Attorno a senza governo, Raffaelli editore, Rimini, 2016
Lucia Cupertino
Immaginate una pianta confinata in un vaso. Immaginatela sul tavolo di un appartamento in pieno inverno e coi termosifoni accesi. Abbandonata e senza nessuno che si curi di lei. Questa è una delle immagini presenti all’interno della raccolta poetica senza governo di Roberta Sireno che più mi sembra emblematica per ricavare una radiografia dell’andamento della scrittura della poetessa modenese in questo suo secondo libro.
La raccolta prende il via trasmettendo un senso di sottrazione: del corpo, dell’essere e della stessa lingua poetica. Denutrimento: / tolgo il grasso tolgo il carboidrato tolgo un / filo di neve e scivolo: la memoria / è denutrizione. Si delinea sin dall’inizio e senza fronzoli uno scenario di assenza, di anoressia del senso delle cose e della storia, il presentimento di un naufragio di cui però non sono ancora chiari i contorni.
Già ben addentrati nella raccolta, scopriamo che aggiungere talvolta può condurre al suo opposto, alla bulimia dell’essere. un po’ vomitevole a notte fonda un po’ allegra aggiungo il trucco / da pompa funebre: / mortalmente spiffero la mancata rivoluzione mortalmente trascino. Il senso dello svuotamento interiore, del disorientamento è predominante in tutte le poesie riunite. I fianchi sbattono / ai ripieni alcolici. Tutto ciò che riempe la vita senza permanervi è causa di dolore, smarrimento, crisi.
Si tratta dell’effimero del sesso, della fame di qualcosa che neppure si sa bene cosa sia, ma che attrae in modo indotto perchè dettato dalla società, I segni sono evidenti negli atti quotidiani e nel modo di vivere ritratto nella raccolta (il palco era la mia grande ambizione – ma / linguisticamente amorfa mi faccio / priva di pienezza). L’effimero del desiderio sfalda e non costruisce nient’altro che una voragine esistenziale. al principio: puoi ruotare come dentro un / cerchio concentrico / pompando il grande sesso / pompando il vuoto, come poi anche leggiamo, stereotipato amore stereotipato strusciamento del grande niente: infranta / cerco la rivoluzione dentro / un crampo di ovaia.
Lo scoramento che se ne ricava reclude la voce poetica in un’urlare / sotto l’acqua, un’asfissia all’interno di un circolo vizioso invece che produrre uno sforzo per attivare una qualche reazione, cercare altra aria, altra linfa. Ne deriva quindi un senso di inadeguatezza, di stasi, di debolezza al quadrato: debolezza: debolezza / di animale che continuamente strappa i pezzi / di pelle cresciuti fuori dall’ano. La luce della voce poetica sembra obnubilarsi e le tracce sono evidenti. Lo stesso titolo della raccolta è in minuscolo, a segnare oltre al caos a cui rimanda anche la piccolezza di se stessi, l’incapacità di approdare ad una nuova tappa, la meschinità che si avverte. Così anche i versi s’infrangono in modo scomposto con andate a capo brusche, creando un ritmo della disarmonia, della febbre che non va via, dello sconcerto abissale.
Un male attanaglia i versi di Roberta Sireno, nel momento in cui passa dalla prima persona singolare al noi, si avverte che possa quindi trattarsi di quel riempimento, annullamento che ritroviamo segnare una parte dei giovani, nati nell’era del consumismo sfrenato che conduce all’autoconsunzione: siamo la terra che rumoreggia in uno sparo di corvi – il sogno / che si fa spettro – il panno rosso che copre / e c’era questo modo sbagliato di parlare – questo bianco malato / che mi porto dentro / che non è altro che cenere o ripetizione della notte – vecchia / allerta di chi dipinge il proprio tuffo finale. È la dichiarazione di una sconfitta, dell’impossibilità di immaginare altri scenari, lottare per costruirli. Questi giovani ritratti dalla Sirena paiono piuttosto dei vecchi con la pelle ancora liscia, ma la mente piena di rughe, imbevuta di visioni pessimiste, conservatrici, nichiliste. Quando la poetessa prefigura l’impotenza / del mio fallo poetico / a cui serve la prescrizione farmaceutica del viagratico viandante / fuoriuscito si rimane abbastanza allibiti, non tanto per l’immagine sessuale quanto per un dubbio che sorge e non si riesce a schiarire nella folta nebbia della scrittura della Sireno. Quella mascolinità acquisita e riprodotta cosa rappresenta? A mio avviso potrebbe indicare un modello societario che ci si dovrebbe scrollare in quanto capace solo di riprodurre gerarchie, mali, guerre, disuguaglianze ma che, come una cozza, aderisce ancora troppo alle nostre anime. Potrebbe anche riferirsi al rendersi conto che certa canonicità, certi sentieri obbligati delineati dalle cerchie letterarie non conducono a nient’altro che all’inazione, alla frustrazione di non essere all’altezza, al non percorrere i sentieri invece richiesti dal nostro tempo, svuotando i versi scritti assieme alla vita e perdendosi in fantasie nostalgiche o depressive.
Verso la parte finale dell’opera, inaspettatamente emerge il desiderio di rompere le frontiere, orientare l’essere senza governo verso una nuova identità. Nasce dall’infrazione di un comando: e la nonna morta con la collana dell’ave maria che mi ha detto: / stai ferma ragazzina stai dove devi stare – (ed io sto / a galoppo a precipizio sul mare). Quel possibile altro orizzonte appena si intravede nella poesia finale in cui si torna ad insistere sull’ummagine di una pianta, forse meno sola, forse più resistente. Ci auguriamo possa essere cifra di un nuovo avvio.
nel ritiro del cibo nella contrazione dell’osso: l’occhio su
bromelia: bromelia
spicca davanti alla finestra con il rosso spicca con la
mutilazione: bromelia
accompagna qualche notte: il ramo
e il vento che scuote
– bromelia
si affaccia sul grande spazio e il profumo
del ristabilimento
Immagine in rilievo a cura di Mario Islasáinz.