Estratto da “Algeria tra autunni e primavere – Capire quello che succede oggi con le storie di 10 eventi e 10 personaggi”, di Karim Metref, Multimage 2019
Fra pochi giorni arriva il 5 ottobre. Il 5 ottobre è stato proclamato dalla diaspora algerina nel mondo « Giornata per la difesa dei diritti umani in Algeria » (Vedere e firmare l’appello: https://www.freealgeria.org/home-en). Una data altamente simbolica. In effetti 31 anni fa il 5 ottobre 1988, l’Algeria usciva per le strade per chiedere libertà e dignità. Quello che è successo raccontato in questo estratto dal libro «Algeria tra autunni e primavere. Capire quello che succede oggi con le storie di 10 eventi e 10 personaggi », Multimage. 2019. (https://karimmetref.wordpress.com/2019/07/01/libro-algeria-tra-autunni-e-primavere/)
5 ottobre 1988, 22 anni prima di Piazza Tahrir
Pubblicato il 4 ottobre 2014
Al mattino del 5 ottobre 1988, Algeri per prima e poi tutta l’Algeria si sveglia in stato di choc. La dittatura del partito unico, Fronte di Liberazione Nazionale, stava facendo acqua da tutte le parti. Sommosse, saccheggi, ribellione generale. La repressione fu spietata: più di 500 morti, migliaia di feriti e di vittime della tortura. Risultato: una breve esperienza democratica, poi la guerra per 15 anni.
Nel 1988 l’Algeria è indipendente da 26 anni. L’indipendenza, ottenuta dopo 7 anni di guerra durissima, fu pagata con circa 1 milione di morti su 9 milioni di abitanti. Ma subito dopo la proclamazione dell’indipendenza, si instaura una dittatura di stampo socialista e nazionalista arabo, sotto il comando prima di Mohammed Ben Bella e poi di Houari Boumediène, dopo il così detto “raddrizzamento rivoluzionario” del 1965, cioè un colpo di stato.
La “dittatura illuminata” di Boumediène
L’era di Boumediène fu quella che si può chiamare una “dittatura illuminata”. C’era da una parte la chiusura del campo politico e di espressione[1], ma dall’altra c’era anche la costruzione delle basi di una nazione sana e vigorosa. Scuola, sanità e lavoro per tutti. Strade, fabbriche, università, ospedali…
In 14 anni di governo, Boumediène aveva fatto di una ex colonia francese – che contava all’indipendenza una decina di medici e di ingegneri e non più di un pugno di insegnanti – un Paese autosufficiente dal punto di vista delle competenze nella maggior parte dei settori strategici: scuola, sanità, industria, energia, agricoltura.
Per intenderci, non erano tutte rose e fiori. Le scelte di Boumediène erano anche sbagliate in molti settori. Industria pesante obsoleta comprata chiave in mano, burocratizzazione dell’agricoltura che porta l’Algeria ricca di terre arabili e dal clima ideale alla dipendenza dai prodotti di importazione. Arabizzazione del sistema scolastico in fretta e su base ideologica e non scientifica che abbassa in pochi anni un livello scolastico che era eccellente nei primi anni… Ma Boumediène apparteneva a quella classe di dirigenti che pur con mano di ferro, pur sbagliando spesso, avevano veramente a cuore l’interesse del Paese.
L’unico problema è che non si può fare del bene con il male. Anche se ben intenzionato, un leader che vuole mantenere il potere con la forza ha bisogno di incrementare i privilegi dei militari, ha bisogno di chiudere gli occhi sui misfatti di chi dimostra fedeltà, ha bisogno di organizzare una rete di controllo della società basata anche su piccoli criminali e gente inaffidabile… Sono questi che si disfecero di lui nel 1989, anno in cui morì – probabilmente avvelenato – per lasciare posto a un regime, che in algerino si chiama del “tag ala men tag” (Il forte mangia il debole) dove gli apparati militari e di Stato cominciano uno svuotamento sistematico dei contenuti e delle conquiste della guerra di liberazione e dei primi anni di indipendenza.
Un sistema al collasso
Nel 1988 è tutto il sistema che entra in crisi. C’era rabbia ovunque. Nelle principali imprese industriali grandi scioperi. Piccoli scontri nelle università, nelle fabbriche…
Ma le scintille partono da dentro il regime stesso. Primo fra tutti, l’allora presidente della repubblica, Chadli Bendjedid, chiama dalla TV la gente a sollevarsi. Tante città del Paese sono messe a fuoco da bande di cittadini furiosi.
Davanti all’incapacità delle unità antisommossa della polizia a ripristinare l’ordine, l’esercito esce nelle strade e la repressione si fa spietata. I militari sparano: si parla di 500 o forse 800 morti. Migliaia i feriti, arresti e torture[2] .
Ci sono però tante stranezze nell’insurrezione del 1988
– Uno: l’onda coinvolge tutto il Nord, stranamente tranne la Cabilia, regione sempre pronta a scattare.
– Due: gli attivisti dei movimenti di sinistra, fra cui lo scrittore Kateb Yacine, sono arrestati la vigilia dell’inizio degli scontri[3]. Mentre gli integralisti del futuro Fonte Islamico della Salvezza (FIS) hanno tutta la libertà di organizzare una manifestazione durante il coprifuoco generale e di recuperare così a loro profitto la rabbia delle famiglie delle vittime, dei giovani insorti e dei numerosi arrestati e torturati.
Gli eventi segnano due grandi cambiamenti: La proclamazione della liberalizzazione della politica, ma soprattutto dell’economia, e l’entrata in campo degli islamisti come attori politici di primo piano.
Poco dopo, la Costituzione è cambiata e decine di nuovi partiti sono registrati. Ma la scena politica viene fin da subito quasi esclusivamente monopolizzata da uno scontro frontale tra i due grandi Fronti. Quello ancora al potere (FLN) e quello che ambisce a sostituirlo come nuovo partito unico (di Dio) cioè il FIS, il Fronte Islamico della Salvezza.
Il tutto finisce in un bagno di sangue, quando nel dicembre del 1991, il Fis stravince le prime elezioni legislative plurali della storia del Paese, dopo aver arraffato, qualche mese prima più del 70 % dei Comuni, ma l’esercito ferma il processo democratico perché – dicono… – la democrazia era in pericolo.
22 anni prima dell’Avenue Bourguiba e di Piazza Tahrir, il 5 ottobre 1988 nelle città dell’Algeria una insurrezione generale metteva fine al regno di un partito unico e apriva uno spiraglio di libertà e di democrazia.
[1] Un sistema di chiusura «soft»: la stampa era controllata ma non si arrestavano le persone per una opinione espressa in pubblico o cose del genere.
[2] « Cahier noir d’octobre ». Pubblicazione del Comité national contre la torture, ©1989.
[3] Abed Charef, Algérie ’88 Un chahut de gamins? Laphomic, Alger, 1990
Per gentile concessione dell’autore.
Karim Metref, nato nel 1967 in Algeria. Studi in scienze dell’educazione, insegnante di educazione artistica. Attivista per i diritti culturali degli Amazigh (berberi) e per i diritti democratici. In Italia dal 1998, collabora con vari enti come animatore e formatore in educazione alla pace, pedagogia interculturale e gestione nonviolenta dei conflitti. In parallelo, porta avanti un’attività di giornalista freelance e blogger. Ha pubblicato: Libri: Algeria tra autunni e primavere (Ed. Multimage, 2019), Tagliato per l’esilio. (Ed. Mangrovie 2008,); Caravan to Baghdad. (Ed. Mangrovie 2007); Documentari: … E il Tigri placido scorre… (70′ con Michelangelo Severgnini. Ed. Metissart/ Tdh-Italia. 2005, ); Il ritorno degli Aarch. ( 60′ con Michelangelo Severgnini). Ed. Metissart/Carta, 2002); Web doc: Lontano dai confini (Con Mauro Avarino, Renken, 2019 – https://lontanodaiconfini.info/)
Immagine di copertina: Foto di Marvin Collins.