da ‘E riavulille’, romanzo di Tullio Bugari

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Da ‘E riavulille, di Tullio Bugari, Gwynplaine edizioni 2018,

dall’Introduzione:

‘E riavulille’, i diavoli, nella smorfia napoletana sono il 77, l’anno di questo racconto tra immaginazione e documenti integrati da ricordi e testimonianze. ho evitato, però, di mettere in scena le persone reali, con il rischio di stravolgerle e renderle meno reali, e ho preferito raccontare di personaggi immaginari, inserendo le loro storie sullo sfondo di alcune vicende realmente accadute nella mia città di provincia. In primo luogo tra gli operai della principale fabbrica, la fabbrica, ai quali si riferisce molta della documentazione che – cosa insolita per un romanzo – cito alla maniera di un saggio storico: è la realtà che irrompe nell’immaginazione? a queste vicende ne aggiungo altre, di una parte di quell’area sociale e politica eterogenea che diede vita in città a una radio, la radio; per queste mi baso sui miei ricordi personali: è l’immaginazione che contiene la realtà? naturalmente non mancano sullo sfondo alcuni dei principali eventi nazionali di quell’anno così denso: è lo scontro di classe visto dalla periferia? le persone reali, le vere protagoniste di allora, non sono però del tutto assenti, compaiono qua e là sulla scena attraverso gli occhi dei personaggi, i quali le incontrano, le coinvolgono o le evocano come testimoni di quello sfondo. Può quindi accadere che le loro vicende s’intreccino, subendone entrambi un reciproco effetto, diventando i personaggi un po’ meno inventati e le persone reali, ahimè, anche un po’ immaginate. Mi perdonino entrambi, persone e personaggi, per queste distorsioni dello sguardo che ho voluto introdurre convinto che mi aiutassero a focalizzare meglio queste storie che sono nostre.

 

 

 

Un brano dal romanzo:

[…] sedettero attorno a un grande tavolo quadrato, le pareti erano insonorizzate con i cartoni d’imballaggio delle uova, gli unici in grado di assorbire le vibrazioni eccessive e proteggere i gusci delicati. «Fame e macerie sotto i mortai, come l’acciaio resiste la città», la trasmissione operaia si annunciava agli ascoltatori con questa canzone degli Stormy Six, dedicata alla resistenza estrema della città che era stata capace di deviare il corso della storia. Anche loro erano sette operai come nella canzone ma non tutti avrebbero brindato a Lenin. Tre erano della fabbrica, oltre a lui il delegato anarchico e il cattolico, e poi due operai di due diverse fabbriche, il primo comunista, che qualche giorno prima Cafiero e il poeta avevano intervistato, per la trasmissione operaia, seduto su una sedia davanti al cancello della sua fabbrica durante un blocco delle merci, e il secondo magari comunista lo era anche lui, nel sentimento, chissà?, perché era un prete operaio, metalmeccanico come gli altri. Poi c’era un altro delegato anarchico che abitava in città ma lavorava al cantiere navale nel capoluogo, e infine uno studente lavoratore con un contratto trimestrale alle poste. “La lotta di classe viaggia per raccomandata” lo aveva salutato Febo e quello aveva risposto, “Sì, con ricevuta di ritorno.” Disoccupazione e lavoro precario erano temi ancora insoliti per gli operai e riguardavano di più i giovani laureati o diplomati, cioè i figli degli operai andati a scuola come sottolineavano alcuni, e questi figli, cioè i nuovi compagni di oggi, quei lavori precari li accettavano pure e non facevano in tempo a iniziarne uno che già si organizzavano per contestarlo, pronti anche a licenziarsi e cercarsene un altro, diverso, per un altro po’ di tempo. In realtà molti non avevano nessuna voglia di un posto fisso in fabbrica o anche in un ufficio, al quale legarsi a vita. Che cosa inventeranno i padroni per precarizzare davvero il lavoro quando uno il lavoro a vita non lo vuole? Si chiese Febo, consapevole che qualcosa gli stava sfuggendo. Chissà chi era in grado di spiegarlo a lui, che in fabbrica c’era entrato, da operaio, e rimasto, come un destino. Il destino di quegli studenti invece era un altro. Il primo a parlare fu il delegato anarchico. Iniziò dalla salute che non si deve barattare con nulla per poi insistere sull’informativa e come conquistarsela, sugli investimenti e le dicerie sui traffici con la nuova fabbrica in Brasile, e non trascurò nemmeno qualche battuta sui modi burocratici del sindacato non sempre pronto a forme di lotta più efficaci, preoccupandosi invece di altri equilibri, e poi criticò l’austerità di Berlinguer e gli ultimi accordi sindacali con Confindustria e governo, gli stessi che Forattini aveva commentato disegnando un brindisi a tre tra Lama, Andreotti e Carli, con Lama tutto elegante e la pipa in mano, ma elegantemente a culo nudo, senza pantaloni e mutande. Anche gli altri dissero la loro su queste cose, poi c’erano state alcune telefonate e avevano discusso in diretta ma soprattutto si era aperto un dibattito tra loro, su quei diritti di informativa, ribadendo insieme che le informazioni bisognava guadagnarsele giorno per giorno nel corso stesso delle lotte, perché erano gli operai, e anche gli impiegati, a sapere che cosa si produceva e per chi, ed era importante capire in anticipo le mosse dei padroni. “Le braccia per il capitale, questo lo contrattiamo” diceva l’anarchico del cantiere, “Ma la testa no, quella è nostra.” “Temo che vogliano anche questa” rispose lo studente.

 

Tullio Bugari è nato a Jesi nel 1952, in una casa di campagna che oggi non c’è più: tolta di mezzo per far posto ad una strada. Laureato in filosofia a Roma a metà degli anni Settanta, nella sua vita reale si è occupato per molti anni di ricerca sociale, formazione, intercultura e raccolta di storie; negli ultimi anni ha pubblicato: nel 1999, insieme a Giacomo Scattolini, “Izbjeglice/Rifugiati, storie di gente della ex-Jugoslavia”, con un racconto di Predrag Matvejevic (ed. Pequod, Ancona); nel 2000, “Itinerari, storie di viaggio dentro al mondo”, racconti di migranti raccolti nelle Marche, in Catalogna, in Svezia e in Germania (programma europeo Comenius); nel 2004, “Parole condivise” (Franco Angeli, collana La Melagrana), il racconto a più voci di un’esperienza di accoglienza scolastica dei minori stranieri nelle scuole di Ancona; nel 2007 e nel 2008 le due antologie Alfabetica, dedicate ai poeti e scrittori migranti che hanno partecipato a Jesi ad “Alfabetica, incontri letterari con i nuovi autori in lingua italiana”; nel 2011, il romanzo “La ragazza che corre” (affinità elettive, Ancona); nel 2011, insieme a Giacomo Scattolini, “Jugoschegge, storie e scatti di guerre e di pace” (Infinito edizioni); nel 2013, “In bicicletta lungo la Linea Gotica”, in viaggio con la Staffetta della Memoria dal Tirreno all’Adriatico (Infinito edizioni). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista on line Sagarana diretta da Julio Monteiro Martins.

 

Immagine in evidenza di Tracy Allen.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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