… io ti perdono
perché sogni bellezza e regali a dio l’ansia di tutte le risposte
e il riposo nel tuo petto ombroso di molte costellazioni.
E so che la tua ottusa volontà di capire
sfibra l’eternità al tempo di un cuore
ritmato di piena incoscienza. E tutto quel che sai è niente che
dai a mani piene fra lacrime di dolore
ed estasi momentanee.
Io ti invoco
alla gioia dei porci gettati da rupe
al sibilo del vento fra fili d’erba in tangenziale
e sigarette schiantate. Per andare oltre.
Io ti chiedo sole
anche al rancore dei giorni fermi della stazione
dove andare avanti fra umanità e distanze è bene pieno
anche quando ti sfasci fragile d’ impotenza al determinismo civile.
E soffochi terribilmente. E gridi. E ti pauri mentre ti assottigli.
Quando la pura mancanza d’amore ancora è non saperti.
(Io ti perdono Da Dialoghi con un semidio, 2018)
TROPPE VOLTE
Io sono morto troppe volte
a questo giorno senza fine
alla bellezza mancante
alla sbavatura di un labbro
alla spiritualità illustrata della carne
ai giorni uguali nei secondi
alle attese rumorose
di una mente vuota esasperata
mentre si fa di salsedine
all’apatia di una fame commerciale
Io sono morto troppe volte
alla mia voglia di leggermi
di sapermi negli intrecci delle tempie
di volermi negli isterismi del cazzo
affamato come un lupo di tutto
anche della morte dei vivi nel segno biancastro
di un trovarsi tra ansimi e propagazioni
per invecchiarsi bene ad una qualsiasi
addomesticamento plausibile
per vedermi nel segno finale di una fine
e lì ricominciare a dubitare la morte
Io sono morto non troppo ma qui
nel verso indulgente per ritmo
di litanie improvvisate per assenza
troppa assenza di bellezza e dimestichezza
lessicale
Io posso vivere per sempre
nella tua clemenza plurale
che bagna le guance
e rende umore fra le cosce
se tu spurgato di identità e tempo
decidi di amarmi
rinunciando al famigliarismo degli amori sussurrati
e degli editti colmi di stirpe
se incautamente plurale afferrassi il mio danno
al tempo quotidiano che possediamo ove io
invertendo la sublimazione
alla mia eterna e solitaria metafisica
irradiassi finalmente
gambe polmoni cuore e testa
a vita
(troppe volte da Pagana celebrazione dell’europeità, 2019)
DIALETTICA
Da giorni il campo dell’infinito
plana alla mia piccola porta
non domanda il conto salato
della speranza ritorta o il grido
assente di gioia ma muto osserva
il fare porre credenziale al pensiero
come se tutto in quel rutto di actio
e cogere fosse contenuto il succo
antico dell’eterno che vede me uomo
risplendere di sbavature- Oh potesse
in fine essere questo in somma l’infinito-
ed ho allora pensato di sfidarlo dando
un nome al comodino sporcando
di sentimento il chilo di grasso guadagnato
col cibo e sfottendo la morte in un gioco
di carte ma esso irriducibile d’immensità
si è assiso al petto come un bruciore
senza fiamme silenzioso e sleale come
chi pretende anco fin troppa attenzione
ed è stato allora che ho smesso di capire
e tradendo umanità ho incominciato
a tossire per il suo dissenso necessario
perché l’infinito è pari e leale a chi vive
e così può darsi che una corsa intrecciati
sui prati ci faccia in fondo grandi e diseguali
(Dialettica in Dialettica, 2019)
*
Tradire la forma
è l’estensione del possibile
dire il mondo
ridurre l’impossibile
tentare la mente con caravelle
ubriache e titaniche
per derive divine o risacche geniali
è pena che l’umano
ha di sé stesso a provare
come l’ulisse
c’oltrepassando le colonne
è simile ad un qualsiasi straniero
che oggi senza lode approda
in un gommone
nel silenzio furioso di un umano
solo nella moltitudine mentre la natura
in guisa di luna e salmastra spuma
certa e riverente sa
che dialoga con un semidio
ella che ferace ed imperiosa sa
che la forma dell’eternità
si cuce intrecciando polvere con carne
sassi con viole
e tutto il resto si fotta anche!
(da Dialoghi con un semidio in Dialoghi con un semidio, 2018)
*
Voluttà che spegnevi
appena appena la mente
con fare maldestro e intermittente
che raccoglievi ansimi e sudore
come fossero le perle della carne
che fotografavi e riprendevi gli amplessi
i lampi del cuore
il chiarore degli occhi
il riflesso dei denti
sotto raggi di sole
quasi fossero capaci
di evaporarti nel volo vacuo
e blando della mente
-ovvio senza eternarti-
friggevi come le salsicce
sulla piastra
e chiamavi questa
religione con la gravità
d’un bambino impedito al cortile
da un acquazzone:
poi invecchiando sposavi la parola
ridimensionavi le rughe della pelle
nella volontà di trovare
un ordine un vertice intuibile
che fosse tutt’uno con la flessibilità
della ragione tua
però sbavavi quando parlavi
e mettevi l’odore degli anni
e gli occhi tuoi belli
erano due osceni tuorli
madidi di piogge autunnali:
e scappavi
in qualche antro di virilità
con la fugace e quasi metafisica
evacuazione
e che tu la chiamassi sesso
prostata o divagazione uretrale
importava poco
tutt’uno col corpo
con solo echi di pensiero di sottofondo
(rifare Il letto, gazzetta,
sett’emmezza pranzo, caffè da Geppo)
tu voluttà scorporavi dentro l’uomo
(da Dialoghi con un semidio in Dialoghi con un semidio, 2018)
*
Veniva il camion del rusco
all’angolo sulla via
a sollevare bidoni giganti
di spazzatura, calmo come un dio
contundente,
asserragliato nella sua massa
metallica e redentrice
Stavano, dietro, in fila
le macchine di civiltà
in soffocata quiete,
alcune per necessità
altre, per l’esatta
corrispondenza
del dolore sulle strade
(da Mattino in Dialoghi con un semidio 2018)
PAGANA CELEBRAZIONE DELL’EUROPITA’
Ma chi verrà a salvarmi?
E dove fuggirò in inverno?
Quattro mura basteranno alla mia croce oppure
Un passo qualsiasi riceverà il mio tremore!?
E chi arrenderà all’ansia delle mascelle
Divoratrice lo spessore di anni infeltriti
Dentro al maschio addome?!
… e può darsi sia tu o noi, a rendere grazie
In eco di parole scivolose, snocciolate alla tua pretesa
Di completezza del ventre nell’insanità delle strade
Traslucide di umore e mansuete
E verrai verremo per dire basta con corda su gole
Per accoltellare l’illusione di un altro istante d’orrore
Per soffocare di baci e carezze il candore
E in fine verrai verremo per il rito di un’eternità da rione
E per la pietà di noi stessi dispiegata come legionari
Al trionfo di un massacro che è vittoria e mistificazioni
Tu dirai diremo che c’era il senso in ognuna di quelle morti
Appoggiandoti ad una bandiera intrisa di sudore e sangue
Ed io e noi annuiremo al dolore evaporato dai corpi per
Renderci ragione di un passo conosciuto ed anziano
Per un momento tra ieri e domani incastonato su una vergogna
Che tu e noi non sillabiamo
Ma chi, chi dirà i nomi di chi manca al festino dei nostri inguini
E delle nostre gole, chi ti salverà ci salverà da un’omertà
Che sa appellare le cose e tacere l’orrore
Chi mi liberà, chi ti libererà, chi ci libererà dalla connivenza con l’omertà
E troverà uno spazio d’amore dove scaldarci come stracci lavati al sole!?
(Pagana celebrazione dell’europeità da Canto Pagano dell’europeità, 2019)
Immagine in evidenza: Dittico di Hassan Vahedi, tavole di ciliegio intagliate e dipinte, 67 x 27 cm., 2019