando facevi domande concrete a queste persone, come ad una signora che aveva riferito di non aver fatto entrare il figlio fatto la sera, se il figlio avesse qualcuno dove andare, mi sento rispondere ‘a si è andato a vivere con la sua ragazza’ al ché ho detto ‘Grazie al cavolo!’ perché anch’io avrei fatto una cosa del genere se avessi avuto la certezza che mio figlio avesse avuto altri luoghi in cui andare. Sapendo che non avevi altri posti non è semplice la soluzione di non far più entrare dentro casa.
R: Possiamo dire che questo anno e qualche mese è stato vissuto con un pò di respiro e un po’ di tranquillità?
G: Sì.
R: Dopo invece la soluzione di meditazione cattolico-giapponese, che menzionavi, come si è ripresentato il problema della droga?
G: Anche lì quando eri nella comunità con questo padre spirituale, lì, pensavo che avessi raggiunto in qualche modo una serenità, una pace invece poi ho scoperto che più di una volta avevi telefonato a tua cugina perché stavi male, perché avevi bisogno di aiuto perché ti eri fatto. Quindi io ho capito che tu eri tornato nella situazione iniziale.
R: Come hai reagito?
G: Molto male. Nel senso molto male interiormente perché anche lì non me lo aspettavo, non me ne ero accorta di questa cosa.
R: In questa seconda ricaduta eri sola o avevi qualcuno con te?
G: Avevo solo tua cugina e O. .
R: Come mi sono comportato, io, una volta tornato a casa per via dei miei problemi di droga?
G: Dopo pochi giorni che eri qua la situazione è tornata come all’inizio, ovvero che tu ti facevi normalmente. Ad un certo punto, presa dalla disperazione ti ho cacciato fuori casa tra virgolette, ed ero abbastanza serena perché ti ho cacciato senza troppe paure perché sapevo che avevi soldi a disposizione, e quindi il modo di gestire la tua vita.
R: Come è stato vedermi scegliere la miseria della sostanza, con quella sofferenza e con quel distacco?
G: Io per un po’ di mesi non ti ho visto, non sapevo neanche dove alloggiassi, cosa facessi o avevo qualche informazione di qualcuno che me lo diceva.
R: Quindi eri in contatto con degli amici suoi?
G: Si A. o S. . Però io ero abbastanza tranquilla.
R: Finché mentre ti trovavi nella dimora al lago, non è avvenuta la chiamata che ti informava che mi trovavo all’ospedale.
G: Si, ma non ricordo più chi mi ha chiamato.
R: Ti ha informato l’avvocato che io avevo chiamato dall’ospedale.
G: Non so, va be’. Al ché avevo deciso di non venirti a trovare, infatti per un po’ di giorni non sono venuta, poi con O. sono venuta a trovarti e dopo l’ospedale forse sei venuto a casa, non ricordo bene a dire il vero.
R: Quindi è stato un periodo confuso a livello dei fatti e dei sentimenti, forse perché rivivendo fatti ed accadimenti analoghi la memoria ne frapponeva l’ordine esatto? C’era la realtà della droga che mischiava nella tua mente tante infinite vicende analoghe e prive di respiro, segnate solo dalle cadute estreme che vedevano in gioco la presenza di ambulanze, pronto soccorsi, TSO, e polizia?
G: Sì, dove non vedevi soluzione o non vedevi la luce in fondo al tunnel come si dice.
R: Tu hai delle domande per me?
G: No perché era tutto tornato come prima. Tu deperivi sempre più, questa droga ti stava prendendo oltre al fisico il cervello con crisi marcate.
R: Che tipo di crisi avevo?
G: Vedevi cose che non c’erano, avevi paura di tutto quello che ci circondava. La mattina, quando ti eri fatto la notte, venivi subito da me per chiedere aiuto per le tue paure, vedevi gatti, vedevi persone che volevano farci del male, che dicevi stavano entrando chi dalla finestra, chi dalla porta e la cosa andava avanti per almeno un paio d’ore. Questo ciclo infinito mi ha debilitato tantissimo perché, primo non era gestibile e poi le persone e il Sert hanno cominciato ad inculcarmi la paura che tu potessi farmi del male. Secondo loro quando tu eri sotto questo effetto c’era il rischio che tu non capissi più che io sono tua mamma e che di conseguenza potessi farmi del male.
R: E questo è mai successo?
G: No.
R: Eri però spaventata?
G: Ero spaventata, sì.
R: Tu ti sei mai sentita colpevole per la mia scelta autodistruttiva?
G: Colpevole solo di non aver saputo aiutarti. Questo però dipende molto dal fatto di non sapere diverse cose, l’origine di tutto o quello che veramente pensavi, perché quello che dicevi era tutto molto vago.
R: Mi hai mai odiato per non aver scelto, nel periodo di dipendenza, te e la nostra famiglia?
G: No.
R: In quali momenti provavi paura di me?
G: Quando eri sotto l’effetto della droga, quando avevi le allucinazioni … .
R: Cosa dicevo?
G: Guardando nel vuoto “Guarda quello lì, ci sono tanti gatti, chiudi la porta che quelle persone vogliono entrare, etc.”. “Stai qua vicino a me”, una volta mi hai presa mi hai strattonata e nell’altra mano avevi un coltello con cui volevi difendermi in qualche modo, e lì ti confesso che avevo paura. Avevo paura delle tue possibili reazioni.
R: Io mi sono mai mostrato aggressivo nei tuoi confronti?
G: No.
R: Hai mai pensato di proteggere la tua vita lasciandomi al destino che in qualche modo mi ero scelto?
G: L’ho pensato ma non ci sono mai riuscita.
R: Perché no?
G: Non lo so, perché … mi viene in mente l’ultima volta che sei andato via o forse ti ho mandato via io e quando sei tornato eri praticamente come un barbone, lì mi hai raccontato di aver dormito in una fabbrica dismessa, mi hai chiesto i soldi per mangiare perché non ne avevi ed eri molto … molto barbone, sporco, trasandato.
R: Come è successo che ho deciso di ritornare in comunità?
G: Non so come sia successo ma secondo me una delle ultime volte che ti sei fatto ti sei sentito male. Tu hai sempre avuto molta paura del male fisico e quella volta hai capito di non poter andare avanti per cui sei venuto e mi hai detto “Mamma sono arrivato alla frutta” quindi io ti ho portato subito dallo psicologo che ti aveva in cura, direttore del Sert, e gli hai detto che volevi tornare in comunità, eravamo a Luglio.
R: E’ stata quindi una scelta autonoma?
G: Sì.
R: Mi ricordo che tu avevi scritto una lettera a me, tempo fa, quando avevo mostrato punte massime di dipendenza e deragliamento in cui mi dicevi che gli anni che ormai ti sono concessi di vivere sono minori del tempo vissuto e che dovevi iniziare a valorizzare il tempo rimasto con gli affetti e le energie positive, in quella lettera mi domandavi se volevo far parte di queste persone che ti avrebbero accompagnato nei tuoi ultimi anni di vita. Secondo te può aver sortito qualche effetto, quella lettera sulle mie decisioni, mettendoci certo tempo ma lavorando dentro la mia interiorità?
G: Che abbia sortito questo effetto su di te?
R: Sì. Del resto l’ho sempre avuta appesa sopra il mobile alla testa del letto come un talismano.
G: … non so se sia stato quello il fatto che ti ha convinto a ritornare in comunità comunque era quando l’ho scritta quello che pensavo in quel momento e avevo bisogno di uno sfogo e quindi l’ho fatto scrivendo, anche perché io non è che sono una scrittrice quindi difficilmente mi viene da scrivere su carta le mie emozioni e pensieri.
R: Hai trovato però il linguaggio che più arriva a tuo figlio, la scrittura, appassionato come è di lettura e scrittura.
G: Spero.
R: Quali sono oggi le tue paure di madre?
G: Sono consapevole che questa, chiamiamola malattia – la dipendenza, è qualcosa che è sempre lì pronta, non basta prendere le medicine e finisce, quindi il mio terrore è che tu non capisca di non doverci più ricadere e renderti conto che ti ha rovinato la vita perciò, devi essere secondo me forte. A me sembra di avere una spada sopra la testa che è lì pronta e potrebbe muoversi con un colpo netto da un momento all’altro. Non accetto l’idea che tu dica che uno può ricaderci o che può ancora succedere.
R: Questi sono dati certi di professionisti che ci lavorano.
G: Certo, uno può pensarlo, però non deve attuarlo.
R: Si, la diversità dei nostri punti di vista è che tu come madre ovviamente non vuoi più che quella sofferenza riaccada ed è plausibile, io come ex tossicodipendente so che è possibile e molto probabile che ci ricada, l’unica cosa di cui posso essere convinto è di non voler fare e cedere ad un destino di tossicodipendente. Pertanto, se per qualsiasi motivo dovesse succedere, mi devo rialzare in piedi subito senza ricadere o lasciarmi dentro a un vortice di dipendenza di anni mesi o settimane. Questa è la lucidità che devo e posso avere come ex-tossicodipendente. Senza avere cioè l’arroganza di pensare che, invece, non possa risuccedere. Poi se non succede è meglio no?
G: Sì, meglio che uno faccia di tutto perché non succeda. Ma se uno parte dall’idea che possa succedere …
R: Ma non sono io a dirlo, è un dato di fatto dell’esperienza di specialisti competenti.
G: Certo.
R: Quindi io mi devo lasciare guidare, dal momento che ho chiesto aiuto, da una plausibilità dove non mi sento così migliore di tanti altri da avere la certezza assoluta che non ricadrò. Allora la mia unica certezza o speranza è che nel caso mi succeda di ricadere, nonostante io agisca tutto il mio possibile perché non succeda, è di rialzarmi e sapere che la vita da drogato e tossicodipendente non è la vita che voglio per me. Non si tratta di un pensiero debole e da paraculo ma di un pensiero razionale.
G: Ma siccome la casistica dice che può succedere ma che può anche non succedere … .
R: Infatti parliamo di lucidità ovvero sia di una forma di attenzione nel non mandare tutto a quel paese perché ricadi. Si tratta di un processo di cura che può richiedere – senza sentirsi in colpa- degli anni. No?
G: Sì.
R: Ma … ?(rido)
G: (ride) Ma seguiamo la casistica positiva.
R: Benissimo. Quali sono i punti di forza che ti fanno andare avanti come donna e come madre?
G: Dal momento che non sono più giovanissima, vorrei vivere ancora qualche anno per poter, tra virgolette, spianarti un po’ la strada.
R: Cosa dici a tutti quei figli e figlie cadute nella droga, ma che si vogliano sinceramente rialzare e a tutte quelle famiglie che si trovano nella nostra stessa condizione?
G: Dico che il figlio è sempre figlio, e questo non può cambiare in nessun modo, questo vuol dire sia nel bene che nel male.
R: Questo però lo stai dicendo ai genitori, ai figli come me che cosa dici?
Interruzione di 10 minuti per l’arrivo della domestica, l’ abbaiare molesto del cane e per la fuitina ai servizi di mia madre.
G: Pensare che la vita comunque ci riserva dei problemi e delle incognite che bisogna saperle superare e che questi problemi che puoi incontrare sulla tua strada quasi sempre sono cose positive utili per continuare la tua esistenza.
R: Quindi la vita in qualche modo educa?
G: Si. Basta saperla prendere nel modo giusto. Nel senso di lottare e di saper rendere i problemi meno tragici di quello che in realtà sono.
R: Qual è il messaggio che dai ai genitori che attraversano questa problematica?
G: Di non sentirsi in colpa per quello che sta succedendo al loro figlio perché non è una cosa così facile da capire e da gestire.
R: A papà che cosa diresti invece, se ci fosse e ti potesse sentire?
G: Gli direi, “Continuiamo assieme a vivere questi momenti, e vedrai che ce la faremo”.
Immagine di copertina: Foto di Reginaldo Cerolini e Giuseppina Battistotti, a cura di Reginaldo Cerolini.