Monumento al Duca di Richelieu. Fotografia di Anna Golubovsky.
Articolo pubblicato in inglese nella rivista The Paris Review il 24 marzo 2022. Per gentile concessione dell’autore, traduzione italiana di Pina Piccolo. Foto per gentile concessione della fotografa Anna Golubovsky, alcune delle cui ultime opere saranno fruibili nella mostra organizzata dalla Fondazione Stelline a Milano, Corso Magenta 61, dal 14 al 31 luglio 2022, inaugurazione il 13 sera. Per approfondire il rapporto tra immagine e parola ad Odessa, leggere la serie di articoli apparsi in Doppiozero.
Questa storia ha inizio più di trent’anni fa, alla fine degli anni Ottanta. All’epoca molti poeti erano impiegati dai giornali di Odessa, molti dei quali versavano in condizioni difficili. Un editore viene invitato a parlare alla mia classe.
“Chi desidera scrivere per un giornale?”
L’aula si riempie di mani alzate.
“Chi desidera scrivere gratis per un giornale?”
È una mano sola ad alzarsi: la mia. Ho dodici anni.
Nell’affollato corridoio della sede del giornale incontro un vecchio con un bastone, Valentyn Moroz, leggendario poeta di lingua ucraina che s’imbatte spesso in problemi con i funzionari del partito sovietico. Sta leggendo Mandel’štam accanto a me, però non riesce a stare fermo, non ce la fa a leggere tranquillamente. Mentre legge una strofa mi apostrofa con voce tremante: “Hai sentito? Senti? Questo è Mandel’štam, quel figlio di puttana Mandel’štam, nessuno scrive meglio di questo figlio di puttana Mandel’štam. Lo conosci questo Mandel’štam?”
Rispondo di no.
Moroz si alza. Mi prende per mano e mi conduce fuori dall’edificio verso la stazione del tram più vicina. Recita poesie a memoria dalla sede alla stazione, e poi sul tram fino al suo appartamento.
Esco di lì con una borsa di libri e un biglietto scritto a mano che mi intima di non tornare la prossima settimana a meno che non abbia letto e memorizzato alcune delle poesie di Mandel’štam.
È così che inizia la mia educazione.
Nello stesso anno conosco Yevgeny Golubovsky, un leggendario giornalista di Odessa, che viene invitato a fare un intervento nella mia scuola. Moroz ci tiene a dirmi che Golubovsky è stato una delle prime persone a ricominciare a pubblicare Mandel’štam dopo l’ultimo arresto e la morte del poeta nel 1938, in un campo di transito verso i lavori forzati. Secondo un aneddoto tramandato negli anni, Nadezhda, la vedova del grande poeta, condivise con Golubovsky alcuni dei suoi versi inediti, dattiloscritti su una sottile cartina da sigaretta. Quando Golubovsky giurò che, contro tutte le regole allora in vigore, avrebbe trovato un modo per pubblicarli, Nadezhda ridacchiò e annuì incredula.
Eppure un modo lo trovò. Golubovsky è un uomo fatto di tale pasta.
La mia famiglia lascia Odessa nel 1993. Moroz muore nel 2019, ma io e Golubovsky rimaniamo in contatto. Alla fine di febbraio di quest’anno, quando la Russia invade l’Ucraina, la sua e-mail mi descrive sirene antiaeree e panico, quindi conclude: “Ma ora tutto è tranquillo. È una bella giornata estiva».
Anche questa è la pasta di cui è fatto Golubovsky.
Quando gli chiedo come posso essere d’aiuto, lui risponde: “Ah, non ho bisogno di niente”, e quando chiedo di nuovo cosa posso fare, mi manda un messaggio veloce: “I Putin vanno e vengono. Stiamo fondando una rivista letteraria. Mandaci poesie”.
Golubovsky inizia sempre qualcosa. Alcuni anni fa, invitò un gruppo di letterati di tutte le età a prendere il tè insieme, e questo fu l’inizio del gruppo Green Lamp, un incontro regolare di poeti e scrittori. “Considerato che si tratta di una città che ha solo duecentoventisette anni, Odessa è ancora relativamente giovane”, mi scrive.
Ma da più di duecento di questi anni la città appare nella cartografia letteraria del mondo e scrittori così diversi tra di loro come Lord Byron, Mark Twain e Pushkin hanno scritto di Odessa. Il bardo nazionale polacco, Adam Mickiewicz, visse e insegnò in questa città per alcuni anni, e ne scrisse. La leggendaria Anna Akhmatova nacque qui. All’inizio del XX secolo Odessa aveva già una sua tradizione letteraria, variegata e multilingue: Isaac Babel e Yuri Olesha scrivevano in russo, Yanovsky e Sosiura in ucraino, Sholem Aleichem in yiddish e così via.
Ora Golubovsky cammina per la città e vede dispositivi anticarro sparsi sull’acciottolato delle vie, sente esplosioni sopra la sua testa. Nelle sue mail insiste sia sull’importanza della memoria culturale che sulla necessità di nuove voci. Dietro suo suggerimento inizio una serie di interviste ai membri del gruppo culturale Green Lamp, e in questo articolo potete leggere le loro parole sulle prime settimane di questa guerra. “Non augurerei mai a nessuno”, scrive Golubovsky, ” l’esperienza di vivere la propria giornata al ritmo delle continue sirene dei raid aerei. Il dolore è vissuto dalla città e dall’Ucraina nel suo insieme ed è lì a trafiggere costantemente lo sterno dello scrittore”.
Elena Andreychykova
“E tu?”
Questa è la domanda con cui inizia ogni mattina. È sempre la stessa domanda che mi viene fatta e anch’io la faccio agli altri. Me la rivolgono i famigliari, gli amici, così come pure i colleghi, i conoscenti: le mie linee di difesa. Non riesco ancora a capire come possa essere vero: la guerra in Ucraina? Attaccata dalla Russia? Stanno bombardando le nostre città? Ho finito di scrivere il mio ultimo romanzo pochi giorni prima dell’inizio della guerra. La protagonista sogna la guerra, i suoi sogni influenzati dalle storie di sua nonna, che era stata prigioniera nel campo di Salaspils. Non ho ancora trovato la forza di rileggere il romanzo: provo ancora disgusto.
Un giorno troverò il coraggio di riscriverlo. Parlerò da testimone. Che paura quando si sentono urlare le sirene antiaeree presto la mattina di un normale giovedì. Spaventoso il fatto che continuavo a sorridere mentre facevo freneticamente le valigie, dando a vedere a mio figlio che non ero preoccupata. Terrificante che un magazzino sia esploso e bruciato davanti ai nostri occhi, a meno di duecento metri di distanza. Che abbiamo trascorso una notte circondati da barattoli di marmellata in una cantina per le patate a Odessa. Che mio nipote di tre anni, appena arrivato da Kharkiv, balbettava e piangeva. Che ero riluttante a decidere se dovessi restare con mio marito o andarmene per allontanare i bambini da tutto questo. Che abbiamo lasciato Odessa di notte: otto macchine, donne e bambini, cani e gatti. Per alcune di noi era la prima volta in assoluto al volante. Siamo state fermate a un posto di blocco: nessuna macchina poteva passare di notte. Improvvisamente sentimmo una donna della nostra carovana esclamare: “Conosco la parola d’ordine per passare! Mio marito me l’ha scritta prima di andare in guerra”.
Combattiamo una guerra dell’informazione tutta nostra. Ci svegliamo ogni mattina sperando che sia tutto finito. Che possiamo vivere, pianificare, scrivere di nuovo romanzi. Ma per ora, mando solo un messaggio a tutti: “E tu? Come stai?” Ricevere una risposta è l’unica cosa che conta.
Vladislava Ilinskaja
Dopo una settimana trascorsa in uno stato di torpore, sono uscita per le strade di Odessa per vedere i dispositivi anticarro e le barricate fatte di sacchi di sabbia che bloccavano i viali. Boutique e ristoranti sbarrati. Persone che giravano armate per le strade. Sto scrivendo questo messaggio in un taxi. Ci hanno appena fermati a un posto di blocco, siamo stati perquisiti. È spaventoso con che velocità mi sia abituata a questa vita.
La cosa più terrificante è il silenzio, quando sai che l’intero paese sta ribollendo in un brodo sanguinolento. La nostra gente è straordinaria: mai prima d’ora avevo visto tanta solidarietà e cura tra i vicini.
Una strana sensazione: come se non avessi vissuto prima di questo momento. Come se si fosse spaccato una specie di involucro esterno, un carapace che mi impediva di respirare in profondità. Non so cosa facevo prima della guerra. Non sono mai stata così consapevole che gli altri avessero bisogno di me, di essere coinvolta nella realtà.
PERSONE CHE RACCOLGONO SABBIA NEI SACCHI PER LE FORTIFICAZIONI. FOTOGRAFIA DI ANNA GOLUBOVSKY.
Vitya Brevis
La guerra è entrata nella mia vita a Leopoli. Ero lì in vacanza. Ho sentito l’urgenza di tornare a casa e ho preso il treno per fare ritorno. Non sono ancora del tutto sicura del motivo per cui mi sono diretta verso Odessa quando la maggior parte della gente stava lasciando la nostra città per Leopoli o per andare più a ovest, all’estero, e mettersi n salvo. È stato difficile farsi strada tra la folla della stazione di Leopoli. La gente aspettava i treni per il confine occidentale, e i treni erano in ritardo di cinque ore, sette ore; alcune persone dormivano sulle valigie e i bambini piangevano, proprio come fanno nei film di guerra.
Oggi è l’11 marzo, il sedicesimo giorno. A Odessa la guerra dei proiettili e delle bombe non è ancora iniziata a pieno regime, ma chi leggerà questo scritto lo farà più tardi, quindi ne saprà più di me ora che scrivo. Vi invidio.
All’inizio ho applicato nastro adesivo alle finestre, incrociandolo in modo che, anche se qualcosa fosse esploso nelle vicinanze, l’onda d’urto non avrebbe lasciato il mio intero appartamento coperto di schegge di vetro. Ho spostato un grande comò davanti alla finestra per una migliore protezione. Con il passare dei giorni, ci siamo abituati ad avere paura, quindi ho ri-spostato il comò contro il muro e ho staccato il nastro adesivo.
Altre città vengono bombardate, i missili esplodono e i soldati russi camminano per strada talvolta sparando alla gente del posto per puro divertimento. Chi lascia Odessa ora vede l’altro lato della guerra: bambini che piangono, trenta ore di attesa al confine moldavo, senza sapere dove vivere, dove fare la doccia o quando tornare a casa.
Abito al ventunesimo piano. Non c’è più nessuno qui intorno. Di otto appartamenti, solo uno ha ancora abitanti: il mio cane, il mio gatto e io. Quando sento l’urlo delle sirene, esco sul balcone per vedere se stanno arrivando dei missili.
Eugenio Demenok
Per molti anni ho diviso il mio tempo tra Praga e Odessa, ma quando è iniziata questa guerra la mia famiglia era in viaggio verso New York. Per alcuni giorni prima del nostro volo per Praga non ci siamo avventurati fuori dalla camera d’albergo se non per partecipare alle proteste. Passavamo tutto il tempo a scorrere le notizie e a chiamare i nostri amici e familiari.
Tornati a Praga, abbiamo scoperto che avremmo invece potuto essere più utili: la Repubblica Ceca ha già accolto più di duecentomila rifugiati ucraini. Trascorro le mie giornate tra il centro di integrazione dei rifugiati, la stazione ferroviaria e una residenza comunitaria per settantadue persone che i miei amici stanno costruendo a proprie spese.
Non riesco a scrivere nulla. Mi mancano le energie, il desiderio o il tempo per farlo ora. Sto procedendo con grande fatica nella stesura di un pezzo sulla corrispondenza tra Henry Miller e David Burliuk. Mi piacerebbe pubblicare per la prima volta alcune lettere di Miller in traduzione ucraina. Tuttavia le mie mattine iniziano con chiamate e lettere che chiedono aiuto, le mie giornate sono spese nel volontariato e quando sono libero è già notte fonda.
Vladislav Kitik
Un gabbiano, con le piume tutte gonfie, siede sul bordo del molo, il petto contro vento. Una forte esplosione sopra la baia interrompe la sua contemplazione dell’acqua grigia e apre le ali.
I gabbiani non sanno cosa sia la guerra, ma dopo sedici giorni sono riusciti a superare la loro confusione. Hanno imparato a non volare troppo lontano quando il cielo trema per le esplosioni di mine o le cannonate dell’artiglieria, e non si nascondono più quando sentono l’urlo delle sirene.
I gabbiani volano sopra le strade di Odessa, solitamente affollate e rumorose. Un raro pedone lascia impronte sulla neve incontaminata. In silenzio, i gradini della famosa Scalinata Potemkin si arrampicano sul pendio, sepolti in sacchi pieni di sabbia. Nascondono il monumento al fondatore della città, l’anima di bronzo di Odessa, dalla malizia dell’artiglieria. Ma i gabbiani amano la sabbia.
La strada è irta di dispositivi anticarro. Riusciranno a proteggerci dai missili moderni? Ovviamente no. Ma c’è qualcosa di teppista, arrogante, in queste croci a sei punte conosciute con il nome di ricci cechi, o cavalli di Frisia. Tali dispositivi erano stati disseminati qui nel 1941 e ora il tempo è saltato giù dalla pedana del passato.
Il gabbiano volteggia sopra le case e vola ancora una volta verso il mare.
Ganna Kostenko
Qualche giorno fa ho deciso di ascoltare il Secondo Concerto di Rachmaninov. Volevo stringermelo tra le mani come un ramo, per non scivolare nel fango appiccicoso dell’ostilità verso tutto ciò che è russo. Rachmaninov è innocente, non ha nulla a che fare con i crimini di Putin. Così come Goethe era innocente della follia di Hitler.
Ieri, durante un raid aereo, mi sono nascosta in un bagno, e ho capito con chiarezza che non voglio sprofondare nell’odio. Ho fatto una scelta per me stessa e sto cercando di attenermi ad essa. L’odio è il linguaggio dei miei nemici. È la fonte della loro forza. In quale altro modo spiegare i bombardamenti di asili nido, reparti maternità, ospedali?
Torno a Heine, che ha detto che ogni nuova epoca ha bisogno di un nuovo tipo di lettore, ha bisogno di nuovi occhi.
Victoria Koritnyanskaja
Cos’è la vita in tempo di guerra? È difficile per me scegliere la parola giusta, suppongo che la vita si sia ristretta ad alcune azioni molto banali: guardare il notiziario, comprare generi alimentari, cucinare cibo semplice, lavare i piatti. Cerco di leggere libri e anche di continuare a scrivere un articolo sugli artisti di Odessa in tempo di guerra, ma… ecco un pensiero: a cosa serve, se domani io, e Odessa, potremmo aver cessato di esistere? La guerra ruba il piacere della scrittura.
La guerra ruba molte cose. Anche una normale passeggiata in riva al mare è impossibile: la spiaggia di Luzanovka è stata minata in previsione dello sbarco russo. Odessa ora vive in un continuo stato di suspense, in attesa dei bombardamenti, degli attacchi aerei, degli attacchi chimici. Viviamo dentro le ore di attesa.
Questo senso di stranezza si ritrova ovunque: barricate fatte di sacchi di sabbia e blocchi di cemento quasi a ogni incrocio, volontari che distribuiscono pane e salsicce. C’è anche una certa stranezza nella neve che cade da tre giorni – gelo a Odessa, una città di villeggiatura, a marzo! – e nel coraggio della mia vicina, una donna di ottant’anni sopravvissuta alla guerra di Hitler, che ogni sera dice: “Bisogna lavarsi bene e mettersi vestiti nuovi, così se ti bombardano, sarai pulito…”
Nonostante tutto, sono convinta: ce la faremo. Perché in tutti i giardini davanti ai palazzi stanno sbocciando candidi bucaneve e violette, perché i piccioni tubano sul mio davanzale, perché siamo forti.
Non sono sicura della letteratura in questo momento, se qualcuno ne abbia bisogno … I miei saggi sulla seconda guerra mondiale, che ho scritto sulla base di interviste con testimoni oculari, non sono più rilevanti: abbiamo una guerra diversa, un’esperienza diversa. E gli altri miei scritti, le mie storie sugli angeli, ora sono troppo leggeri per essere adatti ai tempi. La lingua russa in cui scrivo non è più di moda. Penso che prima o poi ogni scrittore di Odessa dovrà affrontare la questione se scrivere in russo, solo per Odessa, o scrivere per l’intera Ucraina, in ucraino. Che scelta farò?
TEATRO DELL’OPERA DI ODESSA. FOTOGRAFIA DI ANNA GOLUBOVSKY.
Vadim Landa
Mia moglie ed io abbiamo lasciato Odessa per la Polonia. Un gruppo di amici, nove di noi, ammassati in uno scompartimento di treno progettato per quattro persone, si è recato a Leopoli. Dopodiché abbiamo cercato di attraversare il confine in macchina, ma le nostre vetture sono state fermate. Abbiamo camminato a piedi per un miglio nella neve e ci siamo fermati in mezzo a una folla enorme a cui le guardie di frontiera hanno dato il nome “coda per il checkpoint”. A un certo punto le guardie ci hanno lasciato e hanno concentrato la loro attenzione sui camion provenienti dall’altra parte del confine. Di tanto in tanto qualcuno tra la folla urlava: “Dottore!” Le vecchie svenivano. Infine, una guardia di frontiera ci ha fatto entrare nell’edificio. La folla ha invaso la sala vuota. Siamo rimasti lì per un’ora. Poi un’altra guardia ha urlato: “Correte nella sala accanto!” La folla si è riversata nella stanza accanto, solo per scoprire che adesso ci trovavamo dietro a coloro che prima erano dietro di noi tra la folla fuori. Le madri con bambini piccoli erano isteriche.
Un momento impossibile: una guardia di frontiera ha timbrato i nostri passaporti e siamo entrati in territorio polacco. Facendo finta di essere Babbo Natale l’ufficiale ha regalato a ogni bambino una caramella. Ma ci sono volute altre due ore per attraversare il confine polacco. Poi, un autobus diretto al centro informazioni. Un altro autobus per la stazione dei treni. Una seconda notte insonne, seduto sulle valigie nel corridoio di un treno affollato e in movimento. Abbiamo cercato di non guardarci allo specchio.
Infine, in Polonia, amici e volontari cercano di aiutarci, non l’hanno fatto per alcun interesse personale. Cosa ci riserverà il futuro? Chi oggi oserebbe rispondere a una domanda del genere?
Per quanto riguarda la scrittura: non sono in grado di leggere nulla tranne le notizie, quindi non chiedetemi di ciò che scrivo. Il mio atteggiamento verso la lingua russa non è cambiato. No, non parlo la lingua degli occupanti del mio paese. Sono loro che hanno rubato la mia lingua.
Marina Linda
In queste due settimane la mia vita è cambiata completamente: il mondo che conoscevo è diventato fragile come la pasta frolla. Ma le persone che avrebbero potuto essere deboli sono diventate forti come l’acciaio. Io stessa mi sono sentita per molti giorni come una specie di struttura di ferro su cui poggia l’intera casa, su cui poggiano i miei bambini spaventati, i miei gatti e tutto ciò che conosco, compresa la mia lucidità mentale.
Una strana sensazione: tutto ciò che mi circonda adesso è quello che leggevo una volta nei libri di guerra, pensando a quanto fosse bello vivere in un’altra epoca. Non vivo in un tempo diverso. Questo film è ora la vita della mia famiglia, la mia città. È un film molto mediocre. Quanto vorrei poter accendere le luci in questo teatro!
Anna Mihalevskaja
I gatti ululano nella notte, cercando di gridare a squarciagola per superare le sirene antiaeree. Trovo la bellezza nelle cose più strane: nei graffiti sui muri scrostati, in una strada tutta rotta in attesa di essere riasfaltata. Mi guardo intorno con avidità. Non so se rivedrò mai più questa o quella strada. Vedo foto di Kharkiv in rovina, foto di Kiyv bombardata. Tutto sta cambiando troppo velocemente. Se vuoi fare qualcosa, devi farlo subito.
Fare qualcosa, qualsiasi cosa ha la funzione di farmaco in questo momento. Quando riesco ad aiutare qualcuno, posso dimenticare la guerra. Penso che molte persone abbiano scoperto questa cosa.
La vita prebellica sembra già irreale e lontana. Era così piena. Non l’ho apprezzata abbastanza: sempre di corsa, nella ricerca affannosa di nuovi progetti. Non c’era mai abbastanza tempo per scambiare quattro chiacchiere. Ora si parla tanto, ma si tratta di una comunicazione tesa. In maniera crudele, questa situazione ci riporta a una maggiore vicinanza con il prossimo.
Nail Muratov
Odessa è cambiata in questi primi giorni di guerra? Sì. No. Ci sono code dai benzinai tanto lunghe da bloccare il traffico nelle strade, code di persone nei negozi che ripuliscono tutto dagli scaffali – cereali, zucchero, sale, fiammiferi – si tratta di una tempesta di movimento, di un formicaio umano che strappa la città dalla sua calma usuale.
Nonostante siano sorti posti di blocco le auto continuano a sfrecciare per le strade, ma ora in numero minore. I passanti continuano a essere impegnati nelle loro commissioni; i supermercati e alcune piccole bancarelle e chioschi continuano a restare aperti. Lunedì iniziano le lezioni nelle scuole e nelle università. Ma nessuno sa cosa accadrà dopo.
In tempo di guerra, la scrittura va male. Ma cosa si può fare? La mente si rifiuta di dare un senso a ciò che sta accadendo.
Alcune persone se ne sono andate e quelle che rimangono hanno trovato maggiore unità. Mia madre di novantadue anni è tornata un paio di giorni fa dal negozio e nella sua borsa della spesa c’erano diversi barattoli di conserva che le erano stati regalati da donne che non conosceva.
Taya Naidenko
Il primo giorno di guerra, la gente a Kharkiv, a Kiyv, a Leopoli, le persone di lingua russa o bilingue per prime, hanno iniziato a parlare in massa l’ucraino.
Alcuni si sono già “arresi” e sono tornati a parlare il loro consueto russo. Dapprima lo facevano premettendo una sorta di giustificazione: “Per essere compresi da tutti i nemici russi” – e poi senza alcun preambolo, rinunciando a fornire razionalizzazioni. Quando, in tutta fretta, tra un raid aereo e l’altro, cerchi di articolare pensieri e sentimenti, involontariamente torni al linguaggio con cui sei abituato a pensare fin dall’infanzia. Altri mantengono il loro giuramento – mai più una parola in russo! – e penso che rimarranno rigorosamente di lingua ucraina anche dopo la guerra.
L’invasione russa ha mostrato quale fonte di conflitto possono essere le parole, perfino le più comuni. Alcuni temerari, compresi quelli di altri paesi, mi accusano di ingenuità: “Dopo la guerra potrebbero vietare di parlare russo in Ucraina!” Ma ricordo loro: dire quello che si pensa in lingua russa è vietato solo nella Russia di Putin.
Anna Streminskaja
Una città che sta preparando la propria difesa non dà la migliore impressione di sé. Non si può passare per le vie del centro città senza ostacoli: ovunque ci sono dispositivi anticarro, sacchi di sabbia, gabbioni metallici.
Diverse volte al giorno si sentono sirene antiaeree e alcuni quartieri sono sprovvisti di rifugi. Accompagno la mia mamma ottantacinquenne in bagno, l’unico posto della sua casa dove sia possibile trovare una specie di riparo.
In tutto questo, gli odessiti non stanno perdendo il senso dell’umorismo. Appesi ai muri della città ci sono mega striscioni che consigliano ai soldati russi di fare quello che gli ucraini della vicina Snake Island avevano notoriamente suggerito ai militari di una nave da guerra russa di fare. In tempo di guerra, si possono perdonare le parolacce, alleviano lo stress.
Le persone fanno volontariato ovunque, assemblando sacchi di sabbia in riva al mare. “Sei un odessita”, dice la canzone, “e questo significa che non ti spaventano né il dolore né la sfortuna!”
Ho scritto diverse poesie sulla guerra. Chi scrive poesia dovrebbe essere una corda vibrante di violino che risponde a tutto ciò che accade intorno a sé. Seguo ciò che scrivono i miei amici poeti, e il livello della loro poesia si è alzato: la loro lingua è diventata molto precisa, forte.
Non ci sono parole né giustificazioni per ciò che l’esercito russo sta facendo in Ucraina, a Kharkiv, a Mariupol’, in altre città. Tuttavia, il compito della poesia è trovare le parole anche quando non ce ne sono.
Traduzione inglese dal russo e dall’ucraino di Ilya Kaminsky, Katie Farris, Natalia Baryshnikova, Louis Train, Anastasia Diatlova, NK e Yohanca Delgado. Traduzione dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo