Vorrei gridartelo negli occhi,
sconosciuto fratello che mi siedi accanto
nel tubo d’ombra e latta che sbuffa
in un anonimo ingorgo stradale:
come abbiamo potuto permettere tutto questo?
Come abbiamo potuto lasciare che l’ossigeno allegro
fosse crivellato da molteplici veleni e ora umiliato e ferito
lacrima particelle funeree nei nostri polmoni?
Dimmi sorella d’ebano che allatti orgogliosa il tuo Futuro
su un treno appannato d’aliti e illusioni,
come abbiamo potuto lasciare soffocare i mari e i fiumi
che ora rantolano e ci uccidono pesce a pesce
imbottito di esche di plastica varia?
Dimmi sorella come abbiamo potuto seccare il tuo latte
con le trivelle del petrolio che ammanta, occulta e violenta?
Come abbiamo potuto prosciugare le tue lacrime
vaste come il Lago Vittoria?
E tu sorella andina di mais erano le tue pepite
e le sue pannocchie forgiavi
con le dita nella caldera del sole.
E noi a oro e petrolio decretiamo il diritto di vivere
e il dovere di morire per consentirci di sopravvivere.
Certo che abbiamo potuto e abbiamo goduto
immagati dal potere del telecomando, voglio, comando,
esigo: più luccichii, più cavalli nel motore, più autografi sulla pelle,
più metri quadri, più armadi ricolmi!
Al comando di abili orchestrali con vanga
e zappa in mano ci siamo scavati la fossa.
Ora a buco profondo ci sobbalza qualche timido dubbio
mentre svogliati continuiamo a scavare.
Spezzare il manico del nostro amato attrezzo
contro un tronco forte e paziente
sarà l’unico atto di tentata sopravvivenza.
Il problema è iniziare perché è facile
rompersi le nocche delle dita mentre gli altri
a testa china continuano a scavare.
Saltato il guado di fango si scioglieranno
dolori e ansie, sofferenze e tremori.
Allora potremo cavalcare l’onda oceanica
delle bouganville riarse di viola,
sudati abbeverarci nell’ampolla carnale
di oleandro marino sfatto ai venti di grecale,
nutrirci dello slancio di un glicine
che ci sfiora la nuca e ci incoraggia l’audacia
e vivere fino all’imbrunire
con la tachicardia del ciclamino in amore.