DARIO FO E FRANCA RAME ALLA PALAZZINA LIBERTY (Walter Valeri)

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Per capire e ricordare pienamente il valore e il significato della presenza di Dario Fo e Franca Rame nel teatro italiano ed europeo negli ultimi 50 anni non basta affidarsi alla lettura della loro opera stampata, agli archivi che pure contengono un numero sterminato di lettere, documenti, testimonianze di ogni sorta, registrazioni video e radiofoniche, manoscritti e varianti pressoché infinite delle loro commedie e monologhi. Occorre partire dalla rappresentazione teatrale. Rimettere in scena quei testi e riconsiderare la storia , la natura del luogo o dei luoghi dove lo spettacolo è nato e successivamente si è modificato in un continuo farsi e disfarsi, sera dopo sera in presenza del pubblico. Un’impresa impossibile o quasi. Il teatro non è un genere letterario. Non rispetta mai regole o convenzioni, neppure quelle drammaturgiche. Come spesso Dario Fo era solito ripetermi durante le tournée internazionali di Mistero Buffo o Storia di una tigre: “L’unica cosa sicura in teatro… è che nulla è sicuro”. “Nulla è al sicuro” gli risponderei oggi, con un filo di voce, se potessi parlargli. Per nessun altro autore o compagnia teatrale come quella di Dario Fo e Franca Rame si può vedere realizzato il teorema caro a Bernard Dort: “Ciò che importa a teatro è la relazione sala-scena. Questi due spazi, in realtà si strutturano l’un l’altro. La scena fa la sala, e la sala fa la scena”. Assieme alle centinaia di migliaia di spettatori che vi si sono seduti ovviamente. Alcuni milioni nel caso di Dario Fo e Franca Rame. Una fra le storie più straordinarie ed emblematiche, da questo punto di vista, è quella della Palazzina Liberty di Milano. Nel febbraio del 1974 di ritorno da Parigi, dopo aver recitato Mistero Buffo nella prestigiosa sala Gémier del Théâtre national de Chaillot, Dario Fo e a Franca Rame cercano una nuova sede a Milano. L’Italia e l’Europa vivono la nuova esperienza del Teatro Pubblico e del decentramento. Il successo internazionale di Fo come autore è iniziato nel 1961, con l’allestimento di Ladri, manichini e donne nude all’Arena Teatern di Stoccolma a cui fanno seguito varie produzioni in Polonia, Bulgaria e Finlandia di Chi ruba un piede è fortunato in amore. L’unanime riconoscimento dello straordinario successo delle recite parigine è riassunto nelle parole dello stesso Dort: “ Dario Fo è famoso e sconosciuto. È a un passo dal diventare leggendario. Nei cantieri del teatro militante, il suo nome ha un’autorità magica: è il solo ad essere riuscito, nel corso di dieci anni, a realizzare quello che gli italiani chiamano ‘un circuito alternativo’ senza compromessi con l’istituzione teatrale”. Ma la fama non cambia la triste natura dei fatti. Non attenua l’ostilità delle istituzioni del nostro paese nei suoi confronti. Anzi l’inasprisce. Dario Fo e Franca Rame in Italia non solo hanno già subito ogni genere di sopruso, basti pensare a una recita interrotta nell’aprile del 1970 dall’intervento di truppe speciali di parà chiamate in rinforzo dal questore. Non hanno ancora un teatro dove produrre i loro spettacoli. Non hanno neppure uno scantinato per provare. Il vecchio Collettivo ospitato nel Capannone preso a nolo in via Colletta, fondato nel 1971, dopo la separazione da Nuova Scena, si è sciolto fra roventi polemiche e tensioni di vario genere:“ Dario e io ci trovammo con quattro altri compagni, completamente soli, spogliati di tutto: camion, apparecchiature elettriche, pulmini, riflettori, comprese le nostre personali attrezzature sceniche, frutto di vent’anni di lavoro, che avevamo immesso nel collettivo uscendo dal teatro ufficiale, materiali che da soli erano il corredo bastante a due compagnie primarie”, scrive Franca Rame in una bella e utile prefazione al III volume delle Commedie edito da Einaudi (1975), aggiungendo: “resta il prodotto di questi sette anni di lavoro, i milioni di spettatori che hanno assistito alle nostre rappresentazioni, gli interventi in fabbriche occupate, nelle città dove si svolgevano processi politici con spettacoli scritti appositamente per loro”. Di certo resta a loro una vasta popolarità , un’indiscussa credibilità associata ad un talento teatrale e coraggio politico straordinario. Certo non poco, ma è tutto ciò che rimane per ricominciare da capo. Così nasce il Collettivo Teatrale La Comune, diretto da Dario Fo, alla Palazzina Liberty di Milano, con la responsabilità legale di Franca Rame. Seguono sette anni fondamentali per intendere a pieno l’efficacia e la natura del loro teatro civile. Un capitolo straordinario, irripetibile della storia del nostro paese, del nostro teatro politico europeo, in una delle sue espressioni più significative. Specie se si considera che l’inizio degli anni ’70 coincide con una fase di cambiamenti e conflitti sociali di proporzioni enormi, non ancora pienamente compresi o storicamente indagati. Sono gli anni delle stragi di stato, del rapimento, stupro fisico e morale di Franca Rame. Delle bombe usate quotidianamente dalla destra come arma politica nelle banche, nelle piazze, nelle caserme di polizia. Fatte esplodere con precisione calcolata dai fascisti e con la connivenza dei servizi segreti deviati, per terrorizzare confondere e paralizzare l’intera società. Grazie a trame, delitti e misteri ancora oggi irrisolti. Ma poi sono anche gli anni della speranza, della volontà di cambiamento, mobilitazione di milioni di persone che si esprime nel più grande movimento politico e culturale partecipato mai visto nella storia d’ Europa: “Il tempo delle bandiere rosse in piazza; chi non ricorda la copertina del Time che fotografava l’Italia a quel modo, per i lettori di tutto il mondo?”, ricorda Claudio Meldolesi in un libro molto importante dal titolo significativo Su un comico in rivolta (Bulzoni 1978). Sono gli anni dei referendum sul divorzio e l’aborto. Gli anni in cui a memoria d’uomo o di palcoscenico nessun attore, attrice, autore o compagnia ha registrato tanta partecipazione e solidarietà com’è stato per Dario Fo e Franca Rame, usando il teatro, la sua forma espressiva politica, là dove il teatro prima non esisteva. Sono gli anni in cui Giuliano Scabia con la sua “opera missionaria e proselita sempre più fuori dalle istituzioni” si pone in polemico contrasto con I Teatri stabili e inizia già nel ’72-73 “A lavorare intorno al rapporto fra teatro e informazione, progettando e realizzando un ‘teatrogiornale’ di strada e di piazza” nella città di Bologna assieme a Roberto Roversi che opera sul versante della poesia. Gli anni in cui si pensa di realizzare concretamente un discorso organizzativo autonomo, di tipo assolutamente nuovo mai visto prima. Non a caso nell’anno del suo debutto Mistero Buffo (1969), poi ripreso più volte alla Palazzina Liberty difronte ad un pubblico di spettatori ‘oceanico’, registra mezzo milione di presenze. Altrettanto per Tutta casa, letto e chiesa che vede Franca Rame autrice oltre che interprete. Uno spettacolo sulla condizione della donna che farà storia, prodotto non a caso e presentato per la prima volta alla Palazzina Liberty il 6 dicembre de 1977. Uno spettacolo che ben presto diventerà il testo più tradotto all’estero e applaudito in tutta Europa e Nord America, assieme a Morte accidentale di un anarchico (1970) e Non si paga, non si paga! (1974). “ Mistero buffo, nelle sue continue varianti, e poi Pum Pum! Chi è? La polizia, nelle tre successive versioni, sono gli spettacoli di Fo negli anni ’70, i suoi spettacoli nel senso pieno della parola, perché vi si risolve l’itinerario di Dario Fo nel teatro, in contemporaneità con il suo pubblico”, sempre citando Claudio Meldolesi. Ma i fatti che si susseguono in scena, la sinergia con la parte più avanzata e democratica della società, soprattutto i valori positivi espressi dal palcoscenico, non contano. Non serve mettersi dalla parte del mondo nuovo che emerge dagli strati più vasti della società civile. Non servono i successi delle commedie per iniziare ad imbastire un rapporto positivo con le istituzioni politiche al potere. Anzi, sono utili per giustificare e tenere viva l’attenzione persecutoria del Potere stesso. Non a caso l’avventura della Palazzina Liberty, viene immediatamente osteggiata dall’ Amministrazione pubblica della città. Benché i nomi di Dario Fo e Franca Rame siano già famosi, in alcuni casi modello per un teatro d’attore civile stimato in tutta Europa, come scrive Franco Quadri: “ Arroccandosi a Milano nella Palazzina Liberty, conquistata a dispetto delle forze più retrive della municipalità, Dario Fo e Franca Rame creano un importante precedente e la base per un lavoro stabile d’intervento, che dal quartiere può spaziare nelle molte recite d’occasione, nei palazzi dello sport o nelle fabbriche in lotta”. La Comune teatrale diretta da Dario Fo diventa immediatamente oggetto di repressione violenta. Coinvolgendo da un lato l’amministrazione di una città importante come Milano, che si vorrebbe ancora progressista , e dall’altro una forma inedita di teatro partecipato, sostenuto da vasti strati della popolazione residente. Quindi in qualche modo cartina di tornasole per un fare e concepire la cultura democratica, rispetto dei diritti civili, nel corpo dell’intero paese. L’esperimento inizia esattamente l’11 marzo 1974. Data di consegna delle chiavi d’ingresso da parte di un rappresentante dell’Amministrazione Comunale di Milano. Quando “La Comune di Dario Fo – ancora priva di una sede, ma con 30.000 soci nella sola Milano” trova un punto di riferimento stabile e operativo nella zona dell’ex-verziere. È un inizio quasi regolare. Si direbbe pacifico e legalitario. Con “la presentazione all’assessore socialista al demanio Carlo Tognoli (che diventerà poi sindaco di Milano al posto di Aldo Aniasi), di una lista di una ventina di edifici abbandonati, tutti di proprietà del Comune di Milano, e la richiesta di poterli visitare” come testimonia Chiara Valentini nella prima biografia complete Storia di Dario Fo (Feltrinelli, 1977). Nulla di più civile e corretto. La Compagnia chiedeva il semplice usufrutto temporaneo di un bene comune, per svolgervi un’attività teatrale e culturale di interesse pubblico, in cambio di un affitto. “Alla fine la scelta di Dario Fo e di Franca Rame era caduta su una palazzina tutta fregi e stucchi al centro di un piccolo giardino pubblico, nel cuore del popolare quartiere di Porta Vittoria, che da tempo era lasciata nel più assoluto abbandono, semidiroccata e invasa dai topi”. Tutto sembra risolversi pacificamente, dato che l’Assessore Tognoli consegna euforicamente le chiavi dell’edificio, perché se ne verifichi l’agibilità e fattivo insediamento, in attesa di una delibera ufficiale di Giunta; che tutti suppongono ovvia e scontata, a partire dallo stesso Assessore. Ma non è così, purtroppo. Con le prime attività di bonifica, smaltimento delle macerie, allacciamento dell’energia elettrica e deratizzazione dell’edificio – ridotto ai minimi termini, anche per gli interventi di sabotaggio di un noto speculatore edile della zona- all’interno del Consiglio Comunale inizia una vera e propria battaglia politica. Una bagarre senza precedenti, promossa in prima istanza dal consigliere democristiano Massimo De Carolis. Un uomo politico che con orgoglio, dopo lo scioglimento della DC, passerà come tanti altri del suo schieramento politico assieme ai maggiorenti di Comunione e Liberazione, nell’inedito ma verosimile schieramento politico di Forza Italia, fondato nell’arco di pochi mesi da Silvio Berlusconi, grande elettore, collaboratore, portaborse e finanziatore di Bettino Craxi. Massimo De Carolis, acerrimo nemico della Palazzina Liberty, non a caso viene definito dalla stampa dell’epoca: ‘uomo dal sorriso carnivoro’, poi “condannato dalla quarta sezione penale del tribunale di Milano a due anni e dieci mesi di reclusione, per la vicenda dell’appalto del depuratore Milano Sud. Accusato di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio.” Il Consiglio Comunale, che a questo punto rischia una frattura insanabile, non ratifica le intenzioni ufficiose e l’impegno dell’Assessore Tognoli che aveva concesso l’usufrutto della Palazzina Liberty a Dario Fo. Anzi l’osteggia apertamente. Nasce così il caso della Palazzina Liberty. Si entra in una sorta di giostra surreale e pozzo di San Patrizio legale senza precedenti, almeno in ambito teatrale; un limbo politico-amministrativo feroce che si oppone in tutti i modi alla nascita di un palcoscenico indipendente, autogestito e voluto dalla maggior parte dei residenti. “ Fo è un nemico del regime e un rivoluzionario da operetta, che prima sputa in faccia a tutti e poi vuole che gli facciamo il suo teatro stabile”. Cosa palesemente non vera, ma che importa? dato che così si esprimono all’unisono due assessori democristiani: Bossi e Crespi, nel corso di un incontro con la stampa. Anche se gran parte degli abitanti, la sezione del PSI all’unanimità, il Consiglio di Zona del quartiere in cui sorge la Palazzina Liberty appoggiano a spada tratta la concessione in usufrutto dell’edificio a Dario Fo e Franca Rame. Il braccio di ferro ha inizio. Ma, per fortuna, non è possibile procedere allo sgombero immediato da parte dei vigili e delle forze dell’ordine, a causa dell’enorme sostegno popolare. Si parla di migliaia di uomini, donne e bambini, che frequentano i corsi di teatro o attività sociali. Decine di associazioni, centinaia di intellettuali progressisti da ogni parte d’Italia appoggiano e si schierano a favore di quella che viene ingiustamente definita dagli amministratori pubblici della città di Milano ‘occupazione abusiva’. “Anche la magistratura d’altra parte aveva assunto un atteggiamento interlocutorio. L’intimazione di sgombero emessa il 26 giugno, 1974 dal pretore Leuci, viene sospesa dal presidente dell’VII sezione del tribunale civile Vincenzo Salafia, che l’anno dopo, nel 1975, emette una sentenza in cui riconosce a Fo il diritto di restare nella Palazzina: una specie di riconoscimento indiretto che l’attore non si era impossessato arbitrariamente dell’edificio”. Chiaramente abusiva era la decisione di quella Giunta. Una decisione singolare giuridicamente oltre che politicamente arbitraria. Ma, a quel punto, nonostante la disputa burocratico-amministrativa accanita, dai toni sempre più violenti, pretestuosa e repressiva, dopo l’allestimento di uno spettacolo non del tutto riuscito dal titolo Porta e Belli contro il potere, finalmente il palcoscenico prende la sua vela e la parola. Va in scena e debutta la nuova commedia di Fo dal titolo “Non si paga, non si paga.” È il 3 ottobre del 1974. Il successo è immediato. E’ una fra le più belle farse politiche di Dario Fo, forse del XX secolo, assieme a Morte accidentale di un Anarchico. Godibilissima e tagliente, costruita sui tipici meccanismi comici già sperimentati dall’autore con grande successo in decine di opere precedenti. Con un finale insolitamente mite e poetico, dai toni lirici e utopici struggenti. Ripresi dal finale di Il cieco e lo storpio, un brano fra i più belli di Mistero Buffo, tratto da un originale di Jean De La Vigne, recitato alla Palazzina Liberty da un Coro che si auspica un mondo diverso. Un mondo dove “Ci si può anche accorgere che c’è il cielo…che le piante fanno fiori…che c’è perfino la primavera…che le ragazze ridono e cantano. E che quando uno nasce…non nasce soltanto una forza lavoro in più…no, nasce un uomo e una donna, un uomo, una donna che vivranno contenti e liberi con altri uomini liberi!”, poi sostituito da un finale più epico e brechtiano. Sin dalla prima recita una fila mai vista di persone e abitanti del quartiere si accalca per assistere allo spettacolo. Una commedia da ridere che finalmente parla dei loro problemi reali, della difficoltà di fare la spesa al supermercato, del ritardo delle organizzazioni politiche della sinistra tradizionale rispetto ai tempi; in una società che dopo il breve boom consumistico è già in piena crisi e recessione economica. La tessera e l’acquisto del biglietto d’ingresso sono tutt’uno e a prezzi più che popolari. La tessera ha la funzione di qualificare permanentemente il contatto con gli spettatori, oltre ad eludere la censura grazie allo stratagemma associativo. Ma l’ingiunzione di sfratto da parte della Giunta Comunale rimane. Il trionfo non conta. Si consuma sino in fondo quello che non è difficile definire un atto palesemente reazionario, antidemocratico e di ingiustizia culturale oltre che politica. Di violenza e censura di portata nazionale ed internazionale. Dato che, tra le altre cose, sin da subito alla Palazzina Liberty si erano susseguite ospitalità di compagnie di chiara fama importanti per la realizzazione di un concetto nuovo di scambi culturali internazionali, con autentica partecipazione dal basso alla vita civile. In pochi anni alla Palazzina Liberty vengono prodotti spettacoli straordinari come “Non si paga, non si paga!”, “Tutta casa letto e chiesa”, “Il Fanfani rapito”, “La marijuana della mamma è la più bella” ed è un punto di riferimento costante per un fitto dialogo e dibattito, come risulta dall’elenco dei partecipanti ai tre giorni del primo convegno sulla cultura organizzati il 13, 14, 15 giugno 1974: “ Nel complesso al convegno sono presenti ‘produttori culturali’ attivi oggi in Italia, nell’intero arco di schieramento che va dai progressisti a coloro che si pongono su un terreno rivoluzionario ‘al di fuori o dentro le maglie del sistema’. Gli stessi caratteri presenta la partecipazione dei ‘produttori culturali stranieri”. Dai Cahiers du Cinéma a Liberation, da il manifesto a Re nudo, dal Gruppo della Maddalena a Lotta Femminista, assieme a scrittori, intellettuali e registi quali Cesare Zavattini, Umberto Eco, Bernad Dort, Jori Evans, Giorgio Gaber, Marco Bellocchio, Corrado Augias, Guido Crepax, Elvio Facchinelli, Giorgio Bocca, Martin Karmitz, Sebastian Matta, Bernardo Bertolucci, José Guinot, Mario Monicelli, Pio Baldelli, Giuseppe Bertolucci” e tantissimi, per realizzare un “aperto confronto di esperienze di ‘produttori culturali, dall’autore al regista, dal pittore all’architetto. Dal musicista al cantante, allo scrittore, ecc.” Il tutto a pochi giorni dalla bomba fascista di Piazza della Loggia di Brescia, dove si risponde col terrorismo alle manifestazioni culturali e politiche che stanno realmente cambiando la struttura del paese. Il Collettivo la Comune diretto da Dario Fo lascia immediatamente e al completo Milano e si reca a Brescia, dove interviene ed è presente con lo spettacolo Brescia, 21 giugno ’74, recitato di fronte a migliaia di manifestanti antifascisti. Oggi è certo difficile, ma non impossibile immaginare, rintracciare e intendere a pieno l’intensa complessità della vita teatrale che si è realizzata e sperimentata alla Palazzina Liberty di Milano, del teatro politico di Dario Fo e Franca Rame di quegli anni. “Abbiamo sempre detto che i nostri documenti migliori sono gli spettacoli”, ripeteva ed ha ripetuto instancabilmente Dario Fo sino alla fine. Sino al giorno del suo addio. E aveva ed ha perfettamente ragione. Ma qualcosa rimane, deve pur rimanere oltre l’incandescenza della recita, per fortuna. Ed è quello che chiamiamo, o ad anni di distanza mi piace chiamare visibilità della storia; sua controversa e belligerante resurrezione. Nulla scompare per sempre come ricorda in un suo splendido verso il poeta siriano Adonis. Compresi gli occultamenti o le dimenticanze imperdonabili degli addetti ai lavori, dei chierici oggi smemorati per un triste tornaconto o carriere accademiche. “ È difficile parlare di Fo, perché il suo teatro è una realtà sempre in movimento, trasparente rispetto alla scena reale del paese, ricevendo dal dibattito e dallo scontro politico via via emergenti una continua contaminazione e stimoli incessanti a mutare collocazioni e alleanze” ha dovuto alla fine ammettere lo stesso Paolo Puppa. Un intellettuale che in quegli anni era fra i più accaniti e sofisticati detrattori del teatro di Dario Fo e Franca Rame. Come altri allibito, certo frastornato dal loro successo e seguito nel paese reale. Effettivamente: “Non esiste spettacolo che non si trovi inesorabilmente di fronte al problema della propria validità politica. Al dogma della rigorosa separazione di arte e politica sembra essersi sostituito il principio della loro connessione necessaria. Il rapporto del teatro con la politica diventa il punto di riferimento su cui si orienta l’intera problematica del tempo” , come scrive Claudio Vicentini in La teoria del Teatro Politico, edito da Sansoni (1981); senza però mai menzionare, neppure nell’ Indice dei nomi, quello di Dario Fo e Franca Rame o i sette anni alla Palazzina Liberty di Milano. E anche questo crudele silenzio rimane, nella lista delle verità mancate. Verità di cui le future generazioni si dovranno far carico. Dario Fo e Franca Rame restituiranno ufficialmente le chiavi della Palazzina Liberty al Comune di Milano a sette anni di distanza. Dopo il debutto della nuova commedia Clacson Trombette Pernacchi (14 gennaio,1981). Una farsa in due tempi in cui il protagonista Antonio, recitato da Dario Fo, in qualità di operaio della FIAT, messo in cassa integrazione per il crollo del mercato dell’auto e derivati, presta involontariamente la faccia a Gianni Agnelli. Il padrone per antonomasia, sfigurato nel corso di un rapimento fallito a cura di un gruppo di terroristi non bene indentificati. In poco più di un mese lo spettacolo nella sola Milano viene accolto da 50.000 spettatori. Una situazione davvero insostenibile per il Comune e la sua amministrazione che con rancore finalmente rimette le mani sulle chiavi di quell’edificio storico, perché avesse inizio un nuovo genere di repressione e dissipazione.

 

Inedito, per gentile concessione dell’autore LogoCC, in uscita nella rivista “Teatri della diversità”, dicembre 2016

 

 

Foto in evidenza per gentile concessione dell’Archivio Fo Rame.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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