DIALOGO DI UNA MADRE E DI UN FIGLIO SULLA DIPENDENZA (Parte I), di Reginaldo Cerolini e Giuseppina Battistotti

lo senti il mare bassa

 

PREMESSA

Ho appena finito l’intervista con mamma, al secolo Giuseppina Angela Battistotti in Cerolini. Ascolto Luigi Tenco Ballate e Canzoni nel vecchio vinile Lesaphon Vertical di papà. Sull’immagine del pc, in cui sto scrivendo, la piccola grande famiglia Cerolini, è riunita con stupore e gioia nel patio di San Giovanni in Monte (Bologna) a festeggiare la mia laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia. Siamo belli, di una bellezza umile ovvero come scrissi, nella mia prima laurea, una bellezza capace di abbracciare ciò che è altro da sé. Riesco a vedere nella foto anche una perplessità ed una domanda di senso a cui ovviamente manca la risposta ma da i volti irradia speranza.

L’intervista è passata in modo semplice, mia madre non aveva molte domande da farmi, ma nonostante questo l’incontro è durato più di un’ora con una breve interruzione della domestica brasiliana arrivata fra gli abbai di Flavio, il cane, e un’improvvisa urgenza di mamma ad andare al bagno… il che ha tolto molta solennità e serietà al finale tingendolo di una buffa tenerezza.

Perché ho fatto questa intervista? Che cosa volevo raggiungere? A cosa può servire? Sono domande che non si possono eludere. Volevo fare un dono, di testimonianza, volevo arrivare al centro del mio dolore e della sofferenza di mia madre, creare un ponte tra la dipendenza e la risposta d’amore di una madre. Lo volevo fare in forma di intervista doppia per mettermi in gioco e in discussione con profondità. Conosco solo questo modo per raccontare con sufficiente verità che cosa ha significato essere figlio abbandonato, essere figlio adottivo, essere negro, essere omosessuale, essere recidivo tossicodipendente e fare di questa straordinaria differenza un valore in grado di abbracciare il mio prossimo e la vita. L’ho fatto perché era necessario e perché mia madre, da sempre guardiana del mio spirito, potesse per una volta gettare fuori ed alleggerirsi dei debiti impliciti che l’essere madre e doppiamente madre tramite l’adozione comporta. Il valore di questo incontro restituito in dialogo è nel dono ovvero nel sapersi offrire con grazia.

 

CONTESTO

Siamo nella grande cucina di casa, con quella forma esagonale che non ho mai visto in nessun’altra casa e ci sediamo nel tavolo rettangolare in legno a sei posti, mia madre a capotavola, io sul lato lungo dove da piccolo sedevo di fianco a mio padre, lui stava alla mia sinistra. Le piastrelle chiare di girasoli gialli ed arancione si specchiano sul bianco lucido di una cucina di fine anni ‘90, che sembra appena comprata, e guardano al balcone sospeso su un giardino che esprime tra verde, un giallo sulfureo e mischiato al grigio, un’atmosfera autunnale piena di attesa. Sul muro sopra la mia testa c’è un vassoio verde rettangolare appeso, con l’immagine dipinta e suggestiva di una natura morta, nell’angolo tra me e mia madre ci sono vettovaglie di fine ottocento, traslucide invece di essere nere perché mia nonna senza sapere che il loro valore è legato al colore ed alla ruggine che le scurisce, decise con stupore di mia madre di pulirle, e sopra la testa di mamma una grande bilancia ad un piatto immobile dall’eternità. Questa è la cucina, con l’ingresso di servizio e lo sgabuzzino dove le più grandi vicende della nostra vita si sono disarticolate cariche di emozioni, eccedenze e significati. È il luogo di un culto laico e quotidiano del nostro essere famiglia, luogo aperto ad amici, famigliari e persone di passaggio. È qui, da questo ingresso – e non da quello elegante e signorile che è l’ingresso principale- che sono entrato a 7 anni arrivato dal Brasile assieme a mamma, papà, la nonna e ad affetti cari, è qui che ho festeggiato i compleanni con i compagni di classe, qui dove facevo cene con amici dell’adolescenza e stavamo fino ad ore tarde a parlare mentre nella zona notte, chiusa da una porta a vetri, mamma e papà russavano bellamente o passavano a fare un saluto o a mangiare qualcosa dal frigo con la cortesia accogliente che li ha sempre caratterizzati, è qui che ho raccontato  per anni dei mie viaggi per il mondo mentre guardavo i miei genitori aprire i regali che gli facevo (con i loro soldi sic!), è qui che abbiamo vissuto il dramma della mia dichiarazione di omosessualità, e qui che abbiamo festeggiato compleanni e scelte di vita come università e lavori, è qui che ho raccontato a mio padre commosso dei giorni a New York tornato per via della mia tossicodipendenza ed insieme abbiamo letto l’unica lettera che mi abbia scritto in tutta la vita, qui ho visto l’ultima cena di mamma me e papà quando era sfiancato da tumore al fegato e dal pancreas, e qui che con troppa sicurezza e vanità ho accolto un numero di amici e parenti, che andavano dai 18 ai 90 anni, per festeggiare il mio 36° compleanno convinto di essere finalmente uscito dalla droga, è qui che ho avuto la maggior parte dei miei deliri mistico-narcotici in cui con confusione cercavo di spiegare a mia madre il male profondo, le paure e il mio ebete servilismo alla droga arrivato a corrodermi la volontà, ed è qui che da un paio di mesi, finalmente sano (ma non vincitore, come potrei mai esserlo con un sintomo che mi porterò- come monito – appresso per tutta la vita?) ho incontrato mia cugina Daria, Olga, i cari affetti, alcuni amici e mia madre con una voglia di farcela a costruire un destino senza la dipendenza. È dunque questo il luogo giusto per un incontro che parli di me, di mia madre e di questa bestia feroce che tramite il dolore ci ha travolti e consumato negli anni, ora che ancora abbiamo voce, volontà, consapevolezza e sufficiente amore per testimoniare e andare oltre.

Mamma è calma, ha i lunghi capelli castano-biondi raccolti in un laccio di seta, un maglione nero con rombi colorati bianchi e rosa, i pantaloni lunghi, attillati su un corpo magro ed asciutto. Gli occhi brillano di una nostalgia brulicante, quasi potesse guardare al passato ed al futuro contemporaneamente mentre è solida e ferma sul presente, capace di irradiare una calma terrena che sfuma nel trascendente. Le rughe degli occhi e del volto sono come il manto di una conquistata anzianità, priva di sconti, affettazione o privilegi, una vecchiaia che non negandosi mai e divenuta pura bellezza. Gioca con l’accendino mentre con aria sorniona, tipica della sua intelligenza, attende che abbia inizio il nostro dialogo, che mi concede più per compiacermi che per necessità, tanto scabra, essenziale e calda è la sua accettazione silenziosa della vita. Il cane Flavio, che non sembra interessato, siede sul suo tappeto sul lungo corridoio in penombra. Sul tavolo il mio cellulare e quello di mia madre contemporaneamente registrano la nostra conversazione. Il portacenere greco al momento vuoto, ma in attesa della cenere delle sue sigarette è sul tavolo dove una bianca luce irradia da la cucina. L’intervista o dialogo può cominciare.

 

Reginaldo: Puoi presentarti?

Giuseppina: Mi chiamo Giuseppina Battistotti, ho 74 anni, sono la mamma di Reginaldo Cerolini.

R: Come hai saputo che io mi drogavo?

G: L’ho saputo tramite mia nipote Daria, che era stata informata da Alessandro che viveva a New York con mio figlio Reginaldo.

R: Ha così informato te e papà, e quindi come l’avete presa?

G: Male, perché nessuno dei due si aspettava una cosa così. E nessuno dei due si era accorto di niente.

R: Come è stato presentato da Daria questo problema della droga?

G: Ci ha detto che Alessandro l’aveva informata, che tu ti drogavi, che la cosa era diventata ‘importante’ e non era possibile che tu andassi avanti in quel modo e che quindi bisognava fare qualcosa.

R: Essendo io in America, come avete gestito la situazione?

G: Abbiamo chiamato immediatamente Reginaldo a New York, e di proporgli di tornare a casa. Cosa che lui ha accettato immediatamente.

R: Qual era la conoscenza tua e di papà della droga e del mondo della droga?

G: Era molto superficiale, perché era una di quelle cose che tu sai che esistono ma non pensi mai che possano succedere a te e quindi la cosa è stata ancora più scioccante.

R: Come un fulmine a ciel sereno?

G: Come due fulmini.

R: Perché, come due?

G: Perché non è stato facile da accettare e forse quello che ci ha sofferto di più era papà, ma questo anche perché non ne parlava.

R: Quindi tra di voi non parlavate mai di questa cosa, era un tabù?

G: Prima che succedesse mai, dopo sì.

R: Come ho reagito io alla vostra presa di posizione rispetto il mio malessere?

G: Mha …ha reagito come, credo, fanno tutte le persone che sono in quella situazione, dicendo che lui ce l’avrebbe fatta, di non preoccuparci che, sarebbe riuscito a venirne fuori.

R: Tu hai delle domande a questo punto?

G: No. C’era la volontà, davanti all’impossibilità di non sapere come aiutare il proprio figlio, del perché lui fosse arrivato a… tanto.

R: E non ve ne ho mai parlato?

G: Mai.

R: Prima e neanche dopo?

G: No.

R: Non ci sono stati dei momenti che spiegava sul perché stesse male?

G: No.

R: Però io ricordo che, quando stavo male, ti dicevo che era dovuto agli abusi che avevo subito in Brasile…

G: No

R: Tante volte mi sembra che ne abbiamo parlato.

G: No, non ne hai mai parlato ed era solo una cosa che avevamo capito ed era una cosa che pensavamo che fosse la causa di tutto ma senza saperlo, senza conoscerne i dettagli.

R: Io invece, prendo la dipendenza dall’inizio fino a qualche mese fa, prima di rientrare in comunità, dopo c’è stato un momento in cui ne ho parlato con te.

G: Si, ma molto superficialmente.

R: Io non sto discutere sul come, ma ho parlato delle dipendenze dovute agli abusi, del fatto che anche mia madre biologica si drogasse e che tutte queste cose venivano vissute da me come unico modo di poterle affrontare e vedere rispetto al dolore che c’era dentro. Quante volte quando stavo male, ne ho parlato… tante volte.

G: Sì, ma non come così, come stai dicendo adesso, cioè era tutta una cosa…

R: Confusa.

G: Si, confusa tanto che uno ci doveva arrivare, ma di chiaro non hai detto niente. Io ancora oggi non lo so.

R: Probabilmente la percezione che avevo io quando ero fatto e che ne parlavo quando ero un po’ in uno stato di confusione era quella di essere chiaro. Nel senso di dire che, contrariamente a quello che dicono gli specialisti e psicologi, non c’entrava con fatti legati alla nostra famiglia, … e quindi con voi che siete venuti a prendermi in Brasile. Aveva a che vedere, più con un senso di vuoto legato agli abusi che avevo subito, ad un senso di vergogna e di schifo per quelle che erano le mie tensioni interiori, le mie proiezioni, le mie difficoltà con la sessualità, ad accettare una sessualità che vedo in tanti essere molto ‘normale’ e invece in me si presenta sempre in maniera voluttuosa, in maniera caotica… e la droga era l’unico respiro che io trovavo per accettare quello che sono senza sensi di schifo, senza senso di vergogna. Salvo poi caderci in questo senso di schifo e in questo senso di vergogna. Capito?

G: Capito. Però non eri così chiaro…

R: (rido) È che io parlavo da drogato …. Passiamo alla prossima domanda. Come è cambiato il vostro essere genitori davanti a questa realtà della dipendenza da droga?

G: Non è che sia cambiato il modo di essere genitori, perché eravamo tutti e due convinti sia io che papà convinti di aver fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità, e il nostro più grande dispiacere era di non aver capito quello che tu avevi provato o provavi, di non esserci insomma accorti di ciò che ti mancava e delle tue debolezze.

R: Bhe, ti posso dire rispetto a questo che sicuramente il fatto di essere distante (vivendo a New York) permetteva o agevolava questo non sapere. Il mio uso della droga in America, era il crack che è molto forte ma che ha anche una ripresa molto facile. Con qualche ora di sonno ti riprendi ed è come se non ti fossi fatto. Sei molto normale dopo, a parte la mattina in cui ti svegli ed hai un poco di lentezza. Quindi noi sentendoci ogni tre, quattro giorni via telefono o Skype mi trovavate sempre bene e non c’era -non lo permettevo io- spazio per vedere questa disperazione nelle droghe. C’era poi, come accade spesso per chi cade nella droga, una sottovalutazione del problema in cui dall’uso saltuario o dal piacere -ammettiamolo! – si arriva quasi a non riuscire a starne senza, fino alla fase in cui manderesti tutto a fanculo pur di farti. Quindi non la vedrei come un senso di colpa ma, come a qualcosa che non è stato comunicato. Magari è stata una mancanza non riconoscere la mia fragilità e a non essere riuscito a chiedere aiuto.

G: Ma il fatto che, da quello che mi hanno detto, la tua dipendenza non è cominciata a New York ma, invece era già incominciata quando vivevi a Bologna e noi non ci siamo mai accorti di niente?

R: Io non avevo incominciato la dipendenza di droga a Bologna, ma lì avevo avuto episodi dove avevo usato delle droghe il che, non faceva di me propriamente un dipendente, anche perché ricordo che quando a ventotto anni l’avevo usata per la prima volta ho fatto intercorrere per l’utilizzo della seconda volta sei mesi. E quest’uso non faceva di me una persona dipendente ma, una persona che aveva trovato un diversivo più o meno piacevole, più o meno degradante, più o meno lenitivo di forme di dolore o portatore di sensazioni e quindi posso dire che la tossicodipendenza è nata a New York. Quando a New York ho scoperto il crack io in realtà cercavo delle sensazioni legate alla cocaina. Infatti è stato tragicamente e ironicamente buffo, io sono andato a chiedere della cocaina, che avevo provato già in Italia forse non più di tre, quattro volte e quindi anche lì non c’era una vostra responsabilità. Se facciamo l’esempio di un ragazzo che si fa una canna o che beve, se io mi sono ubriacato una sera e passano sei mesi dalla prima ubriacatura è possibile uno, che io non sia dipendente dall’alcool due, che io non lo senta ancora come un problema. Perché come fai a sapere che ho un problema con la sostanza se nell’arco di due anni l’ho fatto due o tre volte?

G: Se avessimo saputo meglio e più dettagliatamente il tuo passato, forse avremmo capito meglio la campana e forse avremmo potuto aiutarti più concretamente, cosa che non è stata possibile.

R: Mi sembra che il problema che emerge dalle nostre parole, sia la capacità di comunicare. Allora domando, da quando ero piccolo e via via crescendo parlavo o non parlavo del mio passato, e come mi comportavo rispetto alla mia esperienza di vita in orfanotrofio e con la mia famiglia d’origine?

G: Parlavi pochissimo e la prova è che quando sei andato in Brasile per conoscere le tue origini, quando sei tornato non hai detto assolutamente niente se non di aver trovato la tua mamma biologica in strada che stava male e di aver chiamato l’ambulanza, per portarla in ospedale perché non sapevi come fare per aiutarla. Hai detto qualcosa di qualche sorella o fratello che hai incontrato, ma non hai assolutamente raccontato niente di concreto, hai detto tutto molto non dettagliato.

R: quello che ti ho domandato come mi comportavo e cosa dicevo rispetto al mio passato, mentre tu hai parlato di quando sono tornato in Brasile già grande a 23 anni. Torniamo dunque a prima, voi non facevate mai domande e come vi siete comportarti nei miei confronti in relazione a quanto vi veniva detto dagli esperti e specialisti di adozioni?

G: Da quando sei venuto in Italia non sei stato trascurato, anche perché sei stato visto più volte da psicologi e tutti ci hanno detto che tu non avevi nessun problema, che eri un bambino tranquillo, che dovevamo stare sereni. Tu però non hai mai parlato della tua famiglia. Quando raccontavi qualcosa, hai sempre raccontato di fatti avvenuti all’interno dell’orfanotrofio: dei tuoi amici, del tuo amico Raffaelo, ma non sei mai andato nel concreto. Tanto è vero che quando hai espresso il desiderio di rivedere i tuoi amici dell’orfanatrofio perché ti mancavano, io e papà siamo andati apposta in Brasile per farteli vedere, ma purtroppo non hai trovato nessuno. E in quell’occasione hai espresso il desiderio di trovare tua nonna, e abbiamo acconsentito ma non sapevamo chi fosse né dove abitasse, tu allora ci dicesti che sarebbe bastato che noi ti portassimo davanti all’istituto che tu sapevi che pullman prendere per andare a trovare questa nonna, ma quando è stato il momento di farlo tu mi hai detto che non ti interessava più. Quindi non siamo neanche andati, oltre tutto non sapevamo nemmeno dell’esistenza di questa nonna, di cui tu ogni tanto parlavi, ma noi pensavamo che fosse una delle signore volontarie che frequentavano l’orfanotrofio il sabato e la domenica che ti portavano nella loro casa il sabato o la domenica.

R: Cosa sapevate del mio passato e come avete vissuto questa mancanza di riferimenti?

G: Del tuo passato non ci ha informato nessuno, né prima di partire, né in Brasile non sapevamo niente, di fratelli o parenti, niente. Qualcosa abbiamo saputo, ma molto poco, quando molti anni dopo siamo andati in Brasile e ti abbiamo chiesto se potevamo conoscere una tua sorella, di Belo Horizonte, che avevi ritrovato e con la quale parlavi.

R: Torniamo ancora un po’ indietro. Ero un bambino abbastanza su quello che era il mio passato, parlavo solo di alcuni fatti come della nonna o dei ragazzi dell’orfanotrofio, perché quelli erano gli affetti che volevo ricostituire. Come vivevate questo silenzio, di me bambino di quasi otto anni?

G: … L’avevamo accettato, nel senso che non era possibile per noi fare delle ricerche o sapere qualcosa di più, perché in Brasile come in Italia vigeva la legge che un bambino adottato non potesse ricavare fonti rispetto al suo passato: era tutto segretato.

R: Com’ero io dall’infanzia fino all’università, che tipo di figlio sono stato?

G: Eri un bambino molto affettuoso, molto obbediente… molto vivace. Non dimostravi in alcun modo di essere un bambino con problemi, anzi sembravi molto felice di vivere in Italia e di avere questa nuova famiglia.

R: Invece, crescendo l’adolescenza, la giovinezza?

G: Anche allora, da adolescente, non hai mai parlato di andare a conoscere le tue origini. Anzi, siamo stati io e papà a dirti che se un giorno avessi voluto, andare a conoscere le tue origini non ci sarebbe stato nessun problema e noi saremmo anche stati disposti ad accompagnarti. Quando, poi crescendo, hai espresso questo desiderio, ci siamo offerti di accompagnarti ma tu hai detto che eri grande, che era una cosa tua personale e da solo volevi risolverla.

R: Torniamo fra poco a questo punto. Crescendo, tra i 18 e i 21 anni, quando ero per certi aspetti grande nel gestire soldi, casa, la spesa e i corsi universitari mentre vivevo a Bologna, che tipo di persona ero? Con lo sguardo di oggi, c’erano stati i segni di una crisi o di un cambiamento?!

G: No, non vedevo nessun cambiamento. Secondo me forse lo sbaglio che abbiamo fatto è stato quello di renderti autonomo nel tuo vivere a Bologna e non chiederti mai di cercare un lavoro, per aiutare te stesso a crescere.

R: Quindi c’è stato un passaggio che è mancato. Dall’essere un figlio che gestiva i soldi del fine settimana a dover gestire da solo tanti soldi, dell’affitto e della vita, è mancata la consapevolezza sul significato di avere dei soldi e fermarsi a dare il valore che hanno.

G: Certo.

FINE DELLA PARTE PRIMA DI DUE PARTI

 

Immagine di copertina: illustrazione realizzata da Giovanni Berton.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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