da Sagarana n. 51 “Scoprendo il ventre del continente”, di Julio Monteiro Martins

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Sagarana SCOPRENDO IL VENTRE DEL CONTINENTE

Riflessioni sulla ricezione delle opere di Machado de Assis e Guimarães Rosa in Italia

Julio Monteiro Martins

SCOPRENDO IL VENTRE DEL CONTINENTE

 

Da più di mezzo secolo a questa parte gli eredi di Dante e di Virgilio stanno rimodulando lo sguardo per recepire, sentire e comprendere meglio il linguaggio e l’atmosfera rivoluzionaria che vengono dai tropici, con le loro sorprendenti forme di dramma e di tragedia.
Anzitutto dobbiamo ricordare che, al contrario di quello che è successo in altri Paesi europei, dove gli autori brasiliani fino a pochi anni fa, e in alcuni casi ancora oggi, erano visti esclusivamente all’interno di un contesto “latino-americano”, in Italia già dagli anni ’50 del secolo scorso, la narrativa e la poesia di quel continente potevano avvalersi della distinzione fra letteratura ispano-americana e letteratura brasiliana, un’origine giusta, che ha favorito l’affermazione della nostra specificità, e che è stata possibile non soltanto grazie alla generosa lungimiranza della critica letteraria italiana, ma anche perché i canali commerciali che allora hanno favorito gli autori del cosiddetto “boom latino-americano” non contemplavano, per ragioni editoriali e di mercato, gli autori brasiliani. Così noi qui abbiamo potuto godere, fin dai primi tempi, di una sorta di privilegio di identificazione, che si è consolidato in una nicchia culturale tutt’oggi prevalente, con vantaggi e svantaggi, ossia da un lato l’integrità, dall’altro gli stereotipi ed il sentimento elitario, che accompagnano da sempre nicchie di questo tipo.
Se da una parte il “realismo magico” ispano-americano, con i suoi miracoli e le sue inverosimiglianze, la sua intimità col grottesco e col sublime, richiamava e riconosceva il senso di “meraviglioso” presente in alcuni autori europei del Medioevo come Rabelais e Boccaccio, influenzando molto i nuovi autori europei che lo hanno scoperto, come Italo Calvino e Dino Buzzati, dall’altra parte gli autori brasiliani in quello stesso periodo conquistavano l’attenzione dei critici, di scrittori come Giuseppe Ungaretti e Claudio Magris e dei lettori più raffinati, interessati ad associare la fantasia sbrigliata degli ispanici ad una conoscenza più profonda di quel nuovo mondo, che nascondeva il ventre del continente, con le foreste infinite di un Impero lontano, con fanciulle dallo sguardo obliquo e la sfida frontale del cangaceiro , i calici di cristallo con l’assenzio e le epidemie di malaria, il positivismo evoluzionista di Spencer e la mula-senza-testa.
In un breve saggio chiamato “Il limbo visto da vicino”, pubblicato in Italia negli anni ’90, io dicevo che, per il lettore italiano, noi scrittori brasiliani eravamo ancora “i cronisti del limbo”, i narratori di un territorio senza definizione, ancora non concettualizzato adeguatamente. Un “miraggio alla rovescia” che avrebbe la facoltà di “liberare l’immaginario europeo”. Lì riflettevo sul modo in cui la condizione umana è messa alla prova in opere come “Morte e vida Severina”, “Maira”, “Vidas secas” o “Quarup”, rappresentando agli europei degli anni ’60 uno stato critico impari, inedito nella drammaticità dei suoi stalli, delle sue scelte e delle sue decisioni, ma anche, nello stesso periodo, la scoperta dell’elaborazione concettuale avanguardista dei Modernisti, dai teorici agli artisti, figli del Futurismo italiano ed in seguito padri del Movimento Antropofagico di Mario e Oswald de Andrade, nel quale gli europei riconoscono come un’avanguardia particolare nel panorama delle Americhe, un’esplosione di idee e di energia creativa che rompeva la frontiera fra l’estetica e la filosofia e che per la prima volta coinvolgeva proprio gli europei come co-protagonisti, anche se passivi e “divorati”, di un’avanguardia artistica nel sud del mondo.
Il Brasile cominciava allora ad assumere, nell’immaginario italiano ed europeo, quell’aspetto di sintesi fra problemi nuovi e soluzioni nuove e non raramente grandiose che lo avrebbe caratterizzato negli anni successivi fino ai giorni nostri: un regno problematico ricco di eventi miracolosi. Questa visione é stata confermata dai libri di successo più recente nella penisola, come “Zero” di Loyola Brandão, pubblicato qui in traduzione ancora prima della prima edizione nel Brasile dei generali, o “Lavoura arcaica” di Raduan Nassar, le opere di João Ubaldo Ribeiro, di Lygia Fagundes Telles, di Clarice Lispector e di Caio Fernando Abreu, in sintonia con una sensibilità in voga in Occidente. Come ha messo in evidenza la professoressa Stegagno Picchio in “Storia della letteratura brasiliana”, lo sguardo degli italiani in relazione al Brasile è diventato nelle ultime decadi allo stesso tempo più complesso, più problematico e più disincantato, in un certo senso più vicino alla realtà europea, riconoscendo in esso gli elementi urbani e moderni che prima erano meno presenti. Uno sguardo in continua trasformazione, da più distante a più o meno riconoscibile, da esotico a universale. Si tratta, in qualche modo, di un universo letterario stupefacente, dove l’uomo è rappresentato nella parte peggiore ed in quella migliore di se stesso, privo di veli estetizzanti e totalmente esposto in una letteratura spaventosa, enigmatica, terribile e sublime come la vita.
Guimarães Rosa diceva “Vivere è molto pericoloso…Perché imparare a vivere è il vivere stesso…” e questo potrebbe ben essere il messaggio centrale percepito dal lettore italiano nel suo primo contatto con la narrativa brasiliana. “Pericoloso” come l’altra faccia del rischio, il suo premio possibile, la dimensione dello straordinario. Questa dimensione brasiliana è diventata per gli europei una specie di “parete invisibile” aperta verso uno spazio insperato, ampio e rarefatto, capace di ripulire l’immaginario europeo dai cliché accumulati negli anni, che lo asfissiavano.
La presenza in Italia dell’opera di Rosa, che Claudio Magris ha definito “un’epopea della vita e della parola”, la dobbiamo ai suoi traduttori: il “patriarca” Edoardo Bizzarri, che per molti, incluso lo stesso Guimarães Rosa, rappresenta il traduttore italiano di Rosa per eccellenza, e che nel 1970 tradusse in italiano “Grande Sertão: Veredas”, dopo aver tradotto “Corpo de Baile” nel 1963 per la casa editrice Feltrinelli; Pasquale Jannini, che già nel 1963 aveva tradotto “A Hora e a vez de Augusto Matraga” , pubblicato insieme alla traduzione de “Il duello” di Bizzarri da Nuova Accademia, a Milano; Giuliano Macchi, che ha tradotto “A Terceira Margem do Rio” e “Nascimento”, pubblicato dalla rivista Progetto nel 1977; A. Faccio, che ha tradotto nuovamente “A Terceira Margem do Rio” nel 1973; Giulia Lanciani, che ha tradotto “Primeiras Histórias” con il titolo “Le sponde dell’allegria” nel 1988 e successivamente ristampato dalla casa editrice Mondadori col titolo “La terza sponda del fiume” nel 2003; Silvia La Regina, che ha tradotto in italiano “Sagarana”, pubblicato da Feltrinelli nel 1994; e Roberto Mulinacci, traduttore per Guanda di “Meu Tio o Iauaraté”, pubblicato nel 1999. Ma dobbiamo questa presenza anche a quegli scrittori e studiosi che hanno sempre fatto il possibile per divulgare questa letteratura in Italia: oltre agli scrittori Giuseppe Ungaretti, Claudio Magris e Antonio Tabucchi, è nostro dovere citare i professori Luciana Stegagno Picchio, Erilde Melillo Reali, Ettore Finazzi-Agrò, Giulia Lanciani, Fernando Toriello, Roberto Vecchi, Mario Barbieri, Giovanni Ricciardi e Maria José de Lancastre.
Attraverso l’intuizione epica di Guimarães Rosa e del razionalismo clinico, a volte possiamo dire addirittura chirurgico, di Machado de Assis, i lettori italiani sono potuti entrare in contatto con grandi passioni e grandi conflitti, e i testi critici e le recensioni giornalistiche che hanno accompagnato la pubblicazione delle traduzioni delle opere confermano l’unanime sorpresa e l’entusiasmo. L’immensa figura di Luciana Stegagno Picchio, la nostra maggiore divulgatrice, scrivendo riguardo alla traduzione di Edoardo Bizzarri di “Grande Sertão: Veredas” per la rivista “L’indice”, ha menzionato un’ “alterità e un’oggettività distanziata, che conferiscono al romanzo l’aura attonita e atemporale tipica delle epopee”.
Passioni e conflitti quindi, in un paese in piena ebollizione: guerre ai confini e cospirazioni nelle corti, schiavi liberti, fanciulle guerriere e jagunços in lotta col destino, voci dall’oltretomba, come quella di Brás Cubas e voci di diavolo fra le ombre umide dei sentieri, voci che restituivano ad un’Europa che si stava rialzando dalle rovine e dagli orrori delle due grandi guerre una cruda luce tropicale, una luce che illumina tutto ciò che esiste e che non permette che niente rimanga nascosto. O, come ha scritto Luciana, “ritagliando nella nuova coscienza fotografie di un colore analitico”. Un’avventura collettiva, un viaggio inebriante, vertiginoso; un passaggio dalla quantità degli uomini, dalle moltitudini brasiliane, alla qualità degli uomini, alla loro densità epica. Una letteratura che, come ha detto lo stesso Guimarães Rosa, citando Plotino in “Corpo de Baile”, è anima e ombra allo stesso tempo, nello scenario frammentato che è il mondo.
In effetti, per la ristretta comunità di lettori che avevano accesso a queste traduzioni, era come se un fiume impetuoso di suoni e di immagini avesse invaso le loro case e fluttuando in queste nuove acque i lettori si sentissero pienamente soddisfatti in certe loro necessità spirituali, delle quali non sospettavano nemmeno l’esistenza.
In un altro mio testo, sforzandomi di trovare una definizione sintetica dell’immagine del Brasile che emergeva in Europa a partire dai libri e dai film che la modellavano nell’inconscio collettivo del Vecchio Mondo, ho coniato l’espressione “estremo Occidente”, ritratto di una dimensione che, benché ancora palesemente occidentale, esibiva un volto sfigurato da una storia particolarmente aspra, dall’isolamento di un intero oceano, da grandi spazi misteriosi, da una post-modernità a volte mostruosa, e da un sincretismo razziale e culturale incomparabile.
Il lettore italiano è davanti a scrittori che disegnano la faccia più autentica del nostro tempo, che costruiscono una letteratura irrecusabile, dove gli uomini che non si riconoscono in essa avranno finalmente la preziosa opportunità di conoscersi. Eugenio Montale diceva: “Per gli uomini di oggi tutto è interno e tutto è esterno”. Il lettore sta davanti a scrittori, questi brasiliani, venuti da dove meno potevano aspettarsi: da un’esuberante mistura di inferno e paradiso fino a poco prima tenuta a distanza dagli occhi e dai cuori degli uomini.
La rivelazione del Brasile del presente è sorprendente ma non tanto quanto la scoperta della grande arte del romanzo universale in uno scrittore del Brasile del passato, Machado de Assis, legittimo rappresentante dell’età dell’oro del romanzo, non a Parigi o a Londra, a Praga o a Dublino, ma nella distante, quasi impensabile Rio de Janeiro del XIX secolo, come ha scritto su “Le Monde” nel 2005 Patrick Kéchichian.
Insieme a Jorge Amado, Machado de Assis é lo scrittore brasiliano più tradotto in Italia e quello la cui opera ha ottenuto il maggior numero di traduzioni. Vediamo quali sono state le traduzioni di Machado de Assis in questo paese – le prime, di “Memórias Postumas de Brás Cubas” di Mario Silva nel 1928, tradotto di nuovo da Giuseppe Alpi nel 1929 , e le traduzioni degli anni ’30, di “Dom Casmurro” e di “Quincas Barba” presentavano Machado ancora come autore esotico, senza il rilievo ed il trattamento serio che avrebbe ricevuto negli anni successivi. Il percorso realmente professionale delle sue traduzioni è iniziato con quella realizzata da Laura Marchiori nel 1951 di “Memórias Póstumas de Brás Cubas”, tradotto nuovamente nel 2005 da Silvia Marianecci. E quella di “Dom Casmurro” anch’essa di Laura Marchiori degli anni ’50, così come la sua nuova traduzione per mano di Lea Nachbin nel 1997 e di Guia Boni nel 2006. La traduzione de “O Alienista” di Rita Desti alla fine degli anni ’80 e la successiva raccolta di racconti tradotta da Giuliana Segre Giorgi, e infine “La cartomante e altri racconti”, tradotto da Amina di Munno negli anni ’90 e pubblicato dalla casa editrice Einaudi – sono state le opere che hanno introdotto questo autore al pubblico italiano. In queste opere il lettore, con una visione ormai più matura e più profonda del Brasile, e orientato da una critica rigorosa, non conferma le proprie probabili aspettative di esotismo, ma al suo posto trova un autore dalla filosofia sofisticata, sense of humor gelido, a volte spietato, feroce ironia e profonda psicologia, riconosciuto oggi come uno dei padri universali del romanzo psicologico, un conoscitore delle forze immense e impercettibili che muovono il mondo degli uomini. Per tutto ciò il lettore italiano trova in Machado de Assis uno spirito familiare, vicino ad uno dei suoi autori più amati, il triestino Italo Svevo. In Machado come in Svevo sono presenti, come ci ricorda Susan Sontag, grande capacità creativa e agilità mentale nell’analisi dell’acuto dramma nascosto dietro questioni esistenziali apparentemente irrilevanti.
Machado de Assis e Guimarães Rosa, autori tanto diversi fra loro, ma in un certo senso complementari nella sensibilità del lettore straniero. Insieme rappresentano una letteratura dalle possibilità infinite, rivoluzionaria nella forma e profonda nel contenuto. Perfetta in ciò che dice ed in come lo dice. Che parte da una grande metropoli, a quel tempo seduttrice, per arrivare col lettore alle porte di un sertão inospitale e mitologico. Romanzi che studiano l’uomo nella società e l’uomo in lotta con la natura e con gli altri uomini. Che mostrano il nulla dove apparentemente c’è tutto, e il tutto dove apparentemente non c’è niente.
Riconosciamolo: in ognuno di noi brasiliani, ma anche in ogni italiano, abita il dandy di Machado ed il jagunço di Rosa. Bentinho e Riobaldo. Sono creature di Dio e del Diavolo. Nella fantastica confusione delle identità rimangono ancora e per sempre inconfondibili.

 

Traduzione dal Portoghese di Alessandra Lupi.


Julio Monteiro Martins
Julio Monteiro Martins, scrittore di origine brasiliana, è stato il direttore di “Sagarana”.

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Immagine di copertina: Ritratti di Machado de Assis e Guimarães Rosa  scelti da Julio Monteiro Martins per Sagarana.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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