Le liriche di Maria Luisa Colosimo sono il frutto di una lunga elaborazione contenutistica e formale che via via ha affinato il dettato poetico limandolo al punto da abolire quasi del tutto la versificazione fino a farla coincidere, a volte, con un articolo o con una preposizione.
Tale scelta accentua la teatralità e la tensione vocale del testo poetico conferendo a quest’ultimo un ritmo e una musicalità pregevoli.
Presenti gli echi di una cultura letteraria e filosofica ben sedimentata, la prima impressione che se ne trae è che ci troviamo di fronte a una poesia “di genere” per quel sentire particolare che in tutte le tradizioni letterarie ha esempi di rilievo illustri. Per tale ragione ho letto più volte le poesie dell’autrice confermando ogni volta tale connotazione.
[…]Chi apprezza la lirica dolente e infelice di Marina Cvetaeva non può non cogliere assonanze e timbri vocali che percorrono tutta la raccolta della Colosimo. Assieme a quella di Anna Achmatova, la poesia della Cvetaeva può ben a ragione considerarsi la colonna sonora dei drammi del Novecento europeo, dove ogni orrore, ogni storia, ogni dramma si rispecchia nell’epifania dell’altro e, in questo gioco di specchi, vaga alla ricerca di identità e autenticità per strade in cui la memoria a poco serve e non marca confini.
La raffinata lezione della poesia russa del secolo d’argento traspare ben chiara dalla lettura di questi versi
(dalla Prefazione di Giovanni Perrino)
COME UNA PIETRA SENZA PIANTO
Come giovani
capelli neri
il ricordo
dell’uomo
scivolava
sulle
mie
ciglia.
Rimase
nel
mio
occhio
per mesi.
Rimase
fermo
come
una luna
finché
non venne l’inverno.
Incerta
oltre
il vetro
e
il
legno
rimango seduta
lontano
dal rumore
dell’acqua
in mezzo
alle voci
e agli incontri.
Per un attimo,
come un lago
che si allarga,
il tuo azzurro
ha toccato
i miei
veli.
Sul palmo della mano,
in una goccia,
i tuoi denti.
Con me e con te
non bisogna parlare.
Ci trasmettiamo parole
su esili capelli.
Ci trasmettiamo pensieri
su sguardi
illuminati dal sole
allargati dall’ombra.
Ci raccontiamo in silenzio
e
a te
nato troppo tardi
ti parlo dell’erba
e della memoria
turchina
che tutto lega
come un filo di lana.
Occhio che scintilla,
metallo
che luccica.
Ti ho rincontrato
sulle scale bianche.
Ti ho guardato
con una minore
follia
decisa a vivere bene
senza fissarti
come un quadro
antico.
Ci sono altre donne
che ridono
arrivando a te
senza mistero
e silenzio.
In cima alle scale
c’è il guardiano
dell’acqua
e l’insegnante
di ginnastica.
Lui non canta,
non chiede,
non smette di parlare.
[…]
II
Dopo le pulizie
potessi ritornare
alla casa antica
potessi tornare
al pane
ai dolci di miele
alla lentezza
dei giorni
e delle gocce di pioggia.
Potessi cancellare
le chiacchiere
e la vita
che non mi appartiene.
Potessi volare
al di là
dei concerti
al di là
delle prove
al di là
degli specchi.
Potessi
ritrovare
la parola
la preghiera
la Chiesa.
Potessi ritrovare
i veli
sul capo
i gesti lenti
l’emozione
del cuore.
Potessi tornare a vivere
nelle stanze grandi
con le tende
con l’odore di rose
con le mosche.
Potessi ritrovare
i passi
i miei passi
che ho cercato
nel sogno
che ho perduto
nel sogno.
IX
File di alberi come capelli
neri e azzurri.
Occhi gentili
di persone nate a Est.
Azzurro
perduto
sotto
cumuli
di
terra
pressata con le mani.
La differenza
tra
il sì
e
il no
è
il progetto.
Dall’alto dei tuoi pesanti
mutismi
non capirai mai
la pazzia.
Nell’azzurro e nel nero
le nostre mani toccarono
cuori
tessuti
al
telaio
filo dopo filo.
Mani azzurre
di donne
che toccano scale
che toccano letti
che toccano figli
che raccolgono patate.
La mia parola
è la parola
non detta
è quella che sta
nella pancia
ed esce nera
dai capelli.
Hai legato
troppo forte
il cuore
al
tuo sesso
hai legato
troppo forte
il tuo sesso
ai
diagrammi
delle buone parole.
Tra poco
moriremo
anche noi
come i poveri
come i disperati
come quelli che
hanno vissuto
senza parlare
perché spaccando
le pietre
hanno
già
detto
tutto.
XII
Nel centro del cerchio
le parole si addensano.
Lontano dalla inutile circonferenza
le parole
muoiono.
Nello stesso
punto
infinitamente
diviso
il
respiro del cuore
attende.
Sentiamo
il rumore dei treni
sulla circonferenza.
Nevroticamente
parla,
cammina,
fa rumore.
Nevroticamente
fa
il chiasso
della vita.
In un sogno
arancione
l’orizzonte
dell’eternità
era segnato
era disegnato
su un campo.
«Tutta l’eternità è qui»
disse
allargando le braccia.
«Ci sei?»
“E allora resta là.”
con voce di pianto
non può chiedere
il centro
con gli occhi.
È un tremore di mani il dolore,
un silenzio oscuro
il braccio non sfiorato
il pensiero oscurato.
«Posso sedermi qui?»
Dolore
nel silenzio
e nell’azzurro invidiato.
Nelle tue
esili dita
metto
il mio buono
e il mio verde
le mie parole
e il mio
nero.
Maria Luisa Colosimo è nata a Roma nel 1953. Laureata in Filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma, insegna Storia e Filosofia presso il Liceo “Vito Volterra” di Ciampino. È originaria di San Martino di Finita (CS), una delle comunità di lingua albanese della Calabria. L’aver trascorso lunghi periodi della sua vita in questo piccolo paese multilingue ha avuto una grande influenza sulla presa di coscienza del problema delle “minoranze”. Le sue poesie parlano dei poveri, degli abitanti delle periferie cittadine, delle donne “cadute” con le quali la stessa autrice ha condiviso esperienze importanti. Nutre un forte interesse per le religioni e le filosofie orientali. È autrice di racconti, poesie e testi teatrali.
Immagine in evidenza di Teri Allen Piccolo.