Come lo spazio dell’effimero diviene luogo del permanente – Matilde Sciarrino intervista Mia Lecomte

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  1. Considerata la Sua intensa e ricca attività in diversi ambiti è opportuno iniziare chiedendole qual è il filo rosso che lega le Sue diverse forme espressive e quale di queste Lei predilige, se è il caso.

 

Guardando indietro, alle risposte che nel tempo mi sono trovata a fornire a domande come la sua, mi sono accorta della mia ripetuta insistenza nel precisare soprattutto quello che NON sono, che non posso essere: non una fotografa – mi mancano tecnica e strumenti; non una regista né un’attrice – assolutamente non possiedo il mestiere; di certo non un’accademica – sono priva di rigore, e anche di pazienza –; non un’autrice di narrativa – non mi appartengono durata, un certo passo, la coerenza; e neanche una poetessa, in questo caso perché credo che in generale non lo si possa essere… in maniera continuativa, assoluta. È un disgraziato stato di grazia che non può essere posseduto, non appartiene: decide a tratti di sfiorarci – lei, me, lui, loro – e passa.

Il filo rosso di cui lei parla, quindi, forse è proprio quello del dilettantismo, certezza in me sempre presente ad alimentare una modestia sincera e ossessiva. E che forse è anche un alibi per non sentirmi costretta a fare davvero sul serio nel mondo dei grandi, per continuare a permettermi il meraviglioso “facciamo che io ero” dei giochi dell’infanzia.

 

  1. Facendo una carrellata di tutta la sua produzione poetica a partire dalle prime raccolta è interessante soffermarsi ad analizzarne i titoli: … Geometrie reversibili, Litania del perduto, Autobiografie non vissute, Terra di risulta, Intanto il tempo e, infine, Al museo delle relazioni interrotte. Da questi titoli emerge una grande attenzione verso lo spazio, verso luoghi fisici che diventano luoghi poetici. Ciascuna lirica dell’ultima raccolta riporta fra parentesi, sotto il titolo, il luogo in cui, come sottolinea Lei stessa in una nota introduttiva, si è ‘acceso lo spunto’: Parigi, Viareggio, Lugano, in treno fra Parigi e Londra, in aereo fra Zurigo e Lugano. Com’è che questi luoghi interni ed esterni, città, mura (Controluce), stanze che racchiudono mondi (Terraqueo), luoghi degli incontri e dei non incontri, dell’osservazione e della riflessione, diventano poesia? In altre parole, com’è che lo spazio del momento ‘effimero’ (l’aggettivo è Suo) diventa il luogo del permanente?

Effimero e permanente, appunto. Quella che si intende comunemente come “realtà” non è per me altro che “lo spunto”, il punto di partenza, o meglio un pretesto. Tutto l’abitare, la cartografia esistenziale che mi appartiene si riposiziona nella poesia. Le immagini musicali con cui vado costruendo i miei versi sono l’unico territorio per me realmente abitabile, il luogo di una cittadinanza possibile. Ma non credo di dire una cosa granché originale, né legata in particolar modo al mio percorso poetico più o meno transnazionale. La tensione verso un ipotetico, forse originario assoluto, una copletezza lontana dalla precarietà del reale, è la ragione ultima di ogni espressione artistica.

 

  1. Anche la casa, come struttura e come focolare domestico, è un topos ricorrente nelle Sue liriche. In Diorama, sempre nella raccolta Al museo delle relazioni interrotte (Lietocolle, 2016), si legge di una casa posta fra due città. In Darkroom della raccolta Intanto il tempo (La Vita Felice, 2012), la stanza è nera e piena di corpi morti stretti l’un l’altro. Le case, le stanze, in generale i suoi luoghi, sono spazi dell’incontro o della separazione, del conflitto o della riconciliazione?

 

Il tema della casa è ricorrente nei miei testi. E spesso si tratta, infatti, di spazi domestici, famigliari, che si fanno però teatro di inquietudini sfasate, surreali, dove la realtà è sempre altra da sé. Sono stanze, case, con coordinate spazio-temporali stravolte, in cui i riferimenti “esterni” seguono logiche alterate, in chiave più o meno ironica. Ma quello della casa è anche il tema privilegiato della poesia transnazionale in generale, tanto che su di esso è costruito l’ultimo spettacolo della Compagnia delle poete – La casa fuori – dove la casa è intesa soprattutto come un luogo di transito, non-luogo di dis/appartenenza. La casa perennemente in costruzione che partecipa di un’incessante decostruzione: quella della nostra vicenda privata e collettiva, esistenziale e di specie; lungo le piccole storie che compongono, nel tempo, la Storia. Case sempre “fuori”, altre da sé, simbolo di frontiere mobili, identità plurime che si collocano al confine delle geografie, dei destini, dei sentimenti. Case che sono corpi, organismi in mutazione, cellule in cui si combinano all’infinito relazioni e conflitti.

  1. Un altro elemento che connota le sue liriche è il tema del tempo, del suo inesorabile scorrere, la sua irreversibilità, che Lei affronta ora con leggerezza e ironia (A Love Story) accettando di invecchiare, ora in modo freddo e angosciante come nella lirica Time Capsules in cui l’esistenza degli individui viene racchiusa in capsule del tempo da conservare per i posteri, che fa pensare ad una sorta di archeologia del futuro.

La mia penultima raccolta si intitolava Intanto il tempo proprio ad indicare il costante scorrimento del tempo lungo lo svolgersi della nostra esistenza. Il tempo che, come un corso d’acqua, ci rumoreggia accanto mentre tutto il resto succede. C’è una specie di scollamento fra la vita – che come dicevo segue traiettorie non codificabili – e il passaggio del tempo, ineluttabile e indifferente. L’unico anello di congiunzione è proprio quell’ “intanto”, sospeso fra noi e il mondo, che ci aggancia alla storia, alla morte.

 

  1. La Compagnia delle poete (compagniadellepoete.com), a cui accennava, nata su Sua iniziativa nel 2009, è un’esperienza unica di contaminazione e compenetrazione di generi, di intreccio fra poesia e teatro in primo luogo, ma anche musica, danza e arti visive. Come avviene la preparazione e la realizzazione di uno spettacolo che si basa sulla polifonia di voci? Viene concertata fra le poete-attrici una ben precisa messa in scena o solo un canovaccio che fa sì che ogni spettacolo sia un vero e proprio happening, un’azione teatrale originale?

Gli spettacoli della Compagnia nascono per tappe, a strati. C’è innanzitutto il copione, di cui mi occupo personalmente. Come studiosa di poesia transnazionale italofona, ho in archivio tutta la produzione delle poete della Compagnia e ad essa attingo per la composizione del testo. A volte, come nel caso degli ultimi due spettacoli – Novunque e La casa fuori – i testi vengono scritti a tema, appositamente per la scena, e dunque la scelta è più circoscritta. I criteri con cui costruisco il copione sono vari, eminentemente teatrali, e c’è un legame tenace a reggere l’impalcatura dei versi e a tenerli uniti fra loro come un corpo unico. Dopo il copione inizia la collaborazione con i musicisti per quelle parti musicali che sono ancora parte integrante della tessitura poetica. E poi c’è il lavoro corale di regia ­– delicato e complesso, lo abbiamo imparato strada facendo –, che entra anche nel merito della recitazione, e a volte della stessa scrittura dei testi. Le scenografie sono opera di amici artisti che ci vengono via via affiancando, come Janine Von Thungen, Cristina Gentile o Cesare Oliva… La sfida consiste anche nel fatto che gli spettacoli devono essere modulari – le venti poete della Compagnia non sono mai tutte in scena, si alternano a seconda delle occasioni – e dunque dev’essere tutto fluido, malleabile, in questo senso, in effetti, ai confini dell’happening.

 

  1. Lo spettacolo Novunque propone delle originali interpretazione di alcuni fra i più famosi personaggi femminili delle favole, che, alla luce degli epiloghi della loro vicenda personale, sembrano voler tornare indietro nel tempo per riscriverla, come accade alla Sua Cenerentola, che corre felice a piedi scalzi e non desidera affatto essere ritrovata dal principe. Chi sono oggi Cappuccetto rosso, la Bella Addormentata, Gretel, solo per citare alcune delle vostre eroine?

 

Sono delle bambine non cresciute e dunque ancora libere di essere. Bambine scalze, senza principi, che vanno a braccetto con i lupi, non vogliono dormire né ritrovare alcuna strada di casa… Non c’è nessuna polemica in questo spettacolo, né rivendicazione di genere o ruolo. Ma c’è invece molta ironia, tutta quella necessaria a restare bambine, appunto, nei corpi delle donne che siamo ineluttabilmente diventate.

 

  1. Nelle Sue poesie e nelle vostre messe in scena ricorrono spesso i termini confine, soglia e frontiera. Frontiera è il luogo della separazione, è il muro che erge confini; la soglia, invece, è lo spazio dell’incontro, dell’attraversamento. E sembra che Lei e le altre poete vi muoviate in uno spazio comune in cui confluiscono singole storie da diverse parti del mondo, uno spazio che è una soglia. Verso dove vi affacciate voi che, come scrive Melita Richter, vi sentite « a casa nel mondo »?

 

Il confine e la soglia si sovrappongono, coincidono. Il confine spinge automaticamente a cercare di guardare “oltre”, individuare una strategia per superarlo, e nello stesso tempo è un luogo neutro, una zona franca sulla quale stare, per potersi contemporaneamente affacciare su orizzonti diversi senza sentirsi coinvolti; la soglia è più dichiaratamente un confine accogliente che, nel libero movimento di attraversamento, sottolinea l’entrata, l’inclusione. La frontiera invece, al contrario, presume una deliberata volontà di contenimento. Sulla frontiera non si è liberi di stare, forti della sola certezza dell’umanità che tutti ci accomuna. La frontiera non può essere attraversata che a determinate condizioni, è fatta per spartire lo spazio e impedire l’altrove. È un espediente della paura, e dei privilegi, per fermare il cammino.

Credo che nei testi delle poete della Compagnia, negli spettacoli, queste distinzioni siano evidenti. E che si facciano “sentire” anche in virtù del plurilinguismo, che alimenta l’italofonia di ciascuna di noi e incarna le ragioni più profonde dell’idea di confine/soglia e frontiera. I motivi infatti per cui uno scrittore, un poeta, decide di esprimersi in una lingua “altra” – per limitarci alla letteratura – sono radicati nell’intreccio polifonico dei suoi movimenti interiori, oltre che nelle geografie della sua biografia personale, hanno a che fare con il destino musicale delle sue parole più autentiche.

 

 

  1. Nella prefazione all’antologia poetica Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere, 2006) da Lei curata, Lei auspica « un confronto fattivo fra scrittori migranti e autoctoni – i viaggiatori immobili – per poter trarre reciproco giovamento nella pratica poetica con uno svecchiamento e rinvigorimento dei risultati ». A distanza di più di dieci anni, Lei ritiene che questo percorso sia stato realizzato? Qual è lo scenario attuale che si presenta allo studioso che vuole comprendere la presenza di autori di madrelingua non italiana? Si è consolidata una poetica della migrazione che va al di là del dato autobiografico?

 

Purtroppo questo confronto-incontro è ancora lontano. La produzione letteraria transnazionale italofona, al di là dell’attenzione dedicatagli da alcuni studiosi, continua ad essere ignorata dall’establishment accademico e dagli scrittori e poeti italiani. È un problema che risale addirittura agli anni Sessanta, come spiego dettagliatamente in un saggio in uscita a gennaio presso l’editore Franco Cesati – rielaborazione della tesi di dottorato che ho discusso il dicembre scorso alla Sorbonne Nouvelle-Paris 3 – dal titolo Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960-2016). Il problema va comunque inquadrato in un’ottica più ampia di quella dello scontato provincialismo nostrano. L’apocalisse – e uso questo termine in un’accezione molto ampia, e non soltanto negativa – che ci sta travolgendo, riguarda tutti gli ambiti della nostra esistenza, e i tempi per metabolizzare gli inevitabili rivolgimenti sono lunghi e difficili. Gli sconvolgimenti vanno accompagnati, ed è anche per questo che con alcuni amici studiosi e scrittori abbiamo appena fondato a Parigi LINGUAFRANCA. Agence littéraire transnationale, un’agenzia letteraria – che si occupa di editing/traduzione, promozione, organizzazione di festival, incontri, atelier… – dedicata appunto ai nuovi orizzonti aperti dalla transnazionalità e dal plurilinguismo.

 

 

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Mia Lecomte è nata nel 1966 e attualmente vive tra Roma e Parigi. Poeta, autrice di narrativa, di testi per l’infanzia e di teatro, tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: le sillogi poetiche Terra di risulta (La Vita Felice 2009), Intanto il tempo (La Vita Felice 2012) e Al museo delle relazioni interrotte(Lietocolle 2016); la raccolta di racconti Cronache da un’impossibilità (Quarup 2015); e il libro per bambiniL’Altracittà (Sinnos 2010). Le sue poesie sono state pubblicate all’estero e in Italia in numerose riviste, e in raccolte antologiche, e nel 2012, a Toronto, presso Guernica Editions, è uscita la sua antologia bilingue For the Maintenance of Landscape. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della comparatistica, e in particolare della letteratura transnazionale italofona: è curatrice delle antologie Ai confini dei verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere 2006), Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano (Éditions Chemins de tr@verse 2011) e con Luigi Bonaffini A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy (Legas 2011). È redattrice del semestrale di poesia comparata «Semicerchio» e di alcune riviste letterarie online, fra cui il trimestrale di letteratura della migrazione «El Ghibli», e collabora all’edizione italiana de «Le Monde Diplomatique». È ideatrice e membro della Compagnia delle poete (http://www.compagniadellapoete.com/).

 

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Matilde Sciarrino: Nata nel 1961 a Marsala, consegue la laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’università degli Studi di Palermo nel 1984. Da allora e fino al 2004 insegna ininterrottamente inglese presso diversi licei, prima in Lombardia e poi nella sua città natale. Nel 2004 inizia a lavorare come lettrice di lingua italiana presso istituzioni accademiche straniere su nomina del Ministero degli Affari Esteri italiano: dal 2004 al 2007 presso l’Accademia degli Studi Superiori di Tripoli (Libia), dal 2007 al 2009 presso l’Università di Amman (Giordania) dove ha anche diretto l’Ufficio Culturale della locale Ambasciata d’Italia. Nel 2009 consegue il Master di II livello per l’insegnamento della lingua italiana agli stranieri presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 2011 al 2015 ha ricoperto l’incarico di lettore presso l’Università del Saarland (Germania) dove attualmente svolge un dottorato di ricerca sull’opera di Gëzim Hajdari.

 

 

 

 

 

Foto dell’intervistatrice e dell’autrice a cura  di Mia Lecomte e Matilde Sciarrino.

Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.

 

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Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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