Appunti di una osservazione partecipante del progetto Teatro Ensamble presso Mi verde morada.
di Lucia Cupertino
1. BENVENUTI A MI VERDE MORADA1
“Si potrebbe fare una scala delle società e delle culture in base al grado di ospitalità. Gli eschimesi, con la loro usanza di offrire all’ospite non solo cibo e riparo, ma anche la compagnia della propria moglie, forse arriverebbero primi, seguiti dai beduini del deserto – sostiene con ironia Francesco Spagna, autore di La buona creanza. Antropologia dell’ospitalità – Come si piazzerebbero gli italiani in questa ipotetica classifica? Questione intrigante, perché su questo tratto culturale il nostro Paese è piuttosto diviso”. Regione che vai, ospitalità che trovi. L’antropologo prosegue sostenendo: “Non si può pensare di arrivare man de sgorlòn (o man sgorlando) in Veneto. In Sicilia, invece, come in altre culture al di là del Mediterraneo, è obbligatorio presentarsi a mani vuote. Anzi, arrivare portando qualcosa potrebbe addirittura suscitare disturbo, imbarazzo e una sorta di corto circuito. Perché si rischierebbe di frapporre qualcosa tra noi e il dono dell’ospitalità che, in questo caso, non richiede alcuna reciprocità, chiede solo di avvenire, portando panza e presenza”.
Tantissimi sono i pregi che si possono attribuire a Francesca Gargallo, solo per citarne due la grinta e l’ostinata ricerca della giustizia sociale in versione postcoloniale, molto esteso e tenace il suo impegno come filosofa, scrittrice, femminista, attivista ma, se dovessi avere a disposizione una sola parola per definirla, sceglierei senza esitazione: anfritriona.
Ormai da varie decadi, le radici di Francesca sono attecchite in una terra meravigliosa, aspra, piena di colpi di scena, quale il Messico. In effetti scrive -romanzi, articoli, poesie, post appassionati- nello spagnolo del “luogo dell’ombelico della terra”2. Ha viaggiato molto, moltissimo, specialmente nelle diverse regioni messicane e di Abya Yala, nostra America, portando avanti un lavoro antropologico ampio e sempre in fieri, sfumando i confini tra ricerca ed esperienza di vita. Essere viaggiatrice significa essere constantemente ospite, dei luoghi, della cultura, del cibo, di un tetto. Conoscendo sulla sua pelle il senso dell’essere ospitata, Francesca ha nutrito anche quello dell’ospitare, che le depositano negli occhi un sorriso e una pace ineguali. Un senso dell’ospitare che nulla chiede in cambio, se non il piacere di manifestarsi, un senso tutto siciliano e mediterraneo -riprendendo le parole dell’antropologo Francesco Spagna, a tradire la radice siracusana di Francesca- potenziato e arricchito anche da quello tutto proprio di nostra America e del sud (badate bene, un sud che è una coordinata del cuore, più che strettamente geografico).
Giungo a casa di Francesca in qualità di ospite. La sua casa non è una casa convenzionale, le sue porte sono spalancate agli amici di una famiglia più grande rispetto a quella tradizionale, include infatti persone di ogni età, appartenenza, lingua e genere, purchè le loro aspirazioni vibrino con quelle di Mi verde morada, nome con cui Francesca Gargallo ha ribattezzato un edificio antico che giorno dopo giorno è stato ristrutturato e rimodellato per aderire al sogno di creare una comunità urbana cosciente e attiva.
Mi verde morada nasce nel cuore di Città del Messico, nel quartiere di Santa María de la Ribera, minacciosamente esposto alla crescita esponenziale della gentifricazione, della cementificazione urbana e dei rapporti umani. Il progetto sorge come sfida, proposta, alternativa reale, utopia in movimento alla velocità della bicicletta. Lo dico in senso metaforico, perchè la filosofia è recuperare il valore della lentezza, dello sforzo di soffermarsi a tessere relazioni umane, dell’ecologia interna ed esterna; lo dico però anche in senso letterale, in quanto uno degli spazi attivi in Mi verde morada è un’officina di biciclette, la cui attività promuove lo spostamento su due ruote in una città congestionata e coi più alti indici di inquinamento urbano e insicurezza.
La città in questi anni è cambiata così tanto
che già non è la mia città, la sua risonanza
di volte echeggianti e di passi che mai più torneranno.3
La voce nostalgica dei versi di Emilio Pacheco tratti da “El reposo del fuego” (1966) rimanda ad un delitto consumato a Città del Messico dal principio del XX secolo: l’urbanizzazione selvaggia, la gentrificazione, l’aumento di criminalità, inquinamento, paura, le varie spirali di violenza urbana, le inondazioni, l’incontrollabile crescita demografica generata dal sogno della grande capitale, popolazioni spinte dal campo alla città per colpa del progresso e dei conflitti regionali, la diminuzione di spazi verdi, comunitari e di quartiere, l’imposizione gringa su certi modi di vivere e sulle cosmovisioni locali, l’entrata in gioco di interessi internazionali. Alla tristezza di Pacheco, fa eco l’ironia caustica di Jaime Augusto Shelley in Guida di Città del Messico (in “Victoria”, 1984), in cui ripercorre tutte le bislacche deformità accumulate nel tempo dalla capitale messicana, per poi concludere:
Stai attento soprattutto alla polizia
e agli altri prestatori di servizi.
Per il resto,
la gente è ancora buona,
triste e immensamente povera,
come spetta agli abitanti
della Capitale di un paese
in via di sviluppo
sul punto di mandare tutto,
completamente, a fare in culo.
In quest’ottica Mi verde morada si propone come spazio comunitario urbano in resistenza. Esattamente l’opposto del non-luogo, vaticinato da Marc Augé come tendenza soverchiante nelle realtà urbane delle nostre società complesse. Pur nella complessità di essere immersi in una metropoli e in dinamiche ipercittadine, il motore filosofico del progetto di vita e comunitario -promosso da Francesca Gargallo e abitato, accresciuto, co-costruito da diverse altre persone- resta quello di creare un luogo che possa offrire spunti e alternative ecologiche, sociali e culturali nell’urbe-mostro di Città del Messico.
Non a caso uno dei valori recuperati da Mi verde morada è quello del tekio, termine che rimanda ad una forma di lavoro comunitario e collaborativo, tipico delle culture precolombiane della Mesoamerica. Si tratta di una collaborazione che si attiva per portare a termine un obiettivo comune, unendo le forze in una o più giornate di lavoro (potrebbe essere anche semplicemente imbiancare le pareti del salone) e che è fondamentale tanto in momenti d’emergenza, quanto nella quotidianità, poichè in ambo i casi crea, genera e consolida la fiducia tra le singole persone del progetto, tra i nodi della rete comunitaria.
Mi chiudo alle spalle l’alto cancello di calle Eligio Ancona, 79, in fin dei conti un cancello ci vuole per evitare le incursioni dei malandros o ratas, così vengono chiamati i ladri in Messico, anche se immagino che concettualmente e idealmente Mi verde morada ne farebbe volentieri a meno. Al cancello vi è appiccicato un poster sui 43 di Ayotzinapa. È proprio per il caso della scomparsa degli studenti normalisti nello stato di Guerrero che sono entrata in contatto con Francesca, redattrice della postfazione del libro “43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos” (Arcoiris, 2016) di cui sono curatrice e traduttrice. Ci sono anche altri manifesti che annunciano iniziative sociali e solidali, riunioni di quartiere, orti, cene con prodotti locali.
Ad accogliermi vi è un ampio e colorato patio, ricco di piante, mentre a sinistra dell’arcata vi è l’officina di biciclette, mossa dall’idea di adoperare pezzi riciclati e spezzare la catena dell’industria o moda della bicicletta e piuttosto proporre un modello di autoproduzione e autoriparazione. È guidato da ragazzi che da anni si dedicano con passione a questo e cercano di farlo nella forma dello scambio, del baratto, della circolazione dei saperi, piuttosto che per lucro. L’edificio è organizzato su vari livelli e, oltre agli alloggi, prevede al primo piano una biblioteca che serba più di 10mila volumi su temi connessi al femminismo ed è disponibile per chi volesse approfondire e studiare. Attraverso una scala a chiocciola si accede alla terrazza, in parte dedicata all’orto urbano che produce principalmente ortaggi per il consumo interno e piante medicinali con cui le curatrici dell’orto, Claudia e Rosa assieme ad altre e altri, elaborano estratti di vario tipo, ad esempio unguenti, pomate, sciroppi. È uno snodo importante per scambiare semi nativi del Messico -che alberga la culla del mais e di tante altre colture essenziali a livello mondiale-, consigli sulla produzione agricola senza prodotti chimici, chiacchierare sull’agricoltura familiare, approfondire la storia delle diverse colture di questa terra, soluzioni per orti urbani, proposte di attività didattiche orientate a trasmettere altri valori, rafforzare il sogno di produrre almeno una parte di ciò che si consuma. Sempre sulla terrazza sono collocati dei pannelli solari, che però devono essere meglio ricollocati per entrare in pieno regime, e vi è un bagno secco, idea alternativa al nostro bagno usuale e alle sue derive in termini di uso massivo e inquinamento delle acque. Altra iniziativa particolarmente lodevole è quella di offrire un posto letto per un anno, in sostegno ad una studentessa con un progetto valido ma poche risorse economiche, affinchè possa condurre i suoi studi a Città del Messico.
Varie sono le persone e personalità che popolano Mi verde morada e non manca l’animatore della radio di quartiere, uno strumento di comunicazione efficace per organizzarsi, venire a conoscenza di nuovi progetti edilizi (che spuntano come funghi), tessere iniziative locali, conoscere la storia di quel settore della città. Vi è anche un massaggiatore che settimanalmente offre i suoi massaggi terapeutici alla comunità del quartiere ad un prezzo particolarmente accessibile rispetto all’esterno. Un nugolo di persone orbita attorno a questo spazio, molti di essi sono attivisti, ricercatrici, giornalisti, artisti, appassionati di boschi e agricoltura, viaggi, medicine tradizionali, filosofia, cucina. Il convivio attorno alla tavola imbandita, con cibo vegetariano, è un momento di scambio, crescita, grasse risate, circolazioni di idee politiche alla presenza di Roque, un alano gigante e buono disteso sul suo divano-trono. Mi è capitato, infatti, di essere lì ai fornelli riscaldando una tortilla con delle verdure e tagliuzzare la cipolla assieme ad una ragazza che mi parlava della sua esperienza, la partecipazione alla carovana latinoamericana di resistenza a progetti estrattivisti e, ad esempio, di essere passata per la comunità lenca del Copinh proprio nei giorni dell’assassinio di Berta Cáceres.
Gli aneddoti sarebbero tanti, ma fondamentalmente questa è la grande famiglia di cui parlavo all’inizio, questo il senso dell’ospitare. Non dimenticherò mai il post di Helena, la figlia di Francesca, a poche ore dal terribile terremoto di Città del Messico, lo scorso settembre. Conciso e propositivo. Offriva alloggio, proprio in calle Eligio Ancona, 79, a chi tra gli sfollati ne avesse avuto bisogno.
2. IL TEATRO SCONFINA IN CASA. IL PROGETTO TEATRO ENSAMBLE
“Mi piace la proposta di Proyecto Teatro Ensamble, dal momento che dimostra che il teatro non è solo, come si crede, per le persone con soldi, bensì è di e per tutti, che il teatro giunge ai luoghi del quartiere, della gente, dove questa trascorre la sua quotidianità”.
Pamela Flores, studentessa di Psicologia, 23 anni.4
Uno dei primi giorni del mio soggiorno a casa di Francesca mi viene detto che nel fine settimana Mi verde morada avrebbe accolto una rappresentazione teatrale. Si tratta di due spettacoli, una il venerdì e l’altra il sabato, de El hombre de la rata5, opera del venezuelano Gilberto Pinto. L’iniziativa è a cura del Teatro Ensamble e mi viene aggiunto: “è un’esperienza da non perdere”. Allora faccio spazio nella mia agenda, sempre fitta quando sono a Città del Messico di amici da rivedere o attività a cui prendere parte.
Lo spazio scenico della rappresentazione teatrale è quello del patio-corridoio d’ingresso e della scala a chiocciola che conduce alla terrazza, mentre lo spazio riservato al pubblico è quello del balcone affacciato al patio. Solo una membrana sottile -la ringhiera del balcone- e un lieve dislivello si frappone tra i due mondi. Siamo in vari ad aver preso posto sul balcone e l’attesa si consuma in modo classico, presentandosi, chiacchierando, sorridendo.
Dalla cucina si affaccia sul balcone Marina Burgos, attrice e membro della compagnia Teatro Ensamble, ha tra le mani una caraffa e comincia a distribuire tra gli spettatori una tazza di agua de jamaica, ovvero una tisana di carcadè; successivamente ritorna con alcuni pasticcini e una busta chiusa. Mentre viene annunciata l’ultima chiamata e quindi che la rappresentazione comincerà tra pochissimi minuti, abbiamo degustato l’agua de jamaica e dato una sbirciatina alla busta, contenente una cartolina dell’opera e un questionario da compilare alla fine dello spettacolo. Nessuno di noi ha dovuto pagare un biglietto di ingresso e il benvenuto della compagnia è in linea con quel senso dell’ospitare del luogo in cui siamo.
La rappresentazione non si dà per conclusa con la fine della performance, con un applauso o un’acclamazione. Bensì con un momento di incontro con il regista, Raúl Bretón e Miguel Sandoval, l’attore de El hombre de la rata, e l’intavolare un foro di discussione e confronto tra il pubblico. Ci spostiamo infatti nel salone, spazio più intimo per disporsi a condividere la parola. Raúl offre un’introduzione sul senso di questo lavoro e queste modalità. La formula presentata non è una novità assoluta, la modalità del teatro in casa è vecchia come il mondo e addirittura potrebbe essere vista come elitista. Tutto va però riportato al contesto e osservato nei suoi dettagli. Teatro Ensamble ha lavorato per molto tempo in strada, lo spazio unanimamente riconosciuto come proprio della gente e di tutti, sente tuttavia la necessità storica di entrare nell’intimo delle case, dal momento che l’aumento della violenza a livello cittadino e nazionale ha portato le messicane e i messicani a rintanarsi maggiormente in casa. La compagnia crede quindi che da lì bisogna ripartire per cercare di non farla diventare una prigione e provare a riarticolare la società, attraverso gesti semplici e quotidiani, l’attivazione di momenti di riunione, quali la chiamata a raccolta dei vicini e delle persone che vivono nel quartiere.
Le proposte di Teatro Ensamble facilitano questo processo. Ai partecipanti non vengono offerte opere d’intrattenimento, bensì teatro politico con taglio spesso intimista e riflessivo, nella ferma convinzione che l’io e il noi sono parte di uno medesimo territorio politico. Oltre a El hombre de la rata, la compagnia sta presentando nelle case di Città del Messico La autopsia, sketch teatrale tratto da Los papeles del infierno del colombiano Enrique Buenaventura, opera che offre uno spaccato del conflitto armato in Colombia tra gli anni ‘40 e ‘60, scegliendo la prospettiva dell’indagine familiare tinta di politico. Di ritorno a Città del Messico, un paio di mesi dopo la mia prima tappa a Mi verde morada, prima di prendere l’aereo ho avuto la fortuna di assistere anche ad una performance de La autopsia, mentre per El hombre de la rata a tre repliche. Quello che mi ha spinto a tornarci è stata proprio la curiosità di analizzare la dinamica scaturita alla fine dello spettacolo. In ogni sessione vi sono state delle costanti, come ad esempio l’interrogarsi attorno a ciò che rappresenta oggi il ratto ingigantito che insegue la mente dell’uomo sulla scena, l’apprezzare la modalità dialogica post-spettacolo e il suo sconfinare verso una riflessione collettiva sui nodi problematici offerti dall’opera, il riportare al nostro tempo e alla nostra quotidianità la dimensione storica di opere sorte in altri tempi e altre geografie ed infine il sentirci meno estranei e più comunità alla fine del forum. All’interno di questa dinamica generale ho registrato fluttuazioni prodotte dall’età, dal tipo di relazione, dall’attività e la personalità del pubblico presente, ne riparlerò più avanti.
Quando il forum è concluso, i partecipanti possono consegnare la busta e, se lo ritengono, dare una donazione anonima e volontaria a sostegno dell’attività di Teatro Ensamble. È poi anche il momento in cui emerge la volontà di qualcuno di accogliere lo spettacolo a casa propria, non importa avere un grande salone o riunirsi in una cucina modesta, l’essenziale è estendere il cerchio.
3. VITTIME O CARNEFICI DEL NOSTRO TEMPO? IL TEATRO POLITICO DEGLI ANNI ‘60 IN VENEZUELA E COLOMBIA
El hombre de la rata (1963) è un’opera scritta e diretta da Gilberto Pinto, all’indomani della caduta del regime dittatoriale di Marco Pérez Jiménez in Venezuela, lo stesso che ha propiziato la nuova ondata di colonizzazione europea nel paese ancora oggi rimpianta, in quanto coincidente con lo sfrenato boom industriale che ha posto quella classe sociale di matrice europea-venezuelana in una condizione di privilegio, a discapito della creazione di un rilancio economico a partire dalla popolazione locale, altrimenti occupata in posizioni lavorative subalterne nelle nascenti fabbriche, nel settore edilizio e in altre iniziative commerciali6.
La drammaturgia di Gilberto Pinto si colloca, dunque, in un momento di tiepido ottimismo verso il “ritorno alla democrazia”. Tiepido perchè le avvisaglie di un sistema marcio nella sua essenza sono evidenti e neppure la tanto agognata democrazia è sinonimo di giustizia civile, quanto piuttosto di un’aspirazione colma di crepe. Un realismo critico, quotidiano, introspettivo è adottato da vari drammaturghi degli anni ‘60, si tratta di uno strumento malleabile per abbozzare la complessità di un periodo in cui si gode di maggiori libertà rispetto alla dittatura, eppure non si respira ancora un’aria per davvero diversa. Nel caso specifico di Pinto, l’incontro col teatro del messicano Jesús Gómez Obregón, in visita a Caracas, è illuminante per la direzione che intraprenderà col suo lavoro teatrale, orientato allo scavo psicologico della dimensione politica e umana. Quasi sempre uno è il protagonista sulla scena, a volerci parlare di una ricerca teatrale che punta all’approfondimento, anche ossessivo, alla radiografica attraverso la voragine umana così come il suo difetto: l’unidimensionalità e l’isolamento. È così che i personaggi di Gilberto Pinto restano intrappolati nel loro tempo, incapaci di fare collettività o vittime dell’uccisione sul nascere di questa propensione al collettivo, operata dal sistema.
In questo spazio interstiziale si inserisce il teatro politico di Gilberto Pinto ed è questa sottile, costante e soggiacente lordura ad impossessarsi della scena, attraverso gli atti isterici e schizofrenici del protagonista. Un uomo anonimo, non ne conosciamo infatti il nome, che rappresenta il singolo come la moltitudine della società venezuelana.
Il protagonista de El hombre de la rata è un uomo paranoico, nevrotico, perturbato. Attanagliato dall’ossessione di essere inseguito da un ratto che cresce ogni secondo di più e minaccia di schiacciarlo e ucciderlo. L’uomo incombe sulla scena, in questo caso dal cancello de Mi verde morada, ed è teso, tesissimo, indossa un impermeabile sgualcito e sudicio, sembra essere spuntato da una fogna. Gli occhi sono quelli di un drogato, allucinato. È alla ricerca di un posto dove orinare ed essere sicuro che il ratto non lo scoverà.
Vado. Ho bisogno di pisciare per liberarmi. Il mio caso è disperato. Tutte le emanazioni nefaste che ricevo dall’ambiente putrefatto in cui vivo, si trasformano in urina. E devo espellerla prima di avvelenarmi per sempre. Addio (sospira). E non dite a nessuno di avermi visto.
Non vi è molt’altra azione, tutto si attorciglia attorno alle ossessioni dell’uomo, alla sua esternazione attraverso la parola, il monologo, la critica, il lamento. La necessità di espellare il male sociale attraverso l’atto di orinare. Molto fragile è il diaframma tra vittima e carnefice. L’uomo è solo vittima del sistema o ne è anche costruttore e collaboratore? La sua pazzia e schizofrenia sono solo tali o, invece come pare, sono punteggiate di momenti di estrema lucidità e ragione, come quando riporta le sue conversazioni filosofiche sul cogito ergo sum e la fame? Su quest’uomo sembra gravare addosso tutto il groviglio di contraddizioni dell’uomo moderno, intricata e complessa la possibile risoluzione.
L’attore Miguel Sandoval mette in scena magistralmente quest’uomo, impregna ogni sua fibra di quella spasmodica frenesia individuale e collettiva. In certi punti della pièce, quando guarda fisso negli occhi, richiama verbalmente il pubblico o sembra essere disposto a saltare la ringhiera e poi coglie alle spalle gli spettatori, scavalca la distanza tra scena e pubblico che diventa un insieme d’impreparati attori. Cosa faremmo noi se fossimo nei panni di quell’uomo? Siamo così sicuri di vivere una vita indipendente dagli ingranaggi che lo stritolano? È qui avviene il punto di contatto tra teatro e realtà sociale, proprio secondo l’intenzione di Pinto di creare un teatro che esplori le problematiche, le plasmi in scena e poi infine torni ad occupare le menti del pubblico che deciderà come agire, sulla scorta di quel materiale e quegli interrogativi, nel suo teatro quotidiano.
Nel corso della mia osservazione partecipante ci sono stati momenti in cui, per la presenza di “addetti ai lavori” la conversazione post-spettacolo è confluita maggiormente verso aspetti teatrali; ci sono stati altri momenti in cui gli adulti presenti hanno discusso in modo animato circa i problemi del Messico attuale, dalla dimensione macro a quella del quartiere e familiare, rispecchiandosi nelle sensazioni e analisi altrui, divergendo talvolta, com’è sano che sia per la circolazione di idee; in altri casi infine la presenza di un gruppo di adolescenti ha scatenato una riflessione sulle relazioni intrafamiliari, per l’associazione instaurata dai giovani tra l’incombenza del ratto e l’ingerenza dei genitori nella loro vita, tema che ci ha condotti a riflettere sui silenzi, i fraintendimenti, la rigidità delle strutture imposte della relazione genitori-figli e a ricercare ad alta voce possibili vie d’uscita. In queste mie osservazioni partecipanti ho potuto constatare il valore aggregativo, terapeutico del teatro, il suo forte potenziale nell’articolare il cambiamento attorno ad una riflessione cosciente, razionale e densa nel sentire.
La autopsia ci cala nel contesto colombiano del conflitto armato, uno scenario molto diverso da quello ritratto da Pinto, la repressione è infatti giocata non solo a livello psicologico, ma anche fisico, per mezzo della minaccia violenta, la tortura, la sparizione, il massacro. L’opera è scritta nel ‘68 da Enrique Buenaventura, regista di Cali che inaugura il teatro sperimentale in questa città e segue il filone del Nuovo teatro colombiano, intento a liberarsi dei modelli rappresentativi coloniali, giunti principalmente dagli Stati Uniti e dall’Europa che dettano temi e sviluppo degli stessi, e disposto a ricercare forme, scenari, voci per rappresentare i drammi storici e intimi della Colombia. Non è casuale che lui ed altri drammaturghi si imbarchino in ricerche in cui assumono il ruolo di storici delle vicende nazionali, prima ancora che di registi e artisti. Il teatro sorto da questo tipo di scavo mette in comunicazione la dimensione storica e quella presente, cerca di trovare il chiavistello che possa aprire porte sigillate o di cui si è persa la chiave, si spinge verso la riflessione storica sulla memoria collettiva per mezzo del lavoro scenico. Estende il punto interrogativo del passato, quello non risolto, sospeso o risolto in modo raffazzonato e che dunque certamente ritornerà nel presente.
Anche nel momento in cui l’opera appartiene al passato o si riferisce ad un tempo lontano, continua a mettere in dubbio l’ideologia e, quando si riferisce al passato lo fa per distinguersi dal presente, per poterlo osservare meglio, vederlo come qualcosa in movimento, com’è il passato, sottomesso com’è alle leggi del cambiamento sociale.7
Queste parole di Buenaventura riassumono il senso della sua opera, come pure la volontà del Teatro Ensamble di ritornare sulle tracce di opere latinoamericane degli anni ‘60 per stilare uno stato della questione, teatrale e umana. Semplicemente la storia di violenza, corruzione, abusi si ripete? Oppure per strada sono stati disseminati, smarriti, abortiti tanti tentativi di cambiamento? Quanto del passato non è stato risolto e continua a premere sul presente?
Una donna è coricata su di una poltrana, sembra dormire o essere in trance. Noi, il pubblico, siamo dentro lo spazio scenico, ovvero il salotto de Mi verde morada. Siamo seduti sul sofà di fronte a lei. Regna il silenzio e per alcuni minuti il totale immobilismo, la sensazione di attesa di uno sviluppo che tarda a giungere. Ben presto il cigolio della porta, entra in scena il marito.
LA DONNA: Qui c’è la tua giacca e la cravatta.
IL DOTTORE: (Indossando la giacca). Bene.
LA DONNA: Come ogni giorno.
IL DOTTORE: Lo so che non è come ogni giorno.
LA DONNA: Come qualsiasi cadavere.
IL DOTTORE: Lo so che non è come qualsiasi cadavere (Pausa). Ma devo andare. E farla (Pausa). Vuoi che non ci vada? (Pausa). Vuoi che rinunci?
LA DONNA: Non so (Pausa).
Tutto appare criptico, non comprendiamo i contorni della tragedia che si sta consumando, come in un macinino, in modo lento e costante tra le pareti della casa e tra le pareti che si alzeranno sempre di più all’interno della coppia, evidente anche nel modo in cui Buenaventura li nomina nel dialogo. Il lavoro del dottore (interpretato da Raúl Bretón) è quello di fare autopsie e spesso, in seguito alle pressioni ricevute e per mantenere il suo posto di lavoro, ha scritto referti falsi. Ha dovuto infatti mascherare l’uccisione di diversi giovani causata dal conflitto armato e ha dovuto inventare le scuse -scientificamente calibrate ma nel fondo becere e tarate- per giustificare morti sanguinarie. Questa volta gli tocca fare l’autopsia di suo figlio, anche lui ucciso dalla stessa violenta spirale. Cosa farà il dottore? Perchè dubita tanto nel denunciare un’ingiustizia? Perchè continua a coprire i carnefici? La moglie (interpretata da Marina Burgos) sembra essere un pungolo, conservare un barlume di coscienza e amore per la verità e il suo stesso dolore. Tuttavia alla fine la sua convinzione cede facilmente alle lusinghe del qualunquismo, del lasciar correre, della paura di denunciare e soffrirne le conseguenze. Neppure lei è disposta a parlare, mette in dubbio ma poi si nasconde dietro il mutismo e l’inazione.
IL DOTTORE: Di nuovo il posto? Di che viviamo se perdo il posto? Che otterrò se perdo il posto? Lui è già morto. È già morto e perdendo il posto non potrò resuscitarlo. Non potrò avere neppure un pizzico di giustizia! Non potrò avere neppure un pizzico di comprensione. E per chi è la giustizia? Per gli altri. E a me importava lui, solamente lui.
I due sono immersi nella bugia confezionata, nell’apatia sociale, nell’immobilismo. Tramite una relazione verticale, in cui spesso assistiamo a grida, rimproveri e piccole violenze psicologiche del marito con la moglie, siamo immersi nell’assurdo che si consuma lentamente. In quanto spettatori inseriti nello spazio scenico diventiamo però conniventi, complici anche noi, dal momento che nessuno decide di entrare in scena, intervenire. Rispettiamo anche noi il ruolo sociale attribuitoci. Siamo davvero meno miserabili di quella coppia?
Verónica Coral Rojas fa una brillante analisi dell’opera di Buenaventura8 mettendola in dialogo con la Pedadogia dell’oppresso di Paulo Freire per sottolineare la comune natura duale dell’oppresso, in cui dimora anche il suo oppressore, nel momento in cui ne introietta e riproduce pensieri e comportamenti e finisce per essere complice delle deformità sociali, piuttosto che suo accusatore. Ancora una volta, come nel caso de El hombre de la rata, e in forma ancora più implodente ci chiediamo: chi è la vittima, chi è il carnefice? Il pregio del teatro di Buenaventura è muoversi tra le sfumature, affinare gli strumenti di ricerca storica e teatrale per metterci nel bel mezzo di un dilemma esistenziale che si proietta sul presente, sulle nostre vite. Il pregio di Teatro Ensamble e l’accoglienza de Mi verde morada è permetterci di intraprendere questo viaggio tra il fitto delle domande.
1 “La mia dimora verde”.
2 Etimologia della parola “Messico”.
3 Traduzione mia, come pure quella delle altre citazioni inserite in tutto l’articolo.
4 Dal Bollettino bimestrale Zoon Theatrikon, n.40, agosto 2017.
5 “L’uomo del ratto”.
6 Per approfondire questo tema, rimando ad un mio trittico di racconti che toccano la storia della migrazione italiana in Venezuela: http://www.lamacchinasognante.com/lattenzuela-tre-racconti-di-lucia-cupertino/
7 Enrique Buenaventura,Teatro y política, 2004, in Conjunto n. 131, p.19
8 http://revistaci.blogspot.com.co/2013/01/la-construccion-del-victimario-en.html
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Reportage, foto e traduzioni di Lucia Cupertino