Cinema, serialità e G2. Verso una nuova cittadinanza – Leonardo De Franceschi

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La XVII legislatura verrà ricordata anche per essere quella in cui la maggioranza ha rinunciato ad affrontare al Senato la discussione della riforma della cittadinanza. La classe politica tutta si è assunta la responsabilità grave di rimandare il ridisegno di una normativa iniqua e inadeguata. Ancora una volta, lo Stato ha deciso che le oltre ottocentomila alunne e alunni figli di stranieri che frequentano la scuola italiana possono aspettare. In questi oltre vent’anni di lotte per la riforma è cresciuta nel paese la consapevolezza della presenza di un nuovo soggetto collettivo, le seconde generazioni, capace di mobilitarsi per i propri diritti, ma anche di costruire immaginario, produzioni culturali, stili di vita, contribuendo dal basso a una contronarrazione dell’italianità.

Dopo il 1989, la trasformazione dell’Italia in meta e crocevia di migrazioni dal Sud e dall’Est Europa crea le condizioni perché, con la prima ondata di ricongiungimenti familiari, questo nuovo soggetto cominci ad affacciarsi anche in film e serie, ma a lungo prevale la tendenza a ritagliare delle figurine rispetto al loro contesto socio-culturale di riferimento, oppure a confonderle in un continuum indistinto con la prima generazione.   

Bisogna aspettare il 2006 però perché questo nuovo soggetto cominci ad assumere una configurazione più pienamente riconoscibile. Fino al 2013 prevarranno titoli che si pongono come obiettivo proprio la narrazione di storie esemplari, in grado di sintetizzare il vissuto, i problemi identitari e la fame di diritti delle seconde generazioni. Penso a documentari come 18 ius soli (Fred Kudjo Kuwornu) e Fratelli d’Italia (Claudio Giovannesi) e a un lungometraggio come Good morning Aman (Claudio Noce), in cui un giovane italo-somalo trova in un’ambigua amicizia con un ex-pugile l’opportunità per lasciarsi definitivamente alle spalle l’adolescenza. In altri titoli prevale una visione che sembra lasciare margini molto relativi di movimento al soggetto G2, relegandolo in una condizione di subalternità che trova un corrispettivo visivo nell’isolamento e nel grigiore del suo habitat (Et in terra pax, ACAB-All Cops Are Bastards, Alì ha gli occhi azzurri, Razzabastarda, Se chiudo gli occhi non sono più qui, Alysia nel paese delle meraviglie, Magari le cose cambiano). Altrove ci si sofferma maggiormente sulle potenzialità dell’incontro e sulla valorizzazione delle differenze, anche se questo significa a volte perdere di vista le coordinate materiali in cui si inscrive la cittadinanza (Balla con noi-Let’s dance, Giallo a Milano, Butta la luna). Altre registe e registi italiani rielaborano con registri talvolta leggeri il topos della “ragazza da salvare”, il cui destino di autorealizzazione dipende dalla possibilità o meno di emanciparsi da una cultura patriarcale (Last Minute Marocco, Questa notte è ancora nostra, Lezioni di cioccolato 2, Italy amore mio). Nel territorio del cinema del reale, alcuni titoli insistono con più efficacia sulla scuola come laboratorio di convivenza (Sei del mondo, Una scuola italiana, Sotto il Celio azzurro).

Dal 2014, sui grandi e piccoli schermi del Belpaese cominciano a profilarsi i primi segni di una narrazione diversa. Come si desse per acquisito e pacifico un primo livello di informazioni e narrazioni di vita, registe e registi italiani avvertono la necessità di provare a immaginare un’Italia “a regime”, in cui fare i conti con le seconde generazioni, articolando sguardi sempre più situati e individualizzati. Il documentario Il futuro è troppo grande (Giusy Buccheri, Michele Citoni) mette a confronto due profili di soggetti G2 assai diversi per origine, temperamento e grado di integrazione, usando con coraggio i modi del video partecipativo. Altri titoli riflettono sulla presenza di resistenze anche a un’integrazione negoziata nel corpo della nazione, opposte dalla comunità dominante dei nativi ma spesso anche dagli stessi gruppi minoritari, rom sinti e caminanti da una parte e musulmani dall’altra (Io rom romantica, ma anche due episodi delle serie Non uccidere e Provaci ancora prof). In titoli e serie spesso diretti da autrici e autori G2 ma non solo (si pensi al corto Joy o alla webserie Welcome to Italy) si segnala una difficoltà specifica dell’italiano della strada a fare i conti con l’immagine di un sé collettivo non più esauribile nel fantasma-feticcio di una bianchezza socialmente costruita e in quello altrettanto tenace di una sostanziale innocenza razziale, ma la linea del colore finisce per incidere nella stessa mentalità delle seconde generazioni, risultando in un’immagine di sé deficitaria, incerta e contraddittoria. Un terzo gruppo di titoli chiama in causa il rapporto fra soggetto G2 e collettività italiana, secondo una traiettoria che talora prefigura un vero e proprio percorso di inclusione differenziale: il pensiero corre a personaggi/e come Cuono in La scuola più bella del mondo, Benny in La grande rabbia, Jamal nella terza stagione di Una grande famiglia, Spadino e Isabelle nella prima di Suburra-La serie. Altrove, l’enfasi va invece sul rapporto tra prime e seconde generazioni, passaggio che comporta lo scioglimento di nodi e traumi irrisolti (Babylon sisters, The Harvest). Un ultimo blocco di titoli contempla le figure di giovani uomini e soprattutto donne G2, immerse in un immaginario nel quale le tensioni innescate dalle differenze sembrano in via di progressiva risoluzione: parliamo di personaggi/e caratterizzati/e da un’energia assertiva ma che vivono in una confort zone postrazziale, a debita distanza dalla famiglia e da tutto ciò che possa ricordare le loro origini, come Francesca, la Bridget-Jones nera della serie È arrivata la felicità e in minor misura Feven, la violinista italo-eritrea di Tutto può succedere.

Proprio Tezeta Abraham ed Esther Elisha sono i volti forse più noti di una nuova generazione di interpreti G2, al maschile e al femminile, sempre più talentuosi, preparati e disposti a battersi per non rimanere sacrificati a vita in ruoli di supporto, caricaturali e viziati da consunti stereotipi, sulla scia delle lotte avviate da anni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia. Insieme a loro ci sono numerosi talenti non necessariamente usciti da un’accademia (come la stessa Abraham o Lorena Cesarini) ma che sempre più spesso affrontano film e serie, dopo essere passati per anni di training ed esperienze sul palcoscenico, da Livio Beshir a Germano Gentile, passando per Miguel Gobbo Diaz, Federico Lima Roque, Alberto Malanchino, Astrid Meloni, Marouane Zotti.

Lo straordinario successo che ha salutato A ciambra, valendo a Jonas Carpignano la nomination per l’Italia agli Oscar e il David di Donatello per la miglior regia ha, per un verso, regalato il giusto tributo al coraggio e alla coerenza di uno dei pochi autori italiani contemporanei in grado di catturare l’interesse delle platee internazionali; per l’altro, venendo da un regista figlio di un italiano e di un’espatriata afrobarbadina negli States, ha spinto alcuni a chiedersi se sotto questa punta d’eccellenza si nasconda o meno un iceberg.

Sicuramente Suranga D. Katugampala fa parte di questo patrimonio sommerso del cinema e della serialità italiana di oggi: dietro Per un figlio ci sono l’intuizione di uno sguardo situato alla contemporaneità ma anche la capacità di costruire reti transnazionali, l’orgoglio dell’indipendenza produttiva come l’attenzione a una confezione formale pulita ed efficace, la volontà generosa di tessere la tela del dialogo fra generazioni e fra italiani e stranieri tanto quanto il coraggio di intercettare senza scorciatoie consolatorie l’insinuarsi della violenza come strumento di autoaffermazione.

Ma Carpignano e Katugampala non si muovono nel vuoto. Diversi/e giovani storytellers di talento mordono il freno. Se alcuni/e, come Haider Rashid, autore del toccante Sta per piovere, primo lungometraggio di finzione realizzato da un regista G2, e Laura Halilovic, hanno già superato la prova dell’esordio, diversi/e hanno già realizzato dei corti promettenti, come Hleb Papou (Il legionario) e Nour Gharbi (Il sapore del sale) o dei documentari pluripremiati, come Elia Mouatamid (Talien), mentre altri/e, come Nadia Kibout (Le ali velate) e Amin Nour (Ambaradan) si vanno riposizionando come interpreti-registi/e. Altre cineaste e cineasti si sono affacciati nella scena dei festival e della comunicazione sociale, dando prova di un talento e di un’intraprendenza che fanno ben sperare in un salutare ricambio generazionale e transculturale a venire per il cinema e per la serialità di casa nostra. Quanto alla riforma della cittadinanza, la partita è tutt’altro che chiusa*.

*Per un approfondimento sui temi affrontati in questo articolo vi rimando al mio La cittadinanza come luogo di lotta. Le seconde generazioni in Italia fra cinema e serialità (Aracne editrice, 2018).

Immagine in  evidenza: Dipinto di Hassan Vahedi.

Per una recensione a cura di Reginaldo Cerolini del libro di Leonardo De Franceschi La cittadinanza come luogo di lotta. Le seconde generazioni in Italia fra cinema e serialità (Aracne editrice, 2018) rimandiamo al seguente link  http://www.lamacchinasognante.com/la-cittadinanza-come-luogo-di-lotta-di-leonardo-de-franceschi-recensione-di-reginaldo-cerolini/

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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