CAROLINA MARIA DE JESUS, LA RACCOGLITRICE DELLE FAVELAS
1ͣ Parte
di Anna Fresu
Nel 1960, quando in Brasile si festeggiava il centenario del Modernismo, veniva pubblicato Quarto de despejo. Diario de uma favelada (Ripostiglio. Diario di un’abitante delle favelas) di Carolina Maria de Jesus (1914-1977). Il libro racconta una vita di miseria, la lotta costante per la sopravvivenza e la ricerca ardente di un’identità nel mondo. Per la prima volta veniva data una testimonianza in prima persona di che cos’era la vita di una donna brasiliana di origine africana che viveva in una favela.
C. de Jesus racconta la sua vita e quella di chi come lei vive ai margini della società, in quel ghetto di miseria rappresentato dalle favelas che chi vive al di fuori non conosce e non può raccontare. Come non poteva raccontarlo allora la maggior parte dei suoi abitanti, incapace per lo più di leggere e scrivere. Carolina ha frequentato per due anni la scuola elementare, ha frequentato le biblioteche, si è appassionata per la lettura e quindi possiede qualche strumento e soprattutto la voglia di raccontare il suo mondo. Mondo di miseria in cui riesce a sopravvivere raccogliendo e rivendendo carta, giornali, fogli di cui ne conserva alcuni per scrivere, riviste e libri usati che a volte porta a casa e legge, trasformandoli in pane per i suoi tre figli e in alimento per la sua voglia di migliorarsi e di conoscere.
“Il libro… mi affascina. Sono stata allevata nel mondo. Senza la guida di una madre. Ma i libri hanno giudato i miei pensieri. Evitando gli abissi che incontriamo nella vita. Siano benedette le ore che ho passato leggendo. Sono giunta alla conclusione che è il povero che deve leggere. Perchè il libro è la bussola che deve orientare l’uomo nel futuro (…) – Carolina de Jesus, in “Meu estranho diário (Il mio strano diario)” San Paolo: Xamã, 1996, p. 167.
Fu scoperta per caso da un giornalista, Audálio Dantalas che la conobbe mentre preparava un articolo sulla favela Canindé alla periferia di San Paolo nel 1958 (la foto accanto ne testimonia l’incontro). Carolina ebbe modo di mostrarle i suoi 35 Quaderni di Appunti che il giornalista lesse e sui quali scrisse un articolo. Nel 1959 ne pubblicò dei brani nella rivista O Cruzeiro e favorì la pubblicazione di Quarto de Despejo: Diário de uma Favelada.
Il diario ci permette di entrare in un quotidiano che non vede nessuna evoluzione. Non è una storia con un principio, un mezzo e una fine, bensì il ripetersi quotidiano delle stesse cose: la fame, il lavoro, la miseria, l’ostilità. A volte appare un barlume di speranza che viene subito spento dalle difficoltà di una vita in cui a volte anche il suicidio per sé e e per i propri figli è visto come una via d’uscita. La fame è la vera protagonista delle pagine di Carolina de Jesus:
“Lo stordimento della fame è peggio di quello dell’alcool. Lo stordimento dell’alcool ci spinge a cantare. Ma quello della fame ci fa tremare. Capii che era orribile avere solo aria dentro lo stomaco” . – Carolina Maria de Jesus, in “Quarto de despejo“, 1960.
Raccontando col suo sguardo profondo e cosciente, con un linguaggio non “colto” ma poetico la propria realtà, la realtà delle favelas, Carolina de Jesus finisce per denunciare la realtà del Brasile e quella modernizzazione che il paese inseguiva ormai da molti anni e che, certo, non favoriva i poveri.
L’autrice ha piena coscienza del suo posto nella società, della sua condizione di emarginata e mostra le profonde disuguaglianze del mondo in cui vive: la grande città di San Paolo, con i suoi ricchi e potenti, le costruzioni imponenti che contrastano con le baracche di tavole e cartone e i diseredati delle favelas. Racconta le promesse vuote dei politici che mettono piede nelle favelas solo per angariare voti in vista delle elezioni.
Le ripetizioni, le frasi fatte a cui l’autrice ricorre, esprimono la chiusura e l’immobilità del mondo sociale che rappresenta. Sul diario Carolina registra l’ora in cui si sveglia, le spese che dovrà sostenere per dar da mangiare e vestire i suoi figli, quanti soldi riuscirà o no a mettere da parte. A tratti appaiono momenti di lirismo nella descrizione della natura che si presenta come contrapposizione alla miseria in cui i poveri sono confinati:
“Contemplavo estasiata il cielo indaco. È così che ho capito che adoro il mio Brasile. Il mio sguardo si posò sugli alberi che esistono all’inizio di via Pedro Vicente. Le foglie si muovevano. Pensai: stanno applaudendo questo mio gesto d’amore alla mia Patria. […] Mi intenerii e andai a cercare altra carta. Vera sorrideva. E io pensai a Casimiro Abreu che disse: “Ridi, bambino. La vita è bella”. Solo se la vita era buona a quel tempo. Perché ora il tempo è giusto per dire: “Piangi, bambino. La vita è amara”.”
– Carolina Maria de Jesus, in “Quarto de despejo”. San Paolo: Francisco Alves, 1960, p. 53.
“Quarto de despejo” va oltre la semplice testimonianza; è un’opera che, a dispetto delle condizioni materiali e culturali dell’autrice, costruisce una forte e unica rappresentazione della dinamiche sociali della città vista con gli occhi di chi ne vive ai margini. Carolina de Jesus scrive per denunciare i mali della favela ma anche per uscirne fuori; scrive perché non ne accetta, a differenza degli altri abitanti, i limiti e le restrizioni, per lottare contro di essi e questo costituisce un’innovazione per São Paulo e per il Brasile.
Scrive Audálio Dantas, in “Nossa irmã Carolina. Apresentação do livro “Quarto de despejo“, São Paulo: Francisco Alves, 1960:
“Sono andato a vedere il libro. E per la prima volta sono entrato nella baracca numero 9 della Rua A, della favela di Canindé. E ho visto i quaderni nella credenza scura di fumo. Racconto diario della vita di Carolina e della vita della comunità della favela. Una cosa ben raccontata, così come appare adesso, senza niente mettere o togliere. Ho visto, ho sentito. Nessun altro al posto dell’africana Carolina avrebbe potuto scrivere storie più africane. Nemmeno lo scrittore capace di trasfigurare la realtà avrebbe potuto strappare tanta bellezza da tutta quella miseria. Né un reporter accurato avrebbe potuto ritrarre tutto quello con la sua scrittura asciutta. Per questo a Carolina Maria de Jesus ho detto così, proprio lì, mentre mi leggeva brani del suo diario: – Ti prometto che tutto quello che hai scritto uscirà in un libro”
Il quarto de despejo, il ripostiglio, è la metafora della favela come luogo in cui la società ripone ciò che non vuole mostrare nel salotto in cui si ricevono le visite. E molti sono i “quartos de despejo” in Brasile “al sud, al nord, all’est e all’ovest, sulle rive dei fiumi o sulle rive del mare, in collina o in pianura”
E come scrive Carolina de Jesus:
“(…) nel 1948, quando cominciarono a demolire le case per costruire gli edifici, noi, i poveri che vivevamo nelle abitazioni collettive, fummo cacciati ed andammo a vivere sotto i ponti. Ed è per questo che io chiamo la favela il ripostiglio di una città. Noi, i poveri, siamo la roba vecchia (…)” – Carolina Maria de Jesus, in “Quarto de despejo. Diário de uma favelada“
“… Io classifico San Paolo così: Il Palazzo, è il salotto buono. La Prefettura è la sala da pranzo e la città è il giardino. E la favela è il cortile dove si butta la spazzatura.” (JESUS, 1960, p. 33)
“… alle otto e mezza di sera stavo già nella favela respirando l’odore degli escrementi mischiati col fango marcio. Quando sto in città ho l’impressione di stare nel salotto con i suoi cristalli brillanti, i suoi tappeti di velluto, i cuscini di raso. E quando sto nella favela ho l’impressione che sono un oggetto fuori uso, degno di stare in un ripostiglio.” (JESUS, 1960, p. 37) “
“Ho visto i poveri uscire piangendo. E le lacrime del povero commuovono i poeti. Non commuovono i poeti dei salotti. Ma i poeti della spazzatura, gli idealisti delle favelas, uno spettatore che assiste e osserva le tragedie che i politici rappresentano rispetto al popolo”
Carolina si appropria e riversa i discorsi estranei al suo ambiente con un linguaggio prettamente orale. Utilizzando però anche il linguaggio dominante per manifestare la sua necessità di integrazione socio-linguistica, Carolina lotta anche per acquistare un potere sociale, perché, come dice Foucault, “il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, bensì quello per cui si lotta, il potere di cui vogliamo impossessarci”. Riferendosi ai poeti da salotto, l’autrice richiama a sé il diritto alla parola in quanto unica voce autentica, per diritto di conoscenza e di vissuto, che possa esprimere la realtà della favela e dei suoi abitanti.
“È a loro che parlo: grande è la sorella che ha aperto la porta. Lei è un po’ di tutti voi e un poco-molto del Brasile, perché molti sono i ripostigli (…)
Vedete il sole che entra ora nel ripostiglio. Scaldatevi, fratelli, la porta è aperta. Carolina Maria de Jesus ha trovato la chiave. Scaldatevi”, – Audálio Dantas, nella prefazione Del libro “Quarto de despejo: diário de uma favelada” de Carolina de Jesus. San Paolo: Livraria Francisco Alves, 1960.
La critica letteraria Andréa Raffaella Fernandez descrive la poetica di Carolina Maria de Jesus come una “poetica degli scarti” (poética de residuos), attraverso la quale l’autrice ricicla il linguaggio e se stessa, mischiando, come afferma la storica Elena Peres, discorsi e generi letterari e non letterari, testi romantici e testi giornalistici, parole dei samba, drammi radiofonici, proverbi e espressioni angolane, linguaggio colto e oralità.
Carolina è povera, emarginata per questo, ma lo è anche in quanto nera, donna e madre nubile. Resta ai margini della società ma anche della possibilità di riconoscimento all’interno del mondo della cultura; come avviene per tutte le scrittrici come lei, povere, donne e di origine africana che emergono a tratti, per curiosità folclorica e sono oggetto di ricerca presso alcune università – spesso fuori dal Brasile – ma che con difficoltà e raramente occupano lo spazio che meritano. In quel Brasile che ha abolito la schiavitù da più di settant’anni ma che continua a trattare la popolazione di colore come un oggetto e a spingerla fuori dalla città, dall’intera società. Lo stesso avviene con le donne, esaltate per la loro bellezza, le loro forme, la loro sensualità –nelle canzoni e in molta letteratura – ma rese anche loro oggetti ad uso e consumo di una società ancora fortemente maschilista.
Carolina de Jesus non si limita a denunciare i contrasti fra il suo mondo, personale e sociale, e il resto della società ma racconta anche con spirito critico il mondo all’interno del quale lei vive, quella favela in cui esistono la violenza e lo sfruttamento, ben diversi dall’immagine illusoria di una solidarietà fra poveri o dalla possibilità di creare comunità e unirsi in una lotta comune contro la società capitalista.
Anche per tutto questo Carolina sogna di uscire dal ghetto della favela, uscire dal ripostiglio, cessare di identificarsi con le cose inutili e sporche che lì si gettano e comprare una casa in muratura per sé e i suoi figli.
Grazie al successo del suo libro e ai soldi guadagnati, nel 1964 va a vivere in un quartiere della classe media-bassa, in una casa in muratura che diverrà il titolo del suo secondo libro Casa de Alvenaria. Diário de uma ex-favelada (1961) (Casa in muratura. Diario di un’ex abitante delle favelas). Seguiranno Pedaços da Fome (Pezzi della fame) (1963) e Provérbios ( Proverbi) (1963). I suoi nuovi lavori lavoro non incontreranno però lo stesso favore del primo e il diario – formula che l’autrice conserva nel suo secondo libro – di una ex-favelada che aspira al riconoscimento sociale e letterario non costituisce più una novità, perde il lato “folclorico”. E va anche ricordato che la dittatura militare (1964-1985) era ormai alle porte.
I continui disaccordi con i suoi editori, così come le difficoltà di adattamento in quel nuovo quartiere in cui sia lei che i suoi figli saranno oggetto di discriminazione per il colore della loro pelle e per la loro origine di miseria, la spingono nel 1969 a trasferirsi in un quartiere più umile dove sopravviverà piantando verdura, allevando galline, vendendo per strada ciò che produce, raccogliendo e vendendo ferrovecchio. Carolina de Jesus sarà fino alla sua morte completamente dimenticata dal mercato editoriale e dal pubblico ma non smetterà mai di scrivere, senza più illusioni ma per mantenere intatta la propria identità.
Dopo la sua morte nel 1986 viene pubblicato dall’editore francese A. M. Métailié, Diário de Bitita, che racconta la storia di una ragazza di origine africana all’interno di una società patriarcale, condizionata da un mondo sessista e convinta della supposta superiorità del maschio. Sono le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autrice, a Sacramento, dove lavora come contadina nelle fattorie, e dei suoi primi anni a Franca. Denuncia i pregiudizi contro i discendenti di africani, le ingiustizie sociali, l’oppressione e l’abuso dei potenti sui poveri nelle prime cinque decadi del XX° secolo in Brasile:
“Se il figlio del padrone picchiava il figlio della cuoca, questa non poteva protestare per non perdere il lavoro. Ma se la cuoca aveva una figlia, povera negretta! Il figlio della padrona l’avrebbe usata per la sua iniziazione sessuale. Bambine che pensavano ancora alle bambole venivaro brutalizzate dai figli del signor Pereira, Moreira, Oliveira e altre porcherie venute dall’oltremare. Alla fine dei nove mesi la negretta era madre di un mulatto. E la gente cercava di attribuirne la paternità: -Dev’essere figlio di Tizio! Dev’essere figlio di Caio! -Ma la madre, negra, inconsapevole e senza cultura, non poteva rivelare che il figlio era figlio del dottor X o Y. Perché la madre poteva perdere il lavoro. Quante ragazze-madri si suicidavano, altre morivano di tisi dal tanto piangere (…)!”
Nel 1996 José Carlos Sebe Bom Meihy pubblica per l’Editora UFRJ Antologia Pessoal in cui sono presenti cinque poesie di Carolina Maria de Jesus, espressione dei suoi sentimenti, delle sue carenze affettive, della sua fede, dell’ amore per il suo paese e per i diseredati e di denuncia e disprezzo per la società che li emargina.
La 2ͣ Parte dell’articolo sarà dedicata alla poesia di Carolina Maria de Jesus con i testi originali e la traduzione a cura di Anna Fresu di alcune sue liriche.