1.
Di quel che avviene o non avviene l’ombra
mi pare il fantasma meno esperto. Non
che tra i due, il doppio testimone, come
uno che abbia deciso di tendere un orecchio o bloccare il
respiro, si ricordi quel che è accaduto. Non sono
certo che quel qualcosa sia accaduto quando la neve
inusata all’ascesa continuò ancora a salire nonostante
l’ostacolo delle nubi. Salì di nuovo, dove?
ci si potrebbe chiedere.
O che faccia la neve
quando invece di scendere sale. O perché
non sorga un altro fantasma da quel che avviene
o non avviene per scivolare
laggiù nell’inverno o qua nelle parole. E perché mai
tale fantasma dovrebbe poi scivolare qua nelle parole?
2.
Nella polvere di ciò che è stato, quel che rimane appiccicato
non è la farina ma lo spessore dei giorni che né
la pioggia né l’ombra sanno decifrare – in tale
polvere sopravvive a due passi da se stesso il borgo
sotto lo strapiombo della montagna. Lontano, troppo lontano da esso
al centro di una cucina dove da tempo il grano è stato
rimpiazzato dall’acciaio e l’acciaio dal ricordo del pasto
preparato è l’unico rimedio per la perdita
dell’oblio.
Sulla parete del monte vi è una
fessura invisibile. Sulla collina di fronte, le rovine e il castello
lontano ne conoscono la storia. Sono anch’esse
rovine e fessura, sopra il cielo. E lì,
perfino sulla superficie della tua pelle. Si direbbe un lago cicatrizzato.
Si direbbe che nulla è stato ricucito dopo l’operazione.
3.
L’ombra, non quella dipinta sul muro dal vento che soffia
sulle braci, né quella che si vede sulle case
o dentro – l’ombra che dico io si sposta sempre
più lontana dall’idea che ho di ombra.
E pur senza quell’ombra e senza
tutte le altre, siano esse viventi o morte, l’idea
che ne ho s’allontana.
E l’idea si allontana anche dal
vento e dalle braci per non parlare della parete o
delle case. Così lontano che mi chiedo se
l’idea che ho delle cose serva affatto a qualcosa.
Che cosa sperate? chiedo loro. Cosa
volete davvero? Come se la domanda fosse solo per le braci
che fanno danzare le ombre. O per il vento che quando
non dipinge si arrende e riaccende il mistero.
4.
Stupiti dal giorno che non si leva più, la luna
e il sole come due vecchi ladri sotterranei
hanno riacceso la torcia e si sono messi in cammino.
Sono certo che chiunque li abbia osservati da lontano
col loro fievole chiarore ne sia rimasto impietosito.
Quel che è
certo in tutto questo è che è calata la notte. E che
una notte che cala è una cosa
che urla. E che se una cosa urla
i ladri sotterranei usano la torcia. La torcia
che fioca illumina la pancia delle cose
e fa starnutire gli elementi. O ululo
degli elementi che starnutiscono. O fuoco in fuga
dalla pancia delle cose. E voi, vecchi ladri
sapete ora a chi indirizzare le vostre sotterranee scuse.
5.
Quasi un’immagine questa oscura attrazione che fa fluire
le cose verso ciò che rifugge l’eterno.
Quanto sonno serve prima che venga cancellata
la successione delle notti. E quanto
è necessario per riportare l’ordine alla legge
delle innocenze.
Perché, vedi, il sonno è il tunnel
innocente del tempo. Ed è a colpi di piccone e
di zappa che si scava la discesa. Quando si scivola
nella sera è da tempo che la notte
aspetta le mani da lavoratore. L’oscurità
indica la strada. Il tunnel è questo. È attraverso
questo che scorrono le cose. È inutile parlare di continuità.
Quando risuonano i colpi degli utensili
né si fabbrica né mai s’addormenta quel che rifugge l’eterno.
6.
Davanti al cancello chiuso del cimitero come non
dirmi che almeno la giustizia è una quando
si viene ricoperti di terra. Stavolta i viventi
resteranno fuori. E dentro – ciò che è morto.
Visibile infine la frontiera che separa gli uni dagli altri.
Ma tale esclusione vi fa quasi desiderare
di morire.
Si offrirebbe la propria morte per oltrepassare la soglia.
Con furore si vorrebbe che un mitico traghettatore
ci scortasse all’altra riva per mostraci ciò che verrà
dimenticato. Sono certo che mi senti mentre lo chiamo. Ma il
cancello non si apre. È forse passato il tempo che con
un sì o un no si poteva entrare nel regno dei morti.
Vale a dire che ormai è impossibile il ritorno.
Vale a dire che mai più ritornerai.
7.
Talvolta in aprile come avesse dimenticato
le sue radici la terra chiude gli occhi e si rimette in cammino.
Dove vada nessuno lo sa. Che si sia spostata
nemmeno si nota. Eppure non può passare inosservato
il tremore che precede il viaggio.
Straripano i fiumi, si seccano i laghi, le chiese
vengono inghiottite.
Trema la terra prima
della partenza. Trema di paura. È così che
sparisce il nocciolo del tempo. Si direbbe quello di una
ciliegia morta e sputato in una ciotola vuota. Ma
dove va il nocciolo del tempo quando la terra lo sputa.
Rimbalza contro i campanili per dare
il segnale? E dove va la terra in aprile? Che
strada prende dopo aver sputato il nocciolo?
8
Ecco la frontiera del domani con la sua introvabile
tristezza che ritorna come un fiume senza letto verso
le nuvole. Da lassù appena prima di addormentarsi e
pensando a che dire a chi manca –
Da lassù il tratto che abbraccia è da ora una
vasta nebbia con i suoi lavoratori e le macchine
che impastano l’ombra dell’aria.
Quelli che scavano là sono
gli architetti di un universo abbandonato. Le loro mani imitano
le vanghe del destino. Gli servirebbe un candido uccello
di buon augurio che finisca il loro lavoro. Una freccia che non
ritorna dal sole ma da un sistema in cui
nessuno ha ancora messo piede. Gli serve un versante più ripido
di quello da cui continua a rotolare il masso.
E una bruma che disegni i contorni per quelli che si sono persi.
9.
Quando sulla terra non resta che l’ombra e
nel cielo il sole, e nessun corpo né case né alberi a perdita
di vista- quando tutta questa tristezza cosmica
non ha più oggetto. Quella che viveva del via vai
di cose dice allora al tempo e a chi lo gestisce
di smettere di contare.
Smettete di contare, dice
o contate a voce bassa. O andate a contare altrove.
Là dove il mistero è un filo e il corpo una donna
e la casa un parto. È da lì che bisogna
ricominciare a contare. È là che un albero
è il primo albero e un altro il secondo e il tempo
che passa facile da sommare. Perché chi vive
la sua nascita non ha bisogno dell’ombra.
E chi ha il corpo
di donna ha in mano un capo del filo del mistero.
10.
Che ti ha detto la notte mentre l’asse delle cose
si spostava impercettibilmente verso il tumulto? che
ti ha detto il fumo mentre scivolava dalla cucina
attraverso la finestra mezza aperta Tu eri, ricordati,
che davi le spalle al muro di fronte. Qualcuno ti aveva chiesto
di andartene. E ora se ne andava anche il fumo e ti
ha parlato, il fumo, e tu fai da guardia al silenzio.
Tu ora sei
il guardiano del silenzio. E sei con le spalle al muro.
E verso il tumulto si sposta impercettibilmente
l’asse delle cose. È grandiosa quella notte
ma non ha più parole. E poiché il fumo
parla e non parla che a te, e siccome tu sei
il guardiano del silenzio, chi mi dirà, amore mio, di quanti
incendi quel fumo è il portaparola?
11.
Se in fondo al lago la chiesa inghiottita
non ha tremato è perché le leggende sono vecchie
conchiglie con muri solidi. Le sue campane non
suonarono quando da sopra fu dato il segnale. Nessun
corpo di nuotatore è stato reclamato quest’estate.
Quelli che
malgrado tutto si sono avventurati al di là della fessura
sapevano resistere alle favole raccontate dall’angolo
senza fuoco. Si dice che l’acqua si sarebbe ritirata dentro se stessa
come spirale senza briglia che trapani verso la propria
sparizione. Ma che ammollo può volere un’acqua così
inghiottita se non la vendetta del bagnato? Che cercava
quel nuotatore tempo fa quando agosto dopo agosto
il sacrificio del suo corpo annegato rianimava le vecchie storie
che ormai nessuno racconta più accanto a nessun fuoco?
12.
Che rimane dell’ombra quando al suo posto
non rimane niente? Combatte contro se stessa come
un mare inesperto su cui non salpa
alcuna nave? Dove andranno a infrangersi le onde nel momento
del riposo?
O è come un Icaro l’ombra – accanto
a un sole che consuma tutta la sua energia per non cadere ma per
scrivere l’ultima pagina della felicità che nessun destino
ha promesso. Lassù in un’ascesa senza fine
e quel che cade non è che l’ombra che s’allontana
e allontanandosi si lascia dietro il mare – il mare
sul quale non salpa alcuna nave. E niente è più
al suo posto. E della felicità promessa alcuni petali
stanno già bruciando. E non vi è più alcun Icaro in cammino. Non vi è
che un migratore lassù che lotta contro se stesso.
Per gentile concessione di Jean Portante, estratti dal libro APRES LE TREMBLEMENT, scritto dopo il terremoto de L’Aquila, traduzione italiana di Pina Piccolo.
Per approfondire la figura di Jean Portante, ecco un’interessante intervista realizzato da Diana Battagia.
Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.