da “Ciao mamma, un saluto da Bolzano” silloge inedita di Gentiana Minga (a cura di Elena Cesari)

ciaomamma

Oh, mamma, chi é  tornato indietro nel tempo per vederti all’angolo della stanza a solo dodici anni dopo aver bevuto un bicchiere di latte?

Gentiana Minga apre la sua raccolta poetica con questa domanda che, diversamente da una qualunque domanda retorica, inaugura una sorta di ricapitolazione della sua vita attraverso la vita della madre. Mentre la pellicola del ricordo si srotola e “torna indietro nel tempo”, il presente si riempie e si sostanzia del desiderio e del sospiro della matria, terra nativa e legame filiale, poichè  “Se devo fermarmi e vivere come le colombe dei marinai,

anche torno. Torno per sempre a Durazzo.”

E’ nel dialogo costante, mai veramente interrotto, nel rapporto viscerale con la madre, che l’autrice ripercorre e risignifica poeticamente  avvenimenti della sua storia familiare ma anche collettiva e contemporanea.

“Ciao mamma, un saluto da Bolzano.

Sento il bisogno di dirti che mi manchi.[…]

Ti amo più di quanto pensassi.

Hai letto della morte del ragazzo Azad,

che cantò l’ultima canzone per la sua madre?

Tutto sommato, io sto bene. Ogni mattina bevo un macchiato

e leggo i giornali. Da lì osservo a malapena il mondo

come si sanguina,  e le ali dei corvi che spediscono

i messaggi  dei combattenti come polline per il futuro”

 

“Oh, mamma, chi è tornato indietro nel tempo

per vederti all’angolo della stanza

a solo dodici  anni

dopo aver bevuto un bicchiere di latte?”

1.

Ho nostalgia del paese remoto,

mi manca ogni cosa che amo,
anche se mi è vicina. Ho bisogno
della voce del cibo, e l’amica
mi è sempre lontana dagli occhi. Mi racconta lo stesso della sua vita
scrutando il pescatore distante dalla costa
che recupera con calma i pesciolini dalla rete.
Lei sorseggia un caffè ristretto come piace a me,

e mi parla dell’attimo quando il corpo
si tuffa nell’onda e trema per la freschezza.
Da sotto in punta di piedi tocca
pietre scivolose avvolte di alghe,
conchiglie aperte
come delle bocche. A volte piene,
rotonde.
Mi manca il silenzio dei mattutini in fila

sulla riva del mare. L’anziana col cane
che annaffia i piedi con la bottiglia d’ acqua.

Vivere questo nel presente mi appaga
in fretta
e mentre tutto si stempera
ho fame del ricordo nuovo.

2.

Se devo fermarmi e vivere come le colombe dei marinai,

anche torno. Torno per sempre a Durazzo.

Se devo vivere come le colombe

del  palazzo gobbo

piegato su se stesso

per non dar fastidio al marciapiede

già stretto di suo.

Sempre appesi sul terrazzo due orsi di peluche,

almeno così ricordo, e le colombe dei marinai,

ferme  sulle panche

di fronte al litorale

con i corpi caldi, le piume arruffate all’alba.

Proprio ora, esausti, oziano sul viale due cani randagi.

Due cani solitari distesi sull’asfalto sotto l’ombra della giostra,

che di volta in volta appoggiano i musetti l’uno sull’altro.

E sbadigliano,

come piccoli leoni addomesticati.

3.

Mi vedo pure io verso il pomeriggio,

a sgranocchiare i semi sotto le colonne.

Una è già mia, la colonna corinzia….

Città Admirabilis fu Epidamnus

caro Cicerone!

I semi li vende una bambina, ad ogni cono chiede 100 lek.

Coni di carta,

fatture vecchie degli anni ottanta.

Gli occhiali da sole le coprono le occhiaie.

Ha dormito poco, si sente un punto.

Chiude solo frasi e non apre le porte.

Non è una chiave.

 

Bensì il movimento

che conclude.

Necessità la pace. Rivendica una preghiera.

Sfogarsi con Dio e chiedere  grazia.

E poi dissolversi dentro la brezza.

Cosi si affonda tra le alghe del mare

grigie e saline.

Città Admirabilis,fu Epidamnus,

caro Cicerone

4.

Ricordo sempre il nonno, come andava in giro per il cortile

con addosso una tuta blu…

La nonna si addormentava sopra il giornale

con la bocca aperta, gli occhiali scivolati dal  naso

e il mento sul tavolo.

Dalla radio si sentiva la canzone straziante di Zdravko :

Ti moses sve. Tu non puoi fare niente

Laceravano l’anima i suoi suoni tristi a noi incomprensibili,

ma tutti i capelli  tagliati  a coda di colombo,

come lui.

All’alba, la nonna cercava la bottiglia di grappa,

e il nonno Bahria  faceva  il finto tonto ,

dandole delle pacche sulla schiena, e i pizzicotti sulla faccia.

Al pomeriggio parlavano dei compagni che

non c’erano più, o perché morti anziani

o perché fucilati in guerra.

Verso sera, il nonno  appariva in tuta blu,

con la bottiglia in mano e gli occhi un poco bagnati.

Riempiva per lei un bicchierino a metà,

e continuavano a parlare dei compagni,

guardando più o meno la tv,

i fichi secchi sul tavolo, e il tabacco.

Così via via tutto  si velava di una soave polverina

della vita assolta e della notte.

Ti moses sve – Tu non puoi fare niente

cantava Zdravko

5.

Fortunato colui che prese in sposa mia madre.

La ragazza annaffiava di lacrime le montagne della patria lontana

mentre il ragazzo, da sopra l’albero,

sull’entrata del ponte di Pechino,

l’albero circondato dai salici inchinati e silenziosi,

le spargeva sui capelli le foglie appassite di ginkgo.

A lui mancava Leningrado e camminando abbracciati

per la piazza Tienanmen

le raccontava della Madre Russia, come ci si vestiva spesso di bianco,

della vodka a fiumi, dei canti d’amore e  delle lacrime degli amanti ubriachi.

Ballava per la ragazza la danza della Kalinka….

Poi si fermarono  a Durazzo, accanto al porto.

Da una stanza con la finestra verso il mare

la sposa poteva sentire le sirene delle navi

quando lui sbarcava nella terra amata con gli occhi lucidi,

e le tasche piene di conchiglie.

Nel cuore ho inciso un tatuaggio della mezza luna e di una stella.

Ai genitori agnostici serve una preghiera

occulta.

 

6.

Stamattina mi sono messa alla finestra

e ho pensato a mia mamma.

Oggi, si sarà svegliata anche lei pensando a me…

La sento quando nel sonno le sue dita

si allungano dentro la sua stanza e cercano

inutilmente il mio cuore, la casa piena di sangue

dove entrare ad accarezzarmi

è un gioco.

Ormai è da tempo che nella notte in cui pensa a me

agita le mani cieca dalla nostalgia e dalla lontananza.

Teme che non  mi manchi, soffre che non la pensi

cosi, come vorrebbe.

Soprattutto, dopo aver visto il film che le piace tanto.

Seduta sul divano ha dietro il muro con sopra il toro  inferocito

dalla spada del torero

col vestito impregnato di sangue.

Ma lei sarà già sveglia adesso. Ha girato le sue spalle

ha lasciato aperto sul tavolo il suo libro

e racconta  fuori, vicino al basilico a voce bassa

il suo sogno a memoria, prima che il sole lo asciughi.

Poi si siederà sulla vecchia sedia al poggiolo

sul  cuscino marroncino,  e mangerà un frutto,

sperando che lo faccia anch’io.

Stamattina le sue dita  hanno  attraversate le terre.

Hanno percorso i confini. Sono diventate clandestine.

Hanno sfiorato il mio cuore perforato

dai rimpianti miei  e suoi.

11.

Ciao mamma, un saluto da Bolzano.

Sento il bisogno di dirti che mi manchi.

Avrei potuto essere anch’io di Kobani, essere chiamata Narin.

E se mi trovassi sotto un mucchio

di sassi, oppure violentata in una casa abbandonata,

desiderosa di avere  addosso

un grembo di fiore tra le crepe?

Se fossi Narin, e se fossi viva, avrei potuto scriverti

per spiegarti dove mi trovo.

È facile se segui le tracce di altri spettri,

ti accorgi del muro con sopra il mio nome all’inchiostro rosso.

Il muro con le tre finestre, sul lato est di Kobani.

Ti avrei indicato

la porta verde bucata dal cecchino. Se fossi Narin.

Altrimenti, mi troveresti un po’ dappertutto. La testa appoggiata sul tronco di un albero.

La mano, quella con la quale ti scrivo, sopra il fucile.

L’occhio destro che guarda le malve,

l’altro che segue il merlo sopra il tetto.

Ti amo più di quanto pensassi.

Hai letto della morte del ragazzo Azad,

che cantò l’ultima canzone per la sua madre?

Tutto sommato, io sto bene. Ogni mattina bevo un macchiato

e leggo i giornali. Da lì osservo a malapena il mondo

come si sanguina,  e le ali dei corvi che spediscono

i  messaggi  dei combattenti come polline per il futuro”

 

 

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 Gentiana Minga , nata il 12 aprile 1971 nella città di Durazzo (Albania). Nel 1993 si è laureata in  Letteratura e Lingua Albanese presso la Facoltà di Storia e Filologia dell’Università di Tirana. Subito  dopo la laurea fino al 1998 è stata insegnante di lingua e letteratura albanese nelle scuole medie di Durazzo(Albania). È stata per diversi anni bibliotecaria presso la Biblioteca Pubblica di Durazzo e giornalista professionista per una serie di testate albanesi.  Dal 2000 vive in Italia, a Bolzano. Ha collaborato e collabora tuttora con diverse riviste letterarie, tra cui Poeteka Trimestrale Letterario Albanese, El-Ghibli, Rivista di Letteratura della Migrazione italiana, Almatea rivista trimestrale di cultura, Salto Bolzano, il portale d’informazione network alto atesino, Enmigrinta bollettino di multi-ultura online in Alto Adige. In quest’ultima è redattrice per la sezione di Bolzano. È membro del direttivo dell’Associazione Rete dei Diritti dei Senza Voce Bolzano, membro sostitutivo della Consulta Provinciale per l’Integrazione degli Stranieri in Alto Adige. Opere edite:- “Autopsia e shkatërrimit” (Autopsia del disastro), (racconti e novelle), (edizione Europa, Tirana, 1993);– “Zonja e Shkodrës” (La signora di Scutari) ( poesie), (edizioneFlorimont, Tirana)- “Abbracciata dalla luce”, (E përqafuar nga drita) di Betty J. Eady (edizione Medaur, Tirana, 2003).- “Se fossi Narin” e “Finchè arriva il giorno”, poesie , antologia “Sotto cielo di Lampedusa II”,edizione Rayela.– “La mamma di Zeqo in cima di cornioli”, narrazione, antologia “Premio Prato città aperta”,edizione Marco del Bucchia, 2016.– “ Ancora tiepido letto” , poesie, “Il Cristallo”, rivista quadrimestrale del centro Cultura Alto Adige, anno LVIII-n.1-aprile 2016.edizione Alphabeta verlag.- Attualmente,i n corso la partecipazione tramite contributi poetici nel progetto  “Muovimenti – segnali da un mondo viandante” – Antologia della e sulla migrazione di prossima pubblicazione  – Editore Terre d’Ulivi. 

 

 

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

 

Riguardo il macchinista

Elena Cesari

Elena Cesari ha fatto parte del gruppo operativo de lamacchinasognante.com fino al numero 5. Elena Cesari abita a Salvaro in un condominio solidale. Nel 2014 esce la sua prima raccolta poetica, Una viola, una pigna, un'ombra (Fondazione Luzi, Roma). A luglio 2015 esce “L'essenziale delle cose perse” (LietoColle) . Educatrice e insegnante di italiano L2 ha condotto e collaborato alla realizzazione di corsi di italiano e progetti sperimentali di teatro e lingua con donne migranti. Attualmente lavora con un gruppo di richiedenti asilo bengalesi. Da tre anni collabora con il gruppo di teatro integrato Magnifico Teatrino Errante, realizzando progetti di teatro integrato e interculturale.

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