Club Silencio, a cura di Emanuela Cocco

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Club Silencio

Nota dell’editore: A maggio 2022 uscirà per Edizioni Arcoiris Club Silencio, il secondo volume della collana Trema (a cura di Emanuela Cocco)thumbnail_club silencio cover 2 arancio (1) che ha come elemento conduttore (liberamente declinato da ogni autore) il film Mulholland Drive di David Lynch e il tema del deragliamento identitario, del doppio, della deformazione della narrazione. Tra gli autori: Flavio Sciolè, Paolo Gamerro, Nadia Busato, Luciano Funetta, Elena Giorgiana Mirabelli, Alfredo Zucchi, Daniele Colantonio, Marco Malvestio, Michele Orti Manara, Francesco Quaranta, Livio Santoro, Giulia Sara Miori, Marco Lupo, Emiliano Ereddia. Ospite di letteratura straniera: Kianny N. Antigua, tradotta da Barbara Stizzoli.

La copertina è a cura di Claudia D’Angelo, le illustrazioni sono di Cristiano Baricelli e Sergio Caruso, la prefazione è di Luca Pantarotto, la postfazione è di Marco Tagliaferri.

 

Perdersi nella scatola blu

 

 

 

No hay banda! There is no band! Il n’est pas de orquestra! This is all… a tape-recording. No hay banda! And yet we hear a band. If we want to hear a clarinette… listen. Un trombon “à coulisse”. Un trombon “con sordina”. Sient le son du trombon in sourdine. Hear le son… and mute it… drop it. It’s all recorded. No hay banda! It’s all a tape. Il n’est pas de orquestra. It is… an illusion!

(Mulholland Drive)

 

 

È difficile ricordare un film che abbia saputo generare una mole di interpretazioni, discussioni, dibattiti, analisi critiche, liti e chissà, forse anche duelli, più imponente di quella prodotta nell’arco di due decenni da Mulholland Drive di David Lynch.

E tanto più difficile se proviamo, con uno sforzo di immaginazione, a proiettare sull’epoca pre-digitale le modalità di ricezione che oggi il chiacchiericcio mediatico è solito riservare abitualmente a film di ben minore complessità, puntualmente dissezionati, anatomizzati, scomposti in ogni più piccolo frame, smontati, rimontati e rielaborati con assillante puntigliosità per lo spazio frenetico di due o tre giorni, e poi lasciati ricadere nell’oblio della noia una volta raggiunto il limite di saturazione. Che in genere sopraggiunge appena un nuovo, imperdibile prodotto di intrattenimento arriva a occupare il suo turno nello spazio pubblico di un’attenzione condivisa sempre più fugace.

All’inizio del Ventunesimo secolo però il concetto di “viralità” era ancora di là da venire e per guardare un film si aveva a disposizione una finestra temporale di un paio di settimane al massimo, dopo la quale si poteva solo aspettarne l’uscita in dvd parecchi mesi dopo. In un contesto del genere, assistere per la prima volta al dipanarsi di una macchina narrativa enigmatica, sfuggente e ingannatrice come quella che sorregge Mulholland Drive voleva dire passare le settimane e i mesi successivi a interrogarsi sul significato di una scena o di un dettaglio, ricostruire nella memoria l’effettiva concatenazione degli eventi, districarsi in un labirinto di falsi ricordi e impressioni ambigue, simbolismi e trabocchetti, e, in assenza di interlocutori diretti tra le proprie conoscenze, spigolare nei forum online alla ricerca di altri monomaniaci con cui confrontare idee e chiavi di lettura.

Forse è anche per questo che Mulholland Drive ha potuto affondare le proprie radici così in profondità nell’inconscio del tempo. Al pari di Twin Peaks, che lo precede di appena una decina d’anni, il film si trasforma fin da subito, per lo spettatore, in un’esperienza quasi mistica, un’ossessione, il tentativo impossibile eppure ostinato di sondare un mistero apparentemente indecifrabile, di svelare i segreti custoditi in una scatola blu che a ogni nuovo tentativo di forzatura resiste facendosi sempre più inconoscibile. È questa stessa resistenza a dare alla storia il tempo di sedimentare, di moltiplicare gli strati di significato, di porsi, in prospettiva, come uno dei più perfetti momenti inaugurali di un nuovo millennio che proprio nella frammentazione del senso, nell’ambiguità delle linee di soglia, nello sfumare di confini certi e definizioni chiare era destinato a riconoscere i propri tratti più caratteristici.

Presentato a Cannes il 16 maggio 2001 e distribuito ufficialmente nei cinema americani ed europei tra l’ottobre di quello stesso anno e i primi mesi del successivo (in Italia arriva il 15 febbraio), Mulholland Drive si ritrova infatti fatalmente a scavalcare la prima e più clamorosa frattura della nostra epoca, l’autentico punto di avvio della darkest timeline di cui ancora oggi siamo involontari abitanti. Proprio tra quelle due date si manifesta il nuovo tramonto dell’Occidente: il crollo delle Torri, lo sgretolarsi istantaneo di ogni pretesa novecentesca di controllo razionale sul divenire storico, di predominio sull’esistente, il fallimento di ogni possibile distinzione tra vero e falso, bene e male, sogno e veglia.

A un certo punto succede che la storia esce di strada, come l’auto su cui viaggia Rita all’inizio del film, e nello schianto perde tutta la sua consistenza e affidabilità. Come Rita, anche noi l’abbiamo scampata, ma scambiando la nostra sopravvivenza con una rinnovata, straniante consapevolezza. Di nuovo in piedi, scopriamo che ciò che abbiamo sempre creduto di essere non è ciò che siamo davvero; che la nostra identità, ossia ciò che più di intrinsecamente inalterabile pensiamo di avere, può dissolversi da un momento all’altro in nebbia, fumo, pioggerellina, polvere, cenere. Che non c’è nessun velo di Maya, perché Maya non ci prova neanche più a camuffare la realtà con l’illusione: entrambe, alla fine, non sono altro che riflessi speculari di una stessa immagine, ugualmente ingannevoli e sovrapponibili.

Se la promessa del nuovo secolo è il disorientamento cognitivo, allora David Lynch ne è l’alfiere e Mulholland Drive il manifesto.

Eppure ogni mistero contiene in sé la chiave per la propria soluzione. E in questo caso particolare, per venire a capo di quella che Lynch gioca a presentare, ammiccando nella tagline, come “una storia d’amore nella città dei sogni”, si tratta di una chiave blu, che apre una scatola blu. È lo stesso Lynch a sottolinearne l’importanza, in un biglietto che acclude all’edizione di Mulholland Drive in dvd rilasciata nel 2002 per preparare lo spettatore alla visione fornendogli dieci dritte utili a venire a capo del “thriller”, come lo definisce stavolta (e quella delle etichette applicate al film è un’altra delle infinite scatole cinesi con cui Lynch si diverte a confonderci). Qui, tra generiche raccomandazioni a prestare attenzione a paralumi, indumenti, località, posacenere e tazze di caffè, in almeno un punto si fa cenno con precisione a un luogo specifico, quello in cui, letteralmente, ogni sipario verrà sollevato: il Club Silencio. Tramite un indizio in forma di triplice domanda (“What is felt, realized and gathered at the Club Silencio?”), Lynch ci invita a tenere alta la guardia, annotando tutto ciò che proveremo, percepiremo e raccoglieremo una volta entrati nella dimensione sospesa di quel locale.

E quindi eccoci, sulla strada che conduce all’ingresso. Un vicolo, più che una strada. Uno scorcio di cemento circonfuso di una strana foschia virata al blu, in cui mulinellano nel cuore della notte rifiuti e cartacce portate dal vento. Una ripresa statica, dal basso, che però subito si anima in un movimento di macchina via via più deciso, affrettato, lanciato verso le porte del locale come per paura di restarne chiuso fuori. E già qui: lanciato da chi? Chi sta manovrando la telecamera? Di chi è lo sguardo che guida il nostro? Non di Betty né di Rita, che anzi abbiamo appena il tempo di intravedere proprio di fronte a noi, di spalle, mentre varcano la soglia. Ma è solo un attimo e siamo già dentro. Il Club è un modesto teatro, soffitti a volta, poltrone di banale velluto rosso, pochi spettatori. Sul palco, un arcigno presentatore, gli occhi bassi, il volto luciferino corrucciato. Lo conosciamo come “il Mago” e sta per dare inizio allo spettacolo.

La scena che si svolge nei minuti successivi è probabilmente la più famosa dell’intero film, di sicuro la più ipnotica. Soprattutto, nel suo presentarsi come consapevole dichiarazione di poetica, è forse anche la vera via d’accesso al segreto più profondo nascosto al cuore di Mulholland Drive: il disvelamento della realtà come creazione fittizia, come messinscena a cui lo spettatore è chiamato a credere nel momento stesso in cui gliene viene palesata la totale illusorietà. Che si applichi al cinema o alla vita non importa, il meccanismo che crea l’illusione è sempre lo stesso: un’elaboratissima manipolazione mentale che agisce sulla zona limbica della nostra percezione, confondendo e mischiando piani e livelli, alterando i sensi, organizzando la nostra lettura di fatti ed eventi intorno a princìpi che ci assicuriamo di ritenere solidi e fermi, finché l’incantesimo non svanisce e l’apparato scenografico rivela il trucco dietro la recita.

Con gesti enfatici, da consumato istrione, il Mago evoca sul palco sonorità prodotte da strumenti musicali invisibili, che si diffondono per il teatro proprio mentre lui proclama: no hay banda! Non c’è nessuna orchestra, nulla sta generando quelle architetture di suono, tutto è registrato e può essere controllato a piacimento: aumentato, diminuito, distorto, sfasato, interrotto all’improvviso. Nulla sta davvero accadendo, è tutto un’illusione. Il trombettista in abito bianco che avanza fuori dal sipario suonando il suo strumento, e il suono non cessa quando le labbra si staccano dal bocchino. La cantante Rebekah Del Rio, che cade a terra svenuta durante un’intensa interpretazione a cappella di Llorando senza che musica e voce smettano per questo di riprodurre la canzone. Persino il Mago, che svanisce in una dissolvenza bluastra poco dopo aver provocato lo scoppio di un tuono all’interno del teatro.

La musica che il pubblico crede di udire nel silenzio del Club Silencio, o le azioni che crede di vedere rappresentate in scena, sanciscono l’assoluta impostura del senso, la frattura insanabile tra esperienza e conoscenza. Con Mulholland Drive Lynch non si limita a rovesciare l’immagine di Hollywood, realizzando una versione più oscura e inquietante di Sunset Boulevard cinquant’anni dopo Billy Wilder e smascherando l’incubo celato dietro il pericoloso luccichio della fabbrica dei sogni. L’intenzione è ben più ambiziosa e penetra fino alla natura più profonda dell’immaginario, concepito come dispositivo creatore di realtà ma anche come strumento per decodificare le sue stesse creazioni.

Come il Mago con le certezze del suo pubblico, Lynch si propone di decostruire il nostro sistema cognitivo, mostrarne l’inadeguatezza, l’incapacità di distinguere con efficacia tra realtà e apparenza, di concepirle per quello che sono, cioè piani permeabili e anzi interscambiabili. E come il pubblico al cospetto del Mago, persino quando la macchina della performance mostra la nudità dei suoi ingranaggi ci ritroviamo privi di ogni bussola, in preda allo smarrimento e al tremore che conseguono al crollo del sipario. Perché se è vero che i sensi sono inattendibili, nondimeno del tutto vere e concrete sono le reazioni che l’esperienza sensoriale provoca: paura, angoscia, tremiti, turbamento, disorientamento.

Il segreto delle storie: la capacità di dare vita a una sospensione dell’incredulità tanto potente da non disinnescarsi nemmeno di fronte alla propria smentita. Di più: tanto potente che, nello scontro tra finzione e realtà, svelandosi la prima a crollare è la seconda.

Il Club Silencio è la scatola blu. Al pari di quella che Betty Helms si ritrova in borsa al termine della performance del Mago, guardarci dentro significa accettare il rischio di deragliare, deponendo al di qua della soglia tutto il nostro inutile armamentario di codici, strategie e difese per lasciarsi precipitare nell’ignoto di una nuova forma di conoscenza – che, per paradosso, può benissimo identificarsi con l’impossibilità di conoscere. E quando il Mago inizia a proclamare la sua verità è ormai troppo tardi per lasciare la sala.

La raccolta che avete tra le mani nasce proprio lì, di fronte al palco del Club. Quattrodici racconti a cui corrispondono altrettanti tentativi di proseguire lo spettacolo iniziato dal Mago di Mulholland Drive, ingegnandosi per sviluppare le suggestioni lynchiane e dare voce a nuovi timori e tremori, indagare nuovi limiti, restituire la frammentarietà di un’esistenza che oggi, vent’anni dopo, ci appare ancor più inafferrabile di allora.

Di questi quattordici racconti, tre in particolare si distinguono per la scelta, foriera di esiti degni di nota, di lavorare sulle attrezzature tecniche che in alcune circostanze attivano materialmente i meccanismi di creazione delle storie. Una scelta che comporta, di necessità, un ampliamento e un aggiornamento della tecnologia di cui si serve al Club Silencio il Mago (limitata all’evocazione di luci e suoni come motori dell’illusione), per portarla a ricomprendere strumenti diversi e dalle potenzialità narrative più ampie. Sono i testi di Luciano Funetta, Nadia Busato e Francesco Quaranta, nei quali il compito di dare origine all’artificio spetta rispettivamente alla fotografia, all’intelligenza artificiale e agli algoritmi di programmazione e che si possono quasi leggere come una sorta di trilogia ideale interna alla raccolta.

Più di tutti, è Qualsiasi luce di Funetta a richiamare alla mente il movimento di macchina che dà inizio alla sequenza del Club Silencio, quell’istante in cui lo spettatore è indotto a chiedersi fin dal primo frame chi ci sia dietro a quello che non è più uno sguardo oggettivo, ma chiaramente una telecamera in azione; a chiedersi, cioè, chi stia dirigendo lo spettacolo a cui ci ritroviamo ad assistere. La storia di Juliska Vessey, enigmatica artista performativa forse collegata alla sparizione di Anna R., svanita nel nulla venticinque anni prima all’età di tre anni, viene seguita e ricostruita dalla voce narrante (anonima: chi sta parlando?) attraverso una serie di fotografie, inviate a cadenza irregolare a una casella di posta, che la ritraggono, sempre da sola, in vari contesti e situazioni, dal quotidiano al grottesco al morboso all’inquietante. Nessuno sa chi scatti quelle foto, né chi le invii all’archivio destinato a conservarle. Le mail che le accompagnano non hanno testo né oggetto, “il mittente è una sequenza binaria”. L’immagine crea la storia, ma mantiene celato il proprio segreto.

Se Funetta si propone di confondere la linea di demarcazione che separa evidenza e invenzione, vita e morte, in Anomalia. Tachipsichia. Catatonia Nadia Busato prende invece le mosse da un fatto di cronaca per ribaltarla. Nel 2019, durante un processo per uxoricidio in Florida, per la prima volta nella storia un tribunale chiama sul banco dei testimoni Alexa, l’assistente virtuale di Amazon Echo: la macchina viene chiamata a ripristinare la verità in contrapposizione al racconto umano. Oltre a fornire lo spunto per un gioco narrativo che avrebbe posto un dilemma interessante a Isaac Asimov nella formulazione delle sue tre leggi della robotica, l’episodio consente a Busato di estendere il concetto di “testimonianza” in un senso ben più complesso di quello previsto dagli scopi dell’ordinamento giudiziario. L’identità che ostentiamo è un inganno, la dimensione digitale lo alimenta e lo usa contro di noi. Il dispositivo crea la storia e rivela il segreto.

Ipotetica sintesi di questo percorso tematico, Teotl di Francesco Quaranta porta il deragliamento identitario al suo estremo limite, lavorando sulla teoria della realtà simulata e intrecciandola abilmente con una sottotrama relativa alla simulazione dell’individualità e alla disforia di genere del protagonista. Nella lingua azteca nahuatl la parola Teotl significa “dio”, e in un certo senso si può dire che nel racconto di Quaranta un dio ci sia: forse non gioca a dadi con l’universo come quello di Einstein, ma di sicuro si diverte a scrivere linee di codice su una tastiera. E se il misterioso Teotl è parente del suo quasi omonimo Thot, che gli Egizi veneravano come dio della magia e della scrittura, dell’alfabeto e dei numeri (e quindi, diremmo oggi, pure degli algoritmi), nel testo di Quaranta la magia è scoperta, ben pensata e ben rappresentata sulla pagina. La macchina crea la storia e insieme anche il segreto, che prima nasconde e poi rivela.

Anche La voce di Elena Giorgiana Mirabelli in un certo senso fa riferimento a una tecnologia in grado di attivare la sospensione della credulità. Una tecnologia primitiva, che peraltro rende possibile buona parte della performance del Mago di Lynch e che, da sola, riesce persino ad annullare l’abisso che separa vivi e morti: la parola, l’unica cosa davvero autentica nell’esperienza sensibile, l’unica che può dare sostanza concreta all’immateriale, come fa con “le storie che vibrano nell’aria, diventano solide e poi si incastrano fra le vertebre e la gola”.

Più in generale al concetto di identità come finzione narrativa si richiamano i racconti di Marco Malvestio, Michele Orti Manara e Flavio Sciolè. In tutti e tre i casi i protagonisti ci si presentano quasi come “autori in cerca di personaggio”, figure che non hanno ancora ben capito quale direzione dare alla propria storia e quale interpretazione rivendicare per il proprio ruolo all’interno di essa.

In Un buon appetito di Malvestio ritorna tra l’altro, in parte, il tema dello spazio digitale come palcoscenico privilegiato in cui allestire la costruzione fallace del sé. Padova, una mattina come tante, un adolescente in dialogo con la nonna. Un dialogo che contrappone la pienezza di aneddoti di vita vissuta di cui è ricco il passato dell’anziana, tra periodi trascorsi in paesi stranieri e frequentazioni con celebrità, e la povertà di significato che caratterizza il presente del giovane, all’apparenza noioso e dimesso, invisibile agli altri e “così privo di eventi da sembrare un sogno”. Il sogno di un fantasma, forse, come quelli rappresentati dalle immagini che costruiamo sui social (ma “Se già io non so chi sono, come faccio a sapere cosa voglio costruire?”). O di un potenziale mostro, come quelli che un’accorta dissimulazione della propria identità ci impedisce di riconoscere.

Dal racconto al diario, continuiamo a seguire la traccia dei mostri con Stigma di Sciolè: un racconto corale, se possiamo definire così un coro composto da un’unica voce divisa in molteplici personalità. L’espediente del manoscritto ritrovato si fa documentazione di una deriva identitaria ricostruita in presa diretta, in cui la voce narrante è al tempo stesso protagonista e vittima inconsapevole della sua stessa storia.

Più ambiguo e sfuggente di entrambi, il protagonista di Un segreto o due di Orti Manara sembra uscito da un romanzo di Jonathan Ames. Qui lo scarto tra narrato e percepito passa attraverso vari livelli di rivelazione, dettagli fondamentali accennati ma non contestualizzati, suggestioni trattenute, lasciate a insinuarsi nella subcoscienza del lettore. Come se la vicenda a cui assistiamo fosse solo la facciata precaria eretta dalla voce narrante per impedirsi di raccontare la sua vera storia, che malgrado ciò preme qua e là per liberarsi, tra le righe, come piccole ebollizioni di consapevolezza da sotto il coperchio di una pentola a pressione. E sarà senz’altro un caso, o forse no, che l’ora in cui inizia il racconto, le 2.22 di notte, corrisponda anche al numero dell’ultimo episodio di Twin Peaks – chi l’ha visto capirà.

Nel filone lynchiano del doppio, del doppelgänger, della copia e della sostituzione rientrano poi i testi di Daniele Colantonio, Paolo Gamerro, Livio Santoro – e forse, in un’ottica diversa, anche quello di Marco Lupo. Tutti racconti che mescolano, in quantità diverse e con diversi gradi di allucinazione, il concetto di inafferrabilità del reale con la dimensione incerta del sogno, del weird, della memoria che si fa anch’essa scatola blu, insieme contenitore di storie e innesco di domande senza risposta.

Nigredo di Colantonio e Latte di Gamerro, che per combinazione si collocano, nei titoli, ai due lati opposti dello spettro cromatico, sono anche quelli che spingono più in là il confine del disorientamento.

Nel caso di Colantonio assistiamo alla decomposizione onirica dell’esperienza individuale nella pietra filosofale della pura psicosi (in alchimia la nigredo è appunto lo stadio iniziale della creazione della pietra). L’atmosfera iniziale un po’ alla Fight Club si dissolve subito in uno sdoppiamento di tipo differente, in cui il sogno si sovrappone alla realtà rendendo impossibile, anzi inutile, ogni distinzione. Unico dato autentico, l’atto stesso di narrare, persino più inevitabile di quello di esistere: “Sapete, certe cose strisciano e prima o poi te le trovi tra i piedi a mangiarti l’ombra, tanto vale lasciarle passare”.

Dal nero al bianco, ma non dall’oscurità alla luce: quello che ci attende con Gamerro è il bianco del latte, ma anche dei fantasmi. Di uno in particolare, Maura, proiettato dalla mente del protagonista su ogni situazione, ogni volto, in una progressione di auto-annullamento a cui si sacrifica tutto: la linearità della storia, la concatenazione degli eventi, persino i confini tra i corpi e le menti.

Tutt’altra atmosfera in Via di Porta Latina, dove Livio Santoro mette in scena una vera e propria fantasmagoria del weird-nonsense, con il tema del doppelgänger che prende la forma surreale di golem nati per partenogenesi dalla materia nasale degli automobilisti fermi in coda ai semafori, in un crescendo di gore ad accompagnare il lettore fino allo straniamento finale. Ad aumentare il clima perturbante del racconto anche l’uso elaborato della lingua, un lessico aulico ed elevato, intessuto di termini desueti ed espressioni arcaiche, come un’invasione degli ultracorpi raccontata da un poeta arcade.

E Marco Lupo? Il suo testo trova posto tra i racconti del doppio in un modo peculiare. Qui lo sdoppiamento dei personaggi non si manifesta in una frattura tra vita e morte, sogno e realtà, vero e verosimile, ma in quella distanza temporale talvolta insuperabile che lega tra loro e insieme separa i membri lontani di una stessa linea genealogica. Figlie di Novosibirsk si presenta già dal titolo come una storia plurale, ridotta a unità nella figura di Lyudmila, nuovo anello di una catena di esistenze che arriva a lei partendo dalla nonna, fatta prigioniera e torturata in un gulag russo decenni prima e autrice di un diario che, di nuovo, attiva la macchina del racconto, moltiplicando identità e intrecciando punti di vista.

Con questa tipologia di storie intreccia un dialogo tutto suo anche Gioco di bambole di Kianny N. Antigua, autrice dominicana scelta, nella tradizione di Trema, per arricchire con la propria voce la varia esibizione di turbamenti e straniamenti organizzata sul palco del nostro personale Club Silencio. Lo fa con un piccolo idillio oscuro sulle proiezioni infantili, il decorso di un legame psicotico tra una bambina abbandonata dalla madre e le sue Barbie. A conferma del fatto che, a volte, giocare con le bambole può essere altrettanto pericoloso che giocare con le fiabe.

Ci sono poi due racconti che affrontano la suggestione lynchiana del transfert intendendola in senso etimologico, come trasferimento in luoghi altri: L’albergo di Giulia Sara Miori e Questo è l’unico modo di Alfredo Zucchi. Due testi che, con soluzioni diverse, trasportano personaggi e lettore in spazi alieni, dominati dalla perdita di ogni punto cardinale. Un viaggio in treno per Miori, uno stato di guerra totale per Zucchi: sono le porte, oniriche o kafkiane, per un Oltre in cui perde significato ogni presunzione di controllo su una realtà resa improvvisamente straniante e respingente.

Infine Emiliano Ereddia, che fa parte per se stesso: Doppio doppler è prima di tutto suono e poi testo. Monologo serratissimo e affannato, privo di punteggiatura e di pause, va letto ad alta voce per cadenzarne il ritmo, seguirne le rime interne, gli echi e i richiami che costituiscono l’architettura della narrazione, che anzi la creano nel loro procedere sillaba dopo sillaba. È il racconto del crollo, l’esplosione della parola come strumento di ordine, la scomposizione dell’identità catturata nel momento stesso del trauma, “nell’ondeggiare di un mondo che era qua davanti a me e adesso non c’è più, e del mondo che è di là e che ondeggia pure lui”.

Questo è lo spettacolo che ci attende nel Club Silencio, una grande scatola blu dal contenuto oscuro, un vaso di Pandora pronto a sovvertire il mondo di chi lo aprirà, sprofondandoci dentro. Certo, per aprirlo servirà una chiave e forse in questi racconti troveremo anche quella. Aguzziamo le orecchie: prima o poi sentiremo senz’altro una musica provenire da qualche parte, anche se non ci sarà nessuna orchestra a suonarla.

O magari sì. Chi può dire cosa sia vero e cosa falso, al Club Silencio?

 

 

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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