“Dipingo le cose come le si vede qui in America, non Le Corbusier”.
Nel parlare recentemente con Adriano Valeri, artista italo-americano classe 1987, mi sono tornate alla mente queste parole di Roy Lichtenstein che, chiamato a giustificare i suoi soggetti, ne spiegava la scelta con una motivazione democratica e realista: dipingo cosa vedo più frequentemente, ovvero ciò che la realtà offre quotidianamente al mio sguardo.
Similmente, Valeri mi ha parlato dei suoi cani, animali domestici ma anche randagi, e degli scarti tecnologici che tende, quando possibile, a dipingere in scala 1:1, al fine di creare un luogo esperienziale familiare per il suo osservatore. Nei dipinti dell’artista si riconosce facilmente una parte di mondo, quello periferico, vacante della figura umana e delle sue cure, tipico di molte zone suburbane delle nostre città, dove si ritrovano abbandonati oggetti, materiali generici e scarti che l’uomo non vuole con sé e di cui si libera senza alcuna preoccupazione.
Dal 13 dicembre al 1 febbraio 2018 Adriano Valeri espone alla Galleria Marcolini di Forlì 12 opere, alcune inedite, che sono state allestite quasi seguendo un metodo filosofico di rimandi dal particolare al generale – quadri di grandi dimensioni (140 x 160 cm) si alternano con ritmica regolarità a quadri di piccole dimensioni (38 x 38 cm), che spronano l’occhio del visitatore a selezionare analiticamente dettagli, come bottiglie o buste di plastica, take-away cup o chewing gum gettate per terra.
L’allestimento rispecchia quella che è la procedura di lavoro di Valeri: il pittore parte da singoli elementi che fanno da àncora, come lui stesso afferma, per poi metterli in relazione con altri, al fine di dar forma al contesto ed avere così una visione generale. Una volta attuato tale metodo induttivo, l’artista ritorna sui primi soggetti e li rielabora, aggiungendo o sottraendo specifiche a seconda del caso.
La mostra, dal titolo Cladonia Rapida, comprende anche tre opere di Piero Gilardi (Torino, 1942), con cui si è voluto far dialogare i quadri di Valeri, e, in questo modo, mettere in evidenza la dimensione referenziale (a volte inconsapevole) del lavoro di un giovane artista, con uno stile e una ricerca personale ben distinti, ma che “cita” i suoi maestri e le sue figure di riferimento, allo stesso modo della realtà personale di cui fa continuamente esperienza.
Nella pittura dell’artista residente a New York rivivono l’ingens sylva di Rousseau, i colori psichedelici di Hockney e gli animali psicologici di Alice Neel, che rivelano la propria anima attraverso espressioni e mimica. Così come si intravedono affinità con i lavori di artisti a Valeri più strettamente contemporanei, ad esempio le fotografie suburbane di Gina Nero, i cui enormi banani ricadono su povere abitazioni verniciate di rosa acido, o i quadri di Herman Bas, che ricorre spesso a un uso impressionista di pattern decorativi.
Il titolo della mostra è una citazione da Primo Levi: Cladonia Rapida è uno dei racconti all’interno del volume “Storie Naturali”, nel quale lo scrittore si inventa di un lichene intelligente che attacca le automobili e che trattiene la memoria dei percorsi passati interferendo con la guida.
Il riferimento all’azione del trattenere calza a pennello: questa, infatti, la si può intendere anche nel suo sinonimo di accumulare – non solo come pratica allestitiva, ma anche come atteggiamento psichico, che da sempre caratterizza l’arte, dalle Wunderkammer seicentesche alle esposizioni enciclopediche di stampo illuminista, dai saloon ottocenteschi, fino ad arrivare alle fiere contemporanee. Un accumulo che nel frame narrativo delle opere di Valeri è visibile in potenza: il pittore dipinge scarti, oggetti di cui l’uomo si libera e che finiranno poi per accumularsi in discariche improvvisate. Questi sono destinati ad aumentare esponenzialmente a seguito di un’indisciplinata ed allarmante indifferenza ambientale dell’uomo “urbano”, succube ipnotizzato del fenomeno del “gettare e comprare”, altrimenti detto “affluenza”, per cui si desiderano sempre oggetti nuovi, nonostante quelli che si possiedano siano ancora funzionanti.
Nel mettere in scena una tale situazione tipica dei nostri giorni, e nel farlo con l’atteggiamento di colui che, essendo immerso nel suo presente, non ha, volente o nolente, uno sguardo critico – attuabile, invece, solo con il senno di poi, a una certa distanza dall’evento che si vuole giudicare – Valeri è artista contemporaneo.
È invece – ancora – post-moderna (così come per la maggior parte dell’arte contemporanea) la sua visione anti-dualista (o post-dualista) di natura e cultura, di res extensa e res cogitans, due sezioni di spazio che, inizialmente pensate separate, in Valeri si comprendono e, a volte, compenetrano perché sofferenti azioni reciproche.
Di “co-esistenze” antigerarchiche nella Weltanshauung visiva dell’artista italo-americano ne esistono molte: elementi forzatamente bidimensionali insieme ad altri vividamente tridimensionali, tubi di gomma che, simili a bisce, strisciano tra il sotto e il sopra del terreno o sporte di plastica dalla solidità liquefatta; fredde superfici di elettrodomestici, non invitanti al tatto, e morbide pelurie di cani da accarezzare; caldi toni acquarellati e acide tonalità anti-mimetiche del reale organico.
Un elemento spesso presente nei quadri di Valeri, che il pittore dipinge allo stesso modo, quasi a erigerlo a sua cifra stilistica, è il terreno, quasi sempre arido, disidratato, crepato, in costante bisogno d’acqua, da cui spuntano ciuffi di erba, cespugli o piante più rigogliose. I suoi triangoli neri di forma irregolare riprendono il pattern del fil di ferro che delimita una ipotetica proprietà privata, disegnando un perimetro di spazio ridotto in cui dipinge i soggetti principali del quadro.
A buon ragione Roberto Farneti, direttore della Galleria Marcolini, ha parlato di “micro-luoghi”, porzioni di spazio delimitato, così come quello dentro alle teche di Piero Gilardi.
In Valeri il piccolo, però, affianca sempre un macro, un esteso, a volte strabordante, suggerito dalla natura difficilmente domabile.
Piccolo o grande che sia, l’oggetto di interesse dell’artista si conferma essere il reale di cui parlava Lichtenstein, ciò che l’occhio osserva più da vicino perché visione quotidiana, che seppur ordinaria e ripetitiva, è sempre potenzialmente sorprendente.