da Roots&Routes, “Genealogie dell’Afrofuturismo: la black sci-fi per finirla con l’Umanesimo”, di Claudia Attimonelli

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Prima pubblicazione in Roots & Routes, nell’ambito del ricco  numero di gennaio 2020  dedicato all’Afrofuturismo.

Una tempesta contemporanea: l’Angelus Novus Afrofuturista


Nato nell’alveo della diaspora africano-americana degli anni Novanta, l’Afrofuturismo parte da alcuni assunti fondamentali che si possono sintetizzare nell’omologia tra schiavo, alieno e robot e nell’esclusione dei neri dall’ordine del discorso sul futuro e sullo sviluppo tecnologico, tanto che il termine stesso a primo impatto suonerebbe come un ossimoro. È infatti nell’ossimorologia che tale nozione riluce della sua più pregnante significanza.
La voce narrante in The Last Angel of History – titolo del documentario fantascientifico (di per sé un ossimoro in quanto genere cinematografico) di John Akomfrah (1996) sull’afrofuturismo che rinvia all’Angelo della Storia di Walter Benjamin (1974), ad un certo punto dice: «Se si scava un buco archeologico all’incrocio del mondo» lì si troveranno «frammenti, techno-fossili che messi insieme danno il codice, una volta crackato si possiedono le chiavi per il proprio futuro» [1].

 

L’importante apporto di questo prodotto audiovisivo di Akomfrah è dato dal fatto che il regista insiste sulla metafora della fantascienza di matrice black – un omissis nella critica letteraria e cinematografica del bacino occidentale – come principio cosmogonico atto a reinventare la cultura africano-americana tramite l’immaginario derivato da popular culture e techno music.
Tra gli intenti di questo saggio vi è quello di introdurre prospettive contemporanee che permettano di familiarizzare con l’Afrofuturismo, per accompagnare il declino delle grandi narrazioni occidentali osservato attraverso la lente di questo “ultimo angelo della Storia” (ibidem), un Angelus Novissimus (Susca, 2013). Esso non è stato Rutger Hauer nella celebre scena dei Bastioni d’Orione, non arriverebbe dalla tempesta dei cieli di benjaminiana memoria, bensì dalle profondità dei mari, risuonerebbe come la pioggia dei dati che Morpheus indicava in Matrix, al posto delle ali avrebbe pinne e branchie, la pelle nera, lo sguardo vitreo sulle rovine dei cimiteri marittimi dell’Atlantico e del Mediterraneo, e incalzato da un ciclone di suoni soul e macchinici.

 

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Abu Qadim Haqq, Rahila, of the Barracuda clan.

 

 

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Abu Qadim Haqq, dipinto Muse at Rest.

  

Il senso della musica Techno per l’Afrofuturismo


Nel corso degli anni Ottanta si può dire fosse già nelle intenzioni di Kevin Saunderson, Derrick May e Juan Atkins i tre ragazzi neri, pionieri della Techno di Detroit, il fatto di parlare della loro musica come di un genere familiare all’immaginario sci-fi e futurista. Innervata di elementi high-tech-arcaici che ben interpretavano i segni dell’Occidente in declino così come si palesava nel 1982 sin dalle prime scene di Blade Runner (quelle che hanno inventato il futuro invecchiato), la musica Techno sembra tuttora essere la più fulgida rappresentazione di ciò che possiamo chiamare Afrofuturismo (fatti salvi alcuni linguaggi estetici e vestimentari [2]).
Il futurologo americano Alvin Toffler, scomparso nel 2016, con il suo scritto di cibernetica filosofica The Third Wave pubblicato nel 1980, è stato di grande ispirazione per Juan Atkins che ne aveva studiato le tesi espresse in Future Shock (1970) durante il corso al college sui Future Studies. Il nesso irriducibile tra tecnologia, mito del futuro e passato arcaico è essenziale per interpretare la musica techno come espressione dell’Afrofuturismo, sebbene alcuni aspetti afferenti a quel bacino entrino in relazione anche con altri scenari audio-visuali, dallo hip-hop ad un certo jazz, ad alcuni stili del rock à la Hendrix. Perché si possa parlare di Afrofuturismo è necessario che, innestato nella matrice black, vi sia almeno uno dei seguenti tratti distintivi: la tensione verso lo spazio, la tecnologia, la cyberestetica; bisognerà tuttavia attendere gli anni Novanta perché affiori per la prima volta il termine Afrofuturismo.

 

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Abu Qadim Haqq, dipinto preparatorio per “The Book of Drexciya” Vol. 1.

 

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Bernardo Oliveira, copertina di: “AFROFUTURISMO Cinema e Música em uma Diáspora Intergaláctica”, Sao Paulo.

 

Alondra Nelson e Kali Tal: l’afrofuturismo di stampo femminista
Mi imbattei per la prima volta nel termine Afrofuturismo intorno ai primi anni Duemila, mentre vivevo a Berlino. A quel tempo si navigava per il web in flussi irrequieti e sorprendenti, dove si poteva venir travolti da forum accesi e documenti rari scaricati con lente connessioni, i social network non esistevano ancora; fu tramite un forum formato da un gruppo di illuminati studiosi e artisti, attualmente archiviato dentro un’altra piattaforma dal titolo Afrofuturism.net, che lo conobbi e ne fui folgorata al punto da iniziare una lunga ricerca che ne ricostruisse le matrici. Fondato da Alondra Nelson nel 1999 e con moderatori del calibro di Paul D. Miller aka Dj Spooky ed altri, grazie al supporto di Kali Tal, unitasi in seguito alla community, dal gruppo nacque il sito che raccoglieva le tematiche che avevano animato le discussioni e dato forma ad un vasto immaginario. Nelson associò come descrizione del Yahoo Group quella che ancora oggi costituisce un interessante punto di partenza per mostrare quali fossero gli interrogativi urgenti e come questi indichino il senso dell’Afrofuturismo nelle espressioni contemporanee: «List explores futurist themes, sci-fi imagery and technological innovation in African diasporic technoculture. Is there such a thing as a black technoculture? Are recurring speculative and science fictional themes in varied genres of black cultural production simply coincidences? Or are they aesthetic a/effects of a millennial moment? Are science fiction and speculative fiction the most appropriate genres for reflecting black experiences?».

 

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Yahoo Group description

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Si noti la descrizione dei moderatori e delle discipline di riferimento

 

A quel tempo a Berlino, patria della Techno detroitiana già dagli anni Novanta, nessuno parlava di Afrofuturismo. Ancora oggi, sebbene non sia raro trovare retrospettive, convegni e articoli che tentano un compendio su artisti, film, scrittori afrofuturisti[3], esso resta una traccia sotterranea capace di rendere attuale la tensione celata tra l’arcaico e il discorso sul futuro.
Una delle ragioni per le quali avviai una ricostruzione dei segni e delle tappe e che per cui oggi è urgente la ricognizione teorica, seppure per lumina, è quella di scongiurarne la semplificazione e l’appropriazione culturale da parte dei bianchi in nome dell’esotismo e della coolness.
Nonostante la Techno annoveri una storia di intrecci e corrispondenze ormai quarantennali con elementi eterogenei provenienti dal bacino black così come da quello di stampo occidentale, l’Afrofuturismo continua ad essere collegato soprattutto al filone musicale che dal Jazz si spinge al massimo fino all’Hip Hop e al rap, restando necessariamente segnato dall’elemento della afro-vocality – come dimostrabile dalla recente bibliografia su tali argomenti. Probabilmente, a determinare una tale influenza è l’eredità al fondo umanista che ha animato la ricerca di Paul Gilroy sull’Atlantico Nero (1993), primo vero studio sulla base del quale si è attivato un nesso musicologico tra le culture della diaspora. Collegamento tuttavia dovuto agli stessi gusti musicali di Gilroy che non contemplando la musica Techno quale ulteriore e più radicale esito della diaspora africano-americana, non ne ha colto il potenziale dirompente.
Drexciya e Underground Resistance, due seminali progetti electro e techno di Detroit, pur proseguendo nella consapevolezza del Black Atlantic: deportazione, schiavitù e violenza perpetrata nei secoli, prendono chiaramente le distanze dagli esiti della visione di Gilroy, attraverso l’abbandono definitivo delle categorie dell’umanesimo, l’assenza di ogni prospettiva di redenzione e il distacco dalla vocality, in quanto traccia dell’umano, a favore di un divenire macchinico e sintetico. Tuttavia non bisogna ridurre la dialogica afrofuturista al semplice crossing tra i parametri del sound nero (caldo e tribale) e di quello bianco (algido e asettico à la Kraftwerk).

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Abu Qadim Haqq, “Music City”

 

Oltre a questo rischio di semplificazione va constatato anche un effetto di appropriazione culturale da parte dell’establishment bianco occidentale, il quale per lungo tempo ha ignorato la produzione di black fantascientifica, causando sul finire degli anni Novanta e durante i Duemila fenomeni di tokenism [4] attualmente al centro del dibattito africano-americano. L’ostracismo toccato in America agli scrittori neri di black science fiction è stato così osservato da John Savage il quale afferma: «Nell’inevitabile movimento di idee musicali dall’avantgarde al pop, dal nero al bianco e viceversa, è facile dimenticarsi che i neri […] sono capaci quanto se non più dei bianchi di essere tecnologici e futuristi. C’è un velo di razzismo all’opera. Se cerchi concetti black e futurismo black non andare oltre la metà degli anni ’70, Parliafunkadelicment Thang con il suo linguaggio P-Funk e le visioni extraterrestri» (Savage, 1993).
Kali Tal, teorica afrofuturista, a proposito dello stesso episodio di oblio culturale, ricordava nel suo seminale “The Unbearable Whiteness of Being: African American Critical Theory and Cyberculture” (1996) [5] il titolo di una traccia assegnata nel corso di un workshop sulla science fiction da lei seguito nel 1976, che domandava: «“Perché i neri non scrivono fantascienza?”; in effetti la domanda doveva essere radicalmente differente e cioè: “Come mai gli editori, la critica e l’establishment bianco non hanno mai notato la produzione sci-fi afroamericana?” George Schuyler scriveva fantascienza negli anni Trenta. Ellison nei Cinquanta. Sam Greenlee nei Sessanta. Octavia Butler, Sam Delany, Toni Bambara, Toni Morrison e Ishmael Reed hanno scritto fantascienza negli ultimi vent’anni. Il lavoro c’è, è là, ma nessuno che si occupa di cyberspazio gli presta attenzione» (Kali Tal, 1996).

 

Sinker, Dery, Eshun: distopia e diaspora
Mentre Mark Dery aprì il suo saggio Black to the Future (1993) ponendo un altro tipo di quesito, che sollevava importanti temi sul dibattito: «Perché sono così pochi gli afroamericani che scrivono fantascienza, un genere che, per il fatto stesso di essere a stretto contatto con l’Altro – l’alieno in terra straniera – sembrerebbe ritagliato per i romanzieri afroamericani? […] E ciò è particolarmente curioso alla luce del fatto che gli afroamericani sono, nel vero senso del termine, i discendenti degli alieni rapiti; convivono con un incubo sci-fi nel quale campi di forza dell’intolleranza, invisibili ma non per questo meno efficaci, reprimono i loro movimenti; le storie ufficiali cancellano ciò che gli è stato fatto e la tecnologia, che sia marchio disonorante, sterilizzazione forzata, esperimenti a Tuskegee o provocazioni, troppo spesso incide sul loro corpo black» (Dery 1993, pp. 179-180).
Dunque, la fantascienza black, viene intesa sin da subito, da parte di chi avviava il dibattito sull’Afrofuturismo, come metafora secolare dell’alienazione dei neri dalla società.
Afrofuturismo è termine di recente adozione che fa riferimento alle culture nere metropolitane che si muovono fra cinema, letteratura fantascientifica, musica (hip hop e techno), grafica e produzione di videoclip. I teorici e gli artisti afrofuturisti, pur elaborando posizioni alquanto differenti tra loro – alcune nichiliste, altre militanti e altre escapiste – sono accomunati da uno slancio interno decoloniale teso prima di tutto al capovolgimento degli stereotipi culturali sulla blackness, e in particolar modo di quelli formulati dagli stessi neri nei primi del Novecento o durante le lotte per il riconoscimento dei diritti civili.
Lo scenario afrofuturista nel quale proliferano le neotribù metropolitane (Maffesoli, 2004), dallo hip hop alla techno, mescola alchemicamente il fascino per l’ultima tecnologia e le sue mutazioni, segnate da una stratificata mitologia ancestrale: divinità egizie, pericolose creature anfibie, robot aquatici o muniti di ali preistoriche con il corpo ricoperto di squame, di piume o di pelli di fiere indomabili. Antiche profezie, spiritualità voodooista, carnevalesco e grottesco fungono spesso da ermeneutica per accedere a questi universi, dove vige un’ironia cupa applicata alla vena dark della tecnologia: Busta Rhymes e Drexciya, le opere di Basquiat, i videoclip di Hype Williams e Missy Elliott. Di recente la stessa Beyoncé ha ricoperto più o meno consapevolmente il proprio corpo di segni afrofuturisti [6] e l’epitome visuale di una tale emersione dall’underground è senz’altro il film Black Panther (Coogler, 2018): il primo film in cui la Marvel presenta non solamente un supereroe nero – com’è tipico del tokenism – bensì l’epopea del popolo di Wakanda, dove tecnologia avanzata e tribalismo sono il fulcro dell’opera.
In quanto ambito di studi l’Afrofuturismo nasce nel 1992, con la pubblicazione su The Wire di un saggio di Mark Sinker: Loving the Alien, che ivi inaugurò la fortunata metafora secondo la quale l’immaginario della science fiction esprime il corrispettivo letterario contemporaneo della condizione di schiavitù subita dai neri. Nello specifico, Sinker interpretò la deportazione in massa di genti dall’Africa verso l’America come un’irricucibile rottura nella modernità e l’inizio di crisi esistenziali per i secoli a venire. Egli aprì il suo articolo con una lunga citazione di Sun Ra, che raccontava come fosse giunto alla decisione di parlare al mondo della condizione inumana dei neri; poi evocando la terra desolata di T. S. Eliot in analogia con il Terrordome profetizzato dai Public Enemy [7], fino al collegamento con scenari apocalittici celebrati dalla fantascienza, che, a questo punto, si configurava come “luogo di partenza culturale” (Sinker, 1992) per dipingere un Armageddon già in atto. Il momento cruciale dell’articolo di Sinker è la domanda sulla condizione umana: «Delany e Philip Dick pongono costantemente la stessa domanda che la schiavitù per prima ha rivolto: che significa essere umano?» (ibidem).
La domanda sul significato dell’essere human, sorta da incommensurabili abissi di sofferenza innescati dalla parabola della schiavitù, viaggia su traiettorie differenti se posta dalla letteratura fantascientifica per illustrare concetti, non meno complessi, intorno alla questione del post-umano, del robotico, dell’alieno. Dal punto di vista di Sinker la storia della fantascienza classica narra di un’umanità la cui salvezza potrebbe venire dagli stessi principi che hanno mosso la cultura africana, smembrata nei secoli passati: dis-assemblare, dis-adattare e riadattare, disappropriare e riappropiare, in un procedimento semiosico nel quale il senso ultimo è sempre rinviato e posticipato, anelato e irrisolto per non lasciarsi ingabbiare.
La strategia afrofuturista opera, quindi, destabilizzando e disassemblando quanto finora è stato detto e costruito intorno all’identità nera, in particolare destratificando (Deleuze, Guattari, 1996) l’idea che sia mai esistita un’unica identità e che questa si sia fondata sulla centralità del ghetto e sull’ermeneutica della strada come fucina culturale e artistica.

 

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Jeff Mills, compositore, producer, dj, artista audiovisuale. A partire da questi principi ha dotato la musica Techno di unità tra suono e immagine, votati al superamento dell’umano.

 

Alondra Nelson – fondatrice del gruppo sull’Afrofuturismo nel 1999 – metteva in guardia nei primi anni Duemila gli autori e gli studiosi dai rischi di una prospettiva incentrata sulla categoria dell’identità etnica. «Questa enfasi eccessiva sull’identità razziale unica e assoluta» (Nelson, 2002, p. 89) è stata la causa di una dannosa semplificazione culturale, artistica, politica e sociale fra i neri. Un tale timore, condiviso da più parti, incarna la volontà di autodeterminazione e di autorappresentazione non in nome della conquista di parità di diritti, né di un reazionario e idilliaco ritorno alla supposta autenticità africana, bensì in nome del riconoscimento della molteplicità della blackness; per Paul Gilroy tale riconoscimento passa dalla metafora del Black Atlantic, luogo di transito primigenio a partire dal quale è necessario emergere e connettersi con il presente per immaginare il futuro. In tal senso fantascienza e futurismo sono i percorsi interpretativi più fecondi e capaci di fornire nuove rappresentazioni della diaspora africano-americana, proprio perché questi sono i campi dai quali i neri sono da sempre stati esclusi e rimossi. Attraverso questi strumenti la blackness non viene necessariamente costretta ad aderire alla categoria dell’identità e dell’appartenenza etnica, ma, come afferma Sinker, diventa «più che altro un’identificazione culturale non più data dal colore della pelle, tanto che ci sarebbero migliaia di sospettabili ma non identificabili ragazzini neri dalla pelle bianca in giro» (1992).

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Abu Qadim Haqq, Commander of Bubble One X205, da The Book of Drexciya Vol. 1.

 

Per Kodwo Eshun, uno dei primi intellettuali a definirsi afrofuturista, questo meccanismo è azionato dalla tecnologia: la cultura africana, finora intesa come magma indistinto, sarebbe un risultato di sintesi e campionamenti tutti ancora da scoprire (Eshun, 1998).
Veniamo così al secondo manifesto afrofuturista, quello che ha ufficialmente coniato il termine, si tratta di Black to the Future, un saggio scritto da Mark Dery nel 1993, poi inserito nel suo libro pubblicato nel 1995, Flame Wars. Dery intervista tre africano-americani che, in campi differenti, investigano la natura di quest’interfaccia che media tra fantascienza e black music: Samuel Delany, semiologo e autore di sci-fi; Greg Tate, critico e collaboratore di Village Voice; Tricia Rose, ricercatrice di African Studies and History che stava scrivendo un libro sul rap.
Quando Dery intervistò Delany sulla marginalità della letteratura di fantascienza rispetto agli altri generi, lo scrittore sostenne che fosse proprio l’azione che parte dalle periferie, creando movimenti dislocati senza un topic centrale, a interessarlo, perchè solo così poteva parlare della frammentazione, della diversità multiculturale e della questione dell’umano (Dery 1993, pp. 189-190).
L’umanesimo è precipuamente ciò da cui prende le distanze l’Afrofuturismo, che, infatti, non è interessato a convincere i bianchi della necessità di includere i neri dai diritti umani, né ritiene di poter recuperare il passato di quei gruppi che, nei secoli, sono stati sistematicamente e violentemente esclusi dal consesso sociale – dagli schiavi alle donne, agli omosessuali: paria della società. Se il movimento anti-schiavista sosteneva che black people are human beings”, quello afrofuturista si prefigge di abbattere la categoria stessa dell’umano, sostenendo che non vi siano più esseri unicamente umani dacché è esistito lo schiavismo. In un testo online non datato di Mark Fisher dal titolo Writing Machines, mentre era nella stessa Unità di Ricerca sulla Cultura Cibernetica (CCRU) con Kodwo Eshun, Nick Land, Sadie Plant tra gli altri, si esprime sui membri del gruppo i quali si interrogavano sulle questioni relative all’umano, dicendo che nessuno era veramente sicuro di chi fosse, «in parte fatti di teoria e in parte fatti di finzione, nulla di umano, costrutti assemblati in modo talmente levigato che non si vedono le giunture» (Fisher, +).
Sul piano della etnicità e dunque ripercorrendo le tappe drammatiche della storia degli afroamericani, Eshun radicalizzò la sua posizione affermando: «[…] molti afroamericani non devono nulla alla condizione di umani […] la categoria dell’umano è superflua e traditrice e non ha mai significato nulla per gli afroamericani» (Eshun 1998, p. 12).

 

Complessità cyber oltre la double consciousness di Du Bois


La terrificante analogia tra schiavo, nero e robot, trova nell’afrofuturismo la sua migliore rappresentazione, secondo l’afrofuturista Kodwo Eshun (1998). Gli effetti e le derive delle analogie profonde all’opera nella triade suddetta, come sostenuto dallo stesso Eshun in apertura al documentario di Akomfrah, sono rintracciabili nello streaming dei dati digitali, dei big data, così come nei beat ipnotici e nella dematerializzazione dei corpi che popolano la rete. Tutto questo scenario è di per sé afrofuturista.
L’Afrofuturismo esiste dunque in una dimensione dell’immaginario fantascientifico, il quale rinvia a tropi situati alla fine del secolo scorso, le cui matrici risalgono alla deportazione degli africani nelle Americhe – abduzione degli alieni per Sinker – con la conseguente tragedia della diaspora e dell’alienazione intrinseca al soggetto, il quale non potrà che essere abitato da plurime coscienze circa la propria origine.
Visionario in tal senso fu il principio della double consciousness elaborato da W. E. B. Du Bois nel suo The Souls of Black Folk (1979) del 1903, dove descrive la peculiare esperienza di essere consapevole di sé in quanto persona nera in una società mediata dal concetto di razza: «Il negro […] è dotato di una doppia vista sul mondo americano – un mondo che non gli fa desiderare una vera auto- coscienza ma che gli permette solo di vedersi attraverso la rivelazione dell’altro mondo. È una sensazione peculiare questa doppia-consapevolezza, il senso di guardare se stessi sempre attraverso gli occhi di altri, di misurare la propria anima con il metro di un mondo che ti guarda con disprezzo o pietà. Si sente sempre questa duità (twoness) – americano, negro; due anime, due pensieri, due tensioni inconciliabili; due ideali in lotta dentro un unico corpo nero, la cui lacerazione è evitata unicamente grazie alla continua tensione» (Du Bois 1979, p. 9).
La figura di Du Bois, perseguitato in vita dal governo americano che, formalmente, lo accusava di essere un simpatizzante comunista, a tutt’oggi non ha ancora ricevuto un’ufficiale riabilitazione, né ai suoi eredi sono mai state rivolte scuse per la sistematica applicazione di leggi razziste ai danni della sua persona. Il suo pensiero, tuttavia, riuscì a valicare i confini americani e permise a tanta creatività nera di fiorire liberamente, servendosi della categoria della double consciousness, che proclamava l’affermazione dell’identità razziale su tutto e a discapito degli altri aspetti identitari: un principio anti-etnico, sovranazionale e progressista. Il breve periodo incluso nel decennio 1920-30, conosciuto come Harlem Renaissance, al quale seguì il movimento della Negritude, sollevò per la prima volta la questione della cultura, dell’identità e della costituzione di un’autocoscienza nera fino a quel momento negata. Una volta Sun Ra, molto tempo dopo, negando la posizione della double consciousness di Du Bois all’interno di una discussione sul significato del concetto di umanità dichiarò di preferire la condizione di alieni a quella ipocrita di esseri umani: «Non sono parte dell’America, non sono parte della gente nera. […] Ho abbandonato ogni cosa per essere me stesso, perché sapevo di non essere come loro. Non come un nero né un bianco, non come un americano» (Eshun, 1998, p. 155).
Nel dissidio tra il volere essere se stessi (tradizione, autenticità, etnicità africana) e il non volerlo essere (desiderio di lattificazione – cioè di sbiancarsi – e di assimilazione), le riflessioni avviate dalla negritude hanno aperto la strada ad alcuni orizzonti decoloniali che possono, a loro volta, dialogare con le pratiche afrofuturiste, promuovendo un confronto culturale tra Africa ed Europa. Se, per certi versi, fu decisiva al fine di costruire dal niente un’identità africana contemporanea, fuori dal folklore e dal nazionalismo etnico, la negritudine è stata accusata di aver creato nuove forme di ghettizzazione del nero: è celebre, ad esempio, la convinzione di Sartre in Orphée Noir, (1948)secondo la quale essa costituisce un ostacolo alla futura affermazione sociale black.
È solo con l’Afrofuturismo degli anni ’90 che si è avviato un procedimento centrifugo nei riguardi delle teorie basate sul principio di identità a favore della complessità, avvalendosi dell’allora nascente cybercultura, supportando l’idea radicale della rimozione della storia come disciplina utile a raccontare l’alterità e i percorsi a latere o sotterranei rispetto ai grandi eventi storici, in analogia con la rimozione subita dai nativi-subalterni nei luoghi ufficiali della cultura.
«Nel cyberspazio, è finalmente possibile far scomparire completamente e definitivamente le persone di colore. Ho da tempo sospettato che la tanto decantata “libertà” di perdere i marcatori “limitanti” della razza e del genere su Internet sia illusoria, e che in realtà maschera un fenomeno più inquietante: lo sbiancamento del cyberspazio. L’invisibilità delle persone di colore in rete ha permesso alle pubblicazioni controllate dai bianchi e lette dai bianchi come WIRED [8] di eludere semplicemente le questioni di razza. L’ironia di questa invisibilità è che la teoria critica africano-americana fornisce strumenti molto sofisticati per l’analisi della cybercultura, dal momento che i critici africano-americani hanno discusso il problema di identità multiple, personaggi frammentati e liminalità per oltre cento anni» (Tal, 1996) [9].
Con Tal si introduce in agenda la chance della rete come luogo di pericolosa ulteriore invisibilità del soggetto nero e come potenzialità inespressa nascosta nella black technology di cui parla Akomfrah nel documentario già citato. Inoltre, essa, attingendo dal cyberfemminismo, dal pensiero post-umano e dal concetto di performance gender, lascia intravedere la possibile risoluzione alla proliferazione di ideologie sessiste ove si ammettano i limiti di certa critica di africano-americana ancora animata dal bisogno di riconoscimento identitario.

L’Afrofutrurismo, un oggetto non identificato contro esotismo e tokenismL’Ultima Genesi
Tuttavia l’Afrofuturismo si dissocia esplicitamente da una responsabilità sociale e in questo senso va intesa l’affermazione di Kodwo Eshun secondo la quale la musica afrofuturista debba arrivare «unblack, unpopular and uncultural, an Unidentifies Audio Object with no ground, no roots and no culture» (Eshun, 1998, p. 131). Più che una mera provocazione il discorso di Eshun sulla musica è il punto di partenza per delegittimare di senso la necessità di rinvenire le origini e i fattori che determinano l’autenticità di una cultura. Un orizzonte epistemologico ben individuato da Walter Benjamin già negli anni Trenta, allorché si cimentò ne L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica (1974) con l’idea secondo la quale l’avvento della riproducibilità di immagini e suoni (la fotografia, il disco, il cinema) di per sé rendeva obsoleto il dilemma interno alla produzione del pensiero occidentale circa la dicotomia tra originale e copia, autentico e sofisticato, paternità dell’opera e infine lo spostamento dell’aura dell’opera d’arte dall’oggetto al suo creatore.
Rigettando le tradizionali armi con cui ha combattuto la blackness, l’Afrofuturismo rifiuta anche i classici valori antirazzisti, perché si prefiggono di rappresentare una certa identità da accreditare fra i detrattori bianchi – uno di questi valori è spesso stato identificato nell’autenticità della cultura afro, nella strada quale crogiolo, fucina artistica e luogo di rappresentazione della negritudine.
L’ulteriore insidia derivata da questi processi di rimozione e ripescaggio, di cui il tokenism è una conseguenza, è quella secondo la quale la blackness si trasformi in archivio cui i bianchi possano attingere per depredare e appropriarsi di ciò che è considerato cool – dalla coolness rappresentata dai Blues Brothers di derivazione be-bop ma con il volto di John Belushi e Dan Aykroyd (Landis, 1980) alla House music, che, a differenza della Techno, non è riuscita a evitare la vampirizzazione, passando, in breve tempo dallo status di fucina black e underground a simbolo globale di white mainstream.
Sinker, nel suo saggio già ampiamente citato, esortava a considerare la blackness un dispositivo di détournement tecnologico: smistare, scomporre, affiancare e riadattare quei sistemi e quegli apparati che solitamente sono preda dei bianchi e si ritorcono contro i neri. Nel movimento afrofuturista combattere tecnologicamente è più proficuo che muoversi nel campo dei diritti umani e civili. «I “techno rebel” imbracceranno tecnologie oltre a sintetizzatori e sequencers e, nel corso del processo, finalmente elimineranno con ironia il limitante concetto postmoderno per sentirsi a casa nel presente» (Toffler 1980, p. 189).
Sintomo di ingannevoli forme di appropriazione capace di generare stereotipi inefficaci alla causa black, è l’icona dell’hacker rastafari nero, dai lunghissimi dread lock, abilissimo sabotatore, figura propagata negli anni all’interno di film di fantascienza; oppure quella del nero che riassorbe in sé la tradizione spirituale africana e una straniante natura aliena (si pensi ai due personaggi chiave dell’epopea di Matrix: Morpheus e l’Oracolo). Molti teorici dell’Afrofuturismo imputano alla letteratura cyberpunk di matrice bianca l’aver propugnato questo tipo sociale nei racconti e nei romanzi, la cui funzione è analogica a quella svolta dal simpatico-gay in ambito di genere. Spatz (2001) ritiene che nella letteratura cyberpunk, per lo più white oriented, i neri siano adoperati come simboli di coolness e catalizzatori delle tensioni razziali, evitando a chi scrive di affrontare realmente la questione razziale. Kali Tal suggerisce un’analisi del filone cyberpunk in relazione alla proliferazione di personaggi neri che interpretano il ruolo di hacker: considerando in particolare Neuromancer, l’opera di Gibson (2003) prototipo di questo genere letterario, sostiene che nella lotta degli africano-americani per integrare identità e molteplicità si sia inserita la fantascienza, sfruttando l’abusato concetto postmoderno di assenza di unità, di frammentazione identitaria come se fosse una novità: «Gli scrittori cyberpunk hanno percepito questa risonanza ed è per questo che il mondo di Gibson è popolato di spiriti e divinità della religione voodoo dei Caraibi […], l’immagine del nero impegnato nella guerriglia fra hacker che pervade il cyberspazio, conferisce ai critici bianchi della cybercultura, agli scrittori cyberpunk e agli hacker stessi un’aura di esotismo e pericolo che significano… coolness» (Tal, 1996).
L’esotico, l’avventuroso e il cool sono diventati perfetti ingredienti per ottenere l’orizzonte d’attesa nei lettori. Provando a risalire direttamente ad autori di fantascienza neri, black sci-fi writers, come ad esempio la scrittrice Octavia Butler, possiamo esperire un’idea di un altro immaginario di matrice afrofuturista. Molti di questi autori dipingono ambientazioni post-catastrofe, nelle quali i protagonisti non possono affidarsi neanche alle certezze dell’identità, della famiglia o del popolo, perché già annientati. In Ultima genesi (1987) la Butler racconta di una donna che si risveglia in un mondo di alieni, solo vagamente simili a esseri umani, con i quali la protagonista ha difficoltà di comunicazione: «E le mani erano solo due, e due i piedi. Avrebbe potuto essere molto più brutto di quello che era, molto meno… umano. Perché non poteva accettarlo? In fin dei conti, Jdahya voleva solo che lei non si spaventasse a vedere lui e quelli come lui» (Butler, 1987, p. 18).
A questa difficoltà, espressa in termini generici, sopraggiunge, poco oltre, una prospettiva concreta e da scongiurare: «Provò a immaginare se stessa circondata da esseri come lui, e fu quasi sopraffatta dal panico. Le parve di essere vittima di una fobia improvvisa, un’esperienza per lei completamente nuova. Ma quello che provava in quel momento somigliava alle descrizioni udite da altri, una vera e propria xenofobia» (ibidem).
È interessante notare come l’autrice sia pervenuta all’etimo del concetto espresso dal termine “xenofobia”: non l’odio nei confronti dell’altro bensì precisamente la paura che genera un panico incontrollabile al cospetto di un altro diverso da sé. L’incapacità di guardarlo e il conseguente rifiuto di riconoscerne l’alterità.
Il rischio di diventare bacino esotico dove pescare stilemi da copiare può essere capovolto attraverso una strategia di displacement, dislocando cioè il punto di vista, come nell’opera afrofuturista di Eshun, dove si inventa financo un linguaggio nuovo per nominare fenomeni e oggetti del nostro tempo, nel nome della Sonic Fiction, cioè la fantasonica: More Brilliant than the Sun. Adventures in Sonic Fiction (1998).

Bombe logiche
In un’epoca di tragiche migrazioni verso l’Occidente in declino, di rari approdi felici alle coste d’Europa e d’Italia, la metafora della techno e l’afrofuturismo acquatico dei Drexciya divengono cogenti. La loro sonorità si propone come una risposta al terrorismo più recente e si definisce eso-terrorism, come spiegava Kodwo Eshun in un articolo per The Wire dedicato al duo electro di Detroit: “Paura di un pianeta bagnato” (“Fear of a wet planet” – che convoca citandoli i Public Enemy di Fear of a black planet, 1990): «L’eso-terrorista pianta bombe logiche e sparisce, lasciando detonare esplosioni concettuali, moltiplicando i buchi percettivi, da cui cola via l’intero universo» (Eshun, 1997).
È la potenza sonica delle tracce detroitiane dei primi anni. Ferite per le orecchie contro il senso consolatorio della World Music, del Soul, del Reggae. Esacerbando una visione postumana, la musica di Detroit rilanciò la sfida con una “svolta extraterrestre” – virada extraterrestre (Eshun 2015, p. 57) e poi una svolta acquatica. L’idea drexciyana era, finalmente, un dialogo translocale e transtemporale tra i reietti emarginati dalla modernità (i discendenti degli schiavi di ieri e i migranti dell’oggi), catapultati dal Middle Passage direttamente nella Postmodernità. Musica interstiziale e non binaria (come potevano essere le dicotomie bianchi vs neri, maschile vs femminile), laddove l’interstizio al tempo di Internet è il luogo che abitiamo iniettato di suoni sintetici. Una delle aporie legate alle teorie postcoloniali sull’ibridazione che un certo Afrofuturismo ha evidenziato è stata quella relativa al vuoto creato intorno alla mancata riflessione su quale possibile dialogo, quale parola, circoli tra i subalterni e le diverse visioni di cui sono portatori (già in Dirlik 1994). L’epopea afrofuturista detroitiana, invece, viaggia in questa navicella tra acqua e cielo (spaceship), dove assiepati, danzanti, disperanti, i destini fragili di uomini e donne del nuovo millennio attraversano oceani di tempo e culture. «Back into the darkness I go, do not try to find me» (Mad Mike Banks – UR, 1995).

Note
[1] 
Le traduzioni sono di chi scrive se non indicato diversamente dall’ed. italiana in bibliografia.
[2]
 Cfr. G. Ciani, Black Panther, House of Malakay, moda e immaginari afrofuturistiintervento al convegno Reale, Virtuale e Immaginario III: L’immaginario afrofuturista e la black science-fiction, 3.05.19, Università Aldo Moro di Bari.
[3] Tra le iniziative italiane ricordiamo il dibattito Afrofuturismo femminista curato da Lidia Curti e ospitato al Maxxi di Roma nel 2018 all’interno della mostra “African Metropolis”
[4] Per tokenism intendiamo la pratica di fare solo uno sforzo superficiale o simbolico per essere inclusivi verso i membri di gruppi minoritari, in particolare reclutando un piccolo numero di persone da gruppi sottorappresentati al fine di dare l’apparenza di uguaglianza razziale e/o sessuale all’interno di un determinato contesto. Un simile problema è affrontato in apertura da G. C. Spivak, nella sua Critica alla ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004.
[5] Per una lettura della versione completa dell’articolo di Tal uscito su Wired, si veda QUI 
[6] Cfr. L. Montefinese: From slaveships to spaceships. Afrofuturism and sonic imaginaries, in roots§routes,  Anno IX, N. 31, sett-dic. 2019,
[7] Due dei Public Enemy portano provocatoriamente appese al collo sveglie ciondolanti di misura sproporzionata per rappresentare il razzismo occidentale che ironizza sull’ignoranza degli africani per aver trattato come un monile lo strumento di misurazione del tempo.
[8] [NdA] Non lasciarti ingannare dalla presenza di questo articolo nelle pagine di WIRED. Ottocento parole possono nominare il problema, ma non iniziare a colmare il divario.
[9] Kali Tal si riferisce qui a Sherry Turkle e alla sua dipendenza da autori della tradizione egemonica occidentale, così come altri non organici ma che non hanno mai incluso il Black self, concentrandosi e rivolgendosi al White self.

Iconografia
Immagini originali: courtesy dell’artista: Abdul Qadim Haqq

Bibliografia
Attimonelli C.
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Filmografia
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Blade Runner, Ridley Scott, 1982.
Matrix, Andy Wachosky e Lana Wachosky, 2003.
The last Angel of History, John Akomfrah, 1996.

 

 

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  Claudia Attimonelli è ricercatrice in Teorie del Linguaggio e Scienze dei Segni, insegna Studi visuali e multimediali e Semiologia del cinema e degli audiovisivi all’Università “Aldo Moro” di Bari ed è responsabile dell’Emeroteca Musicale della Regione Puglia (MEM). Le sue ricerche si disseminano fra media, corporeità e cultura visuale. Tra le sue pubblicazioni: Techno. Ritmi afrofuturisti (2008-2018); Pornocultura. Viaggio in fondo alla carne (con V. Susca, Milano 2016, Montréal, Porto Alegre 2017); Il senso migrante della fotografia in JR e Banksy (2016); Underground zone. Dandy, punk & beautiful people (con A. Giannone 2011).

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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