Come schiavi in Libertà – Invito alla lettura

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Come schiavi in libertà

Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana

di Raùl Zecca CastelPrima e Quarta di Copertina

Prefazione di Fabrizio Lorusso

Editore Arcoiris, 2015

 

Junior ha 23 anni. È scappato da Haiti, la sua terra natale, quando ne aveva appena 17, in fuga dalla violenza delle bande armate che ancora oggi si spartiscono i quartieri periferici di Croix-des-Bouquets. È partito nel buio della notte, senza farne parola con nessuno. Nemmeno la madre ne sapeva niente. Da quando è giunto nella Repubblica Dominicana ha sempre lavorato nelle piantagioni di canna da zucchero che ricoprono l’est del paese, ma quando telefona a casa dice ancora che lavora nell’edilizia: “non posso dire che taglio la canna…è un lavoro brutto…mi vergogno…”.

José aveva un sogno: diventare giornalista. Voleva raccontare la verità in un paese come Haiti, dove persino con la menzogna si ha poco da guadagnare. Poi, il 12 gennaio 2010, la terra si è ribellata: “ero a Port-au-Prince quando ci fu il terremoto…in strada tutto divenne scuro per due o tre minuti…pensai: che succede?! Dio mio! Era una catastrofe…tutti urlavano…tutto il paese urlava…anche la mia scuola crollò…così decisi di andarmene oltre il confine, nella Repubblica Dominicana”. Accantonata la passione per lo studio e il giornalismo, José ha impugnato un machete e ogni giorno ingaggia la sua battaglia personale con le canne da zucchero.

Yani è una giovane donna arrivata da Haiti insieme al marito. Per qualche tempo ha lavorato come domestica, ma ben presto ha cominciato ad accusare seri problemi di salute, così ora si dedica alla cura dei suoi cinque figli. Sopravvivere con il solo salario del marito, bracciante nelle piantagioni di canna da zucchero, è difficile, quasi impossibile. Per questo il figlio maggiore, di soli 14 anni, ha deciso di aiutare il padre nel lavoro dei campi. Per lui il futuro è già scritto.

Charles non ci pensava nemmeno a lasciare il suo paese, Haiti. La vita era dura, certo, ma un lavoro lo aveva, anche se umile. Coltivava legumi e così manteneva la famiglia. Poi, un giorno, la polizia lo prese e lo portò al di là del confine, a tagliare canna da zucchero: “stavo lavorando vicino alla frontiera, seminando fagioli in un orto, la pattuglia mi prese a forza e mi mandò qui…era il 1987…ora sono circa 25 anni che sono qui…”. Della moglie e dei quattro figli rimasti oltre il confine non ha più avuto notizie.

Junior, José, Yani e Charles sono solo alcuni degli schiavi in libertà che ho conosciuto e intervistato. Uomini e donne fuggiti, trafficati o più semplicemente emigrati da Haiti, il paese più povero e sventurato del continente americano, alla vicina Repubblica Dominicana, il luogo che nell’immaginario di molti haitiani rappresenta una sorta di terra promessa dove trovare un lavoro dignitoso e un futuro migliore. La realtà, tuttavia, è ben diversa e il destino della maggior parte dei nuovi arrivati si consuma tra le sterminate piantagioni di canna da zucchero del paese, in condizioni non troppo diverse da quelle dei loro antenati schiavi.

Stipati in vere e proprie baracche prive di acqua corrente, energia elettrica e servizi igienici, rannicchiati a terra o impilati su improbabili letti a castello, tormentati da topi, ragni e zanzare virulente, migliaia di migranti haitiani trascorrono notti infami prima di riversarsi sui campi che circondano i bateyes – le comunità agricole – e dedicarsi a uno dei lavori più duri e pericolosi che si conoscano.

Le giornate nelle piantagioni sono interminabili: come lancette impazzite di un orologio fermo a due secoli fa, i colpi di machete segnano il ritmo del tempo vibrando nell’aria per ore intere, mai meno di dieci. La fatica aggredisce i muscoli delle gambe, della schiena, delle braccia e la fame, lentamente, divora lo stomaco. L’intero corpo gronda sudore sotto un sole implacabile che non dà tregua, eppure i lavoratori non si fermano mai perché la paga, formalmente, è a cottimo: più si taglia e più si guadagna. “Più si taglia e più si guadagna, più si taglia e più si guadagna”. È come un mantra che i lavoratori si ripetono ossessivamente tra un fendente e l’altro, ma nessuno ci crede fino in fondo, perché i conti non tornano mai e ognuno guadagna a malapena per sopravvivere un giorno in più, un altro giorno tra le piantagioni, un altro giorno lontano da casa; un altro giorno come schiavi.

Noi qui siamo come schiavi in libertà”, mi disse una sera Junior abbozzando una sorta di sorriso consapevolmente malinconico. Voleva dire che nessuna catena imprigiona le caviglie dei braccianti, che non ci sono fruste che richiamano al lavoro nei campi né recinti di filo spinato o perfidi caporali con la vocazione della crudeltà, ma voleva anche dire che nonostante ciò, nei bateyes, nessuno può sentirsi libero e tanto meno esserlo, poiché di fatto nessuno può abbandonare le piantagioni, soprattutto quando si ha un conto in debito al negozio degli alimentari e non si ha documento.

Così, svanita l’illusione di prosperità e ricchezza e svanito il sogno di poter tornare dai propri affetti rimasti in patria, bateyes e piantagioni si rivelano per quello che sono: nient’altro che prigioni a cielo aperto, ghetti di sofferenza e miseria dove migliaia di uomini e donne, tra sfruttamento, fame e soprusi d’ogni sorta, trascinano penosamente le loro esistenze come una colpa da espiare.

Ma è sul sudore e la fatica di queste genti oppresse che un pugno di imprenditori senza scrupoli ha potuto erigere la propria fortuna economica, arrivando a spartirsi un giro d’affari milionario. D’altronde, “lo zucchero sarebbe troppo caro se non si facesse coltivare la pianta che lo produce agli schiavi”, aveva già notato a suo tempo Montesquieu. Parole terribili, eppure terribilmente attuali.

Questo libro è il risultato di oltre quattro mesi di ricerca spesi sul campo, tra i braccianti di decine di bateyes dell’est dominicano. Grazie alle testimonianze che i lavoratori e le loro famiglie hanno voluto affidarmi ho cercato di dare voce alla schiera anonima dei migranti che popolano queste terre di nessuno nel tentativo di tracciare un racconto collettivo che partisse dal gradino più basso della scala sociale. Attraverso le tessere di questa narrazione polifonica, per sua natura frammentaria, disorganica e talvolta contraddittoria, ho provato a documentare una realtà tanto drammatica quanto ignota. Se l’analisi etnografica è il metodo che sta alla base di “Come schiavi in libertà”, la denuncia ne è il suo risvolto sociale e politico più necessario e tangibile.

 

 

Raul ZeccaRcRaùl Zecca Castel (1985) è antropologo, videomaker e traduttore. Ha collaborato alla realizzazione di numerosi documentari socio-antropologici viaggiando in Bolivia, Perù, Guatemala, Brasile e India. Nella Repubblica Dominicana ha trascorso oltre cinque mesi di ricerca, dedicandosi allo studio delle condizioni di vita e di lavoro di braccianti haitiani.

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Foto di copertina e dell’autore a cura di Raùl Zecca Castel.

 

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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