da Il manifesto “Il rimosso di Macerata” – Mario Di Vito

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Un anno dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro e la sparatoria di Luca Traini, Macerata sembra una città appena uscita dalla guerra. Lo spazio del dolore è stato azzerato per lasciar spazio alla rappresentazione di una normalità che qui si vorrebbe eterna, immutabile, scolpita nel tempo. È la provincia che non vuole essere disturbata, in cui il male è per assioma sempre minore, sussurrato, nascosto dietro un’allusione, in fin dei conti negato, respinto, non ammesso.

TRA I VICOLI male illuminati da lampioni troppo bassi, sotto ai palazzi toccati dal terremoto e impacchettati dai cantieri, gli unici accenni a quello che è accaduto un anno fa riguardano il delitto di Pamela, che per definizione è «la povera Pamela», perché l’argomento è emotivo e il formato è quello del tabloid: non esistono fatti, ma solo interpretazioni, per lo più scandalistiche o comunque votate allo stimolare gli istinti peggiori della società.

Come sono andate le cose non interessa sostanzialmente a nessuno. C’è già un colpevole – il nigeriano Innocent Oseghale, il suo processo comincerà il 13 febbraio – e c’è già una pista consolidata, quella della mafia nigeriana che controlla il traffico di eroina in città. Tesi che il questore Antonio Pignataro ha sposato con tutto se stesso e non importa se le statistiche parlano di un consumo di stupefacenti in linea con quello di quasi tutta la provincia italiana. E non fa niente se un poliziotto di lungo corso ammette al cronista che «pensare che in Italia la mafia nigeriana faccia parte dei giri che contano è un po’ azzardato», perché qui di mafie autoctone ce ne sono almeno quattro e non è facile arrivare da fuori e sedersi a un tavolo pesante come quello dello spaccio».

DI LUCA TRAINI si parla poco, pochissimo. I suoi difensori sembrano esistere soltanto per la propaganda della destra. Semplicemente, quella mattinata di follia quasi omicida è scivolata nel dimenticatoio. «In fondo – dicono in un bar – non è morto nessuno». Per caso, però: i feriti furono sei, e di loro si sono sostanzialmente perse le tracce. Uno è stato arrestato per spaccio lo scorso settembre (il 28enne Gideon Azeke), un altro, il più giovane, Wilson Kofi, ha finito il suo percorso nello Sprar ed è riuscito a trovare lavoro. Gli altri vivono in città ma non parlano molto, e d’altra parte se lo fanno scoppia sempre il caos, come quando furono sommersi dagli insulti per aver chiesto un risarcimento durante il processo a Traini.

Macerata ha rimosso, perché un anno fa c’è stato un trauma. E dei traumi non vuole parlare mai nessuno. Il sindaco Romano Carancini (Pd) è estremamente prudente quando parla di questa storia. «Macerata è stata colpita e messa al tappeto», dice. Però «si è salvata dalla disintegrazione grazie ai suoi valori profondi». Appare più probabile che la comunità abbia aspettato che la tempesta passasse per poi tornare a vivere come sempre, come se non fosse successo nulla.

C’è però chi resiste. E in fondo non è del tutto un caso che qui, il 10 febbraio dell’anno scorso, andò in scena una delle più grandi manifestazioni antifasciste d’Europa, con trentamila persone in corteo sotto alle mura del centro storico. E così, adesso, gli attivisti del centro sociale Sisma, insieme a qualche altra realtà cittadina, hanno messo insieme un ciclo d’incontri e di spettacoli che s’intitola Mc=A3 (Macerata uguale antifascista, antirazzista, antisessista) che animerà la città per tutto il mese di febbraio.

Basterà? Gli osservatori della politica locale sono pressoché certi che le prossime elezioni comunali saranno una marcia trionfale della destra. Se ne riparlerà l’anno prossimo, e di questi tempi in dodici mesi l’opinione pubblica può cambiare direzione ancora svariate volte. I segnali, tuttavia, non sono incoraggianti: alle ultime politiche la Lega ha decuplicato i suoi consensi in città e in provincia rispetto alle elezioni precedenti e il centrosinistra, che a Macerata governa praticamente da sempre, appare stanco e sfibrato. Si vedrà.

FORSE L’UNICO LASCITO, dopo la morte di Pamela Mastropietro e la sparatoria di Traini, si trova nel clima pesante generato dalla campagna securitaria avviata dal questore Pignataro. Arrivato nel febbraio scorso perché il suo predecessore Vincenzo Vuono non era troppo ligio nell’eseguire gli ordini ministeriali, il nuovo questore ha una fama da vero duro. Si è occupato dei sequestri Melis e Soffiantini, ha messo le manette a diversi Casamonica. Adesso è qui per combattere lo spaccio e la mafia nigeriana. Lo snodo nevralgico sarebbe ai giardini Diaz, poco fuori dalle mura, a due passi dalla facoltà di lettere. «Ma qui i tossici ci sono sempre stati – spiega una ragazza -, l’eroina non è qualcosa che esiste dall’anno scorso…». Prosegue Gabriella Ciarlantini, avvocato e attivista del Sisma: «Certo che c’è lo spaccio, ma la situazione non è per nulla diversa da quella di tante altre città italiane». Comunque si continua a parlare di emergenza, almeno sulle gazzette locali e nei post su Facebook. Gli universitari che la sera continuano ad affollare i bar non sembrano molto interessati al dibattito, ma loro mica votano. O almeno non qui.

A MACERATA ha sede anche il Gus, l’associazione che si prende cura di centinaia di rifugiati e richiedenti asilo in tutte le Marche. Nei mesi scorsi la guardia di finanza aveva aperto un’inchiesta su dei contributi non pagati. Se n’è scritto parecchio, ma quando poi i giudici hanno dato ragione al Gus la notizia è scomparsa. Il Gus, per inciso, ospitava anche le vittime di Traini.

Il clima a Macerata continua ad essere gelido, e non solo per l’aria degli Appennini che qui arriva diretta a rendere gli inverni particolarmente rigidi. La normalità a base degli aperitivi universitari, dell’opera lirica e dello shopping sul corso riesce a coprire solo in parte il trauma. E forse la verità è quella che si legge sul cartello all’inizio della città, «Macerata città della pace», con qualcuno che sotto ha aggiunto a bomboletta: «Eterna». Perché dietro ogni angolo continua ad esserci un’ombra, nonostante le apparenze. O forse proprio come le apparenze.

Per gentile concessione dell’autore, ripubblicato da il manifesto  del 03/02/ 2019

Nel numero 11 de La Macchina Sognante un intero inserto è stato dedicato  a “I fatti di Macerata” con proposte di articoli, interviste, video reportage.

 

Mario Di Vito, classe 1989, è cronista per il quotidiano “Il manifesto”. Ha pubblicato i romanzi “Il male minore” (Edizioni Ae, 2016) e “Due minuti a mezzanotte” (Fila 37, 2018). È anche autore del documentario “Vista mare obbligatoria” sugli sfollati del sisma del Centro Italia.  

 

Immagine in evidenza: Foto realizzata da Renata Morresi.

 

 

 

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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