CREATORI TZOTZIL DEL CHIAPAS: UN LAVORO DELLA E PER LA COMUNITÀ (XIMENA SOZA)

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di Ximena Soza

 

 

Juan Javier (Xun) Pérez e Alberto López sono due creatori indigeni del Chiapas, entrambi indigeni tzotzil, nativi della lingua tzotzil, cresciuti in diverse comunità dello stato messicano, il primo di Zinacantan e il secondo di Aldama. Il loro lavoro, rispettivamente nel cinema e nel design tessile, ha trasgredito lo spazio assegnato alle comunità indigene dalla società nazionale, che spesso limita i membri dei popoli nativi e la loro arte a vestigia della loro storia o interpretazioni folkloristiche, piuttosto che a un’espressione profonda di cosmovisioni millenarie. L’arte di questi due artisti non è fatta solo per gli occhi di chi li osserva da piattaforme nazionali e internazionali, ma è rivolta anche alle loro comunità, da cui queste espressioni nascono e da dove vengono coltivate da generazioni.

_MG_0908_2 (1)Xun Pérez, musicista e documentarista tzotzil, è riuscito a creare un mix artistico e culturale dei mondi in cui transita, la sua musica cantata nella sua lingua madre, tzotzil, ha influenze musicali tratte dai suoni tradizionali della sua terra e da elementi esterni come il rock. Anche nel suo lavoro di regista si può notare questo mix, vista la capacità di ritrarre con una videocamera molto di più di ciò che l’immagine riesce a catturare. Ci racconta del suo microdocumentario “Nichimal Son” (Musica che fiorisce) e del suo lungometraggio di prossima uscita “Vaychiletik” (Sogni) e della responsabilità sociale che sente come documentarista indigeno nel dare luce e validità alla sua cultura attraverso il suo obiettivo:

Le mie due opere hanno a che fare con le mie radici, vengo da una famiglia tradizionalista in cui la lingua e la cultura sono preservate, mio ​​padre è un musicista tradizionale e ha certe responsabilità all’interno della comunità, sono quindi cresciuto con queste tradizioni e tutto quello che ho vissuto cerco di catturarlo come regista audiovisuale. Lo considero molto importante perché è un’eredità che rimarrà per le generazioni future. Un documentario resta, anche se tutte le tradizioni finissero, resterebbe per i figli, i nipoti. Il mio lavoro non è fatto solo per le persone di fuori, ma anche per la comunità stessa, poiché entrambi i lavori sono fatti nella mia lingua madre.

Partendo dalla tua esperienza, cosa differenzia un documentarista indigeno da uno nazionale o bianco?

La differenza risiede, in parte, nello sguardo, poiché come regista indigeno ne posseggo uno molto più intimo rispetto a ciò che succede nella comunità. La cultura indigena è stata vista in modo romantico e anche semplificata. In generale, le è stato conferito uno sguardo antropologico e dall’interno posso mostrare un altro volto, dal momento che appartenere a questa cultura mi permette di essere vicino ai miei personaggi. Ad esempio, il mio lungometraggio Sogni parla dell’importanza dei sogni, della comunità, dei vari incarichi politici e mostra cosa c’è dietro le feste e tutto ciò che vediamo nei libri e nelle foto… la mia videocamera sa anche rispettare ciò che vede, la sua sacralità.

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Come regista indigeno, qual è la tua esperienza nel contesto di una società razzista?

Fare cinema in Messico è difficile, a maggior ragione in Chiapas e molto di più se sei indigeno. Abbiamo dovuto scontrarci con il mostro dell’industria cinematografica, che è un’élite che sta lassù e poi ci siamo noi, i registi indigeni quaggiù, in termini di risorse e possibilità. A volte, come cineasta indigeno, si subisce la discriminazione dalla società in generale e anche dalla comunità, poiché non è ben visto che si ritragga la propria cultura e si cerchi di mostrarla, sia a causa delle credenze che esistono nei confronti delle immagini, foto o video del proprio popolo, sia della visione che si ha degli indigeni da parte della società in generale, dove l’indigeno è visto come qualcosa di povero e con meno valore.

Qual è l’importanza che attribuisci al tuo lavoro?

Sento che è importante quando un lavoro è fatto col cuore, a partire dallo spirito nativo, dalla sua lingua che, nel mio caso, non è solo il filo conduttore, ma è anche il linguaggio che custodisce la saggezza. Ho visto pochi film in lingua madre, ne ho trovati alcuni in tzotzil, il che è un gran contributo, visto che avranno i sottotitoli e saranno comprensibili in più lingue, ma essendo in tzotzil restano comunque fatti per i popoli e non solo dal suo popolo nativo.

Qual è lo spazio che secondo te dovrebbe avere il cinema indigeno?

Dopo aver vissuto l’importante stagione del cinema d’oro, il Messico si merita un’altra di cinema indigeno per ritrarre le comunità, questo potrebbe dare un contributo sostanziale al mondo del cinema, offrire un’altra visione, si potrebbero raccontare le storie che non sono state mai raccontate. Ora sto girando Sogni, che racconta le tensioni di una famiglia che fa parte di una comunità. Parla dell’importanza dei sogni all’interno della cosmovisione indigena, ma in futuro vorrei concentrarmi su questioni di diritti umani, sfollamento, situazioni che accadono nelle comunità del Chiapas. Mi rendo conto che c’è molto lavoro da fare e per dare voce alle persone che vivono qui. Molti popoli sono in lotta, anche se a volte i conflitti delle comunità vengono mostrati non ci sono soluzioni, forse da un’altra prospettiva si può essere più sensibilizzati.

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Alberto López è un designer e tessitore tzotzil di Aldama, il suo ambito solitamente è curato solo da donne nella sua comunità, pertanto il suo lavoro ha dovuto rompere i pregiudizi della sua realtà e anche gli stereotipi installati da una società razzista e sessista.

Alberto ha iniziato a tessere qualche anno fa, dopo essere stato segretamente iniziato da sua madre, ma il suo lavoro è già stato riconosciuto a livello internazionale, essendo stato presentato lo scorso anno su alcune delle passerelle più importanti di New York. Ci racconta i suoi inizi e la significativa traiettoria che ha costruito negli ultimi due anni:

Volevo davvero imparare a tessere, ma non osavo, benchè non fare quello che davvero vuoi ti uccide dentro e non potevo sopportarlo. Mia madre si rese conto che c’era qualcosa che non andava in me e mi chiese “Cos’hai?” “Sei malato?” Finché non le dissi “voglio imparare a tessere”, sapevo che era difficile perché sono un uomo e nella mia comunità sono le donne a farlo. Anche se all’inizio era preoccupata per il lavoro nei campo che dovevamo fare, perché avevamo piantagioni di caffè e quello era uno dei compiti che mi spettava, mi rispose “sei mio figlio e ti voglio tanto bene, certo che ti insegno, sono qui per questo, per insegnarti.” Comprò i miei primi filati, sentii spuntarmi le ali. Le dissi che sarebbe stata orgogliosa di me e così ho imparato a tessere. Il mio primo lavoro è stato un centrotavola che ho venduto al mercato per 100 pesos messicani.

Com’è avvenuto il passaggio dal lavoro nei campo a quello di designer e tessitore?

All’inizio dividevo la mia giornata tra le piantagioni di caffè e il telaio, fino a quando decisi di andare a vivere a San Cristóbal de las Casas, dove il mio lavoro veniva pagato circa quattro volte di più. Arrivai così, senza niente, ero nervoso, a volte non avevo i soldi per comprare tortillas, ma sapevo che avrei fatto progressi con il mio lavoro, ho continuato ad avere fede. All’inizio ricevetti molte critiche e mi sono sentito discriminato per essere indigeno e uomo, ma ho anche trovato sostegno e in città ho iniziato a fare i primi passi, sono entrato a far parte del progetto Aula Pejel, dove lavoro con le mie colleghe e si realizzano opere di diverse comunità indigene del Chiapas. Ora con il mio lavoro riesco a dare impiego a molte persone nella mia comunità, più di 150, donne ma anche uomini. Dopo un po’, molte persone hanno iniziato a conoscere il mio lavoro, un giorno è arrivato un giornalista tedesco e l’intervista che realizzò divenne virale, poi hanno iniziato a chiamarmi da altri posti e grazie a questo ho ricevuto un invito per andare a New York.

Quale pensi sia stata la tua influenza nel cambiare la visione dei ruoli di genere nella tua comunità?

Quando lasciai la mia comunità e il mio lavoro cominciò a farsi conoscere, emerse che anche un altro uomo tesseva di nascosto, dopo la mia vicenda, infatti, diversi uomini hanno osato come me, hanno imparato ed ora per loro è una nuova fonte di sostentamento per le loro famiglie. Il mio lavoro ha anche impedito a molte persone di dover lasciare la propria comunità per motivi economici e di poter stare con le proprie famiglie mantenendo le proprie tradizioni.

Alberto Lopez Gomez por Ximena Soza

Quale pensi sia il messaggio che la tua esperienza e il tuo lavoro portano alle persone di altri territori?

Il mio lavoro mostra che tutte le persone hanno il diritto di fare ciò che le rende felici, di essere ciò che sono, che esiste un equilibrio tra i diritti individuali e le usanze dei popoli. Credo inoltre che il mio lavoro aiuti a mettere in primo piano la cultura, a dare rilevanza ai simboli, alla cosmovisione del mondo presente nei tessuti. Il mio lavoro aiuta a dare valore alla nostra cultura e consente anche ai miei colleghi di ricevere una retribuzione equa per il loro lavoro che non è solo tessere, ma anche mantenere i nostri valori e le nostre visioni come popolo indigeno.

Qual è la visione del futuro che hai per il tuo popolo e per il tuo lavoro?

Nel mio popolo abbiamo già iniziato a recuperare antichi motivi  e manteniamo aperta la ricerca, questo è un modo per far persistere le tradizioni in futuro. Spero anche che in seguito potremo avere più dibattiti su questioni di genere, diritti umani e giustizia. Continuerò a portare avanti il mio lavoro, perché mi sento responsabile della mia comunità e della mia cultura ed è una responsabilità che prendo molto sul serio.

 

 Ximena-Soza

Ximena Soza è un’educatrice, poetessa e artista cilena, attività accomunate dalla ricerca della giustizia sociale. La sua educazione formale l’ha svolta tra il Cile e gli Stati Uniti, dove ha conseguito un dottorato in Filosofie dell’educazione urbana, con particolare attenzione all’educazione antirazzista e al bilinguismo. La sua educazione informale invece proviene da vari luoghi dell’America Latina e dal contatto con diverse comunità. Vive tra la California e il Chiapas, realizzando progetti che riuniscono tutte le sue aree di interesse e sviluppa materiali didattici per l’apprendimento delle lingue indigene.

Foto all’interno dell’articolo a cura di Ximena Soza.

Immagine di copertina: Michelle Angela Ortiz, “Orgullo Otomi”, murale, 2018, Queretaro, Messico.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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