CINEMA ARGENTINO E DITTATURA – PARTE II (di Grazia Fresu)

9 el secreto de sus ojos

IL CINEMA ARGENTINO E LA DITTATURA

di Grazia Fresu

SECONDA PARTE

Proseguiamo il nostro discorso sul cinema argentino e la sua intensa e partecipe narrazione della tragedia nazionale che fu l’ultima dittatura militare. Un cinema di testimonianza civile ma sempre allo stesso tempo di notevole valore artistico, attento alla verità dei fatti e al linguaggio filmico atto a rendere le storie percepibili da un pubblico vastissimo. Per chi volesse risplolverare la prima parte di questo intervento: Cinema argentino e dittatura – I parte

7 garage-olimpo-dir-marco-bechis-

GARAGE OLIMPO

In Garage Olimpo Marco Bechis racconta quello che accadeva a Buenos Aires in un centro di detenzione clandestina chiamato “El Olimpo”, nel quale furono imprigionate e torturate circa 700 persone. Maria, una maestra militante di diciannove anni che vive con sua madre Diane alfabetizza adulti in un quartiere marginale. Difficoltà economiche le hanno indotte ad affittare alcune stanze della casa. Una viene occupata da Félix, un ragazzo timido e innamorato di Maria. La ragazza che opera in un’organizzazione che si oppone alla dittatura argentina verrà tradita proprio da Félix e verrà portata nel “Garage Olimpo”, uno spaventoso luogo dove i prigionieri vengono torturati con ogni mezzo prima di essere spediti verso la morte. La visione di Garage Olimpo è talmente lacerante e dolorosa che quasi impedisce qualsiasi analisi estetica. Qui Maria riconosce tra i suoi torturatori Felix, il giovane ospite della sua casa, nonostante passi come la maggior parte dei prigionieri quasi tutto il tempo bendata. Nella sua disperazione Maria cerca di mantenere come unica speranza la relazione con Felix.
Garage Olimpo si sviluppa tutto il tempo tra limiti molto precisi, senza colpi bassi, senza mostrare la picana elettrica che entra nelle carni eppure generando nello spettatore un sentimento di rabbia e angoscia verso ciò che vede. La tortura non si mostra crudamente, si suggerisce, si ascolta, si immagina, si rappresenta nella mente dello spettatore. All’inizio e alla fine del film un bomba messa da un’amica della figlia del capo dell’Olimpo ricorda un fatto realmente avvenuto all’epoca. Il film è carico di elementi sensoriali. Il senso dell’udito occupa un posto preponderante rispetto agli altri sensi, dovuto alla ciecità generata dalle bende con cui i sequestratori tengono coperti gli occhi delle loro vittime. Le grida di tortura nel campo di concentrazione vengono coperte con i suoni della musica, della radio e del gioco del ping pong fatto appositamente da alcuni carcerieri.
Il film ci mostra inoltre in modo agghiacciante come, mentre centinaia di sequestrati vengono torturati, il mondo fuori continua la sua vita rutinaria; inoltre ci rende consapevoli che la tortura, la sparizione e l’espropiazione di persone durante l’ultima dittatura militare non fu anedottica, casuale, isolata ma pianificata, sistematica e controllata. L’intenzione del regista è quella di rappresentare il più obiettivamente possibile la violenza e l’orrore vissuto in quegli anni, mostrando la tortura e i viaggi della morte da parte della repressione così come gli attentati e la collocazione di ordigni esplosivi da parte della sovversione. Vediamo come la violenza produce un circolo vizioso senza fine e come il popolo non vede o non vuole vedere ciò che accade, le peggiori situazioni gli passano accanto senza richiamarne l’attenzione. Un esempio fra tutti, quando il giornalista sportivo durante la cronaca di una partita di calcio (si fa allusione ai mondiali del ’78) dà la notizia di un arresto senza minimamente scomporsi e senza che nessuno del pubblico allo stadio abbia una reazione. Nel film viene messo anche in risalto il ruolo della Chiesa attraverso due personaggi in antitesi: uno, il sacerdote, solo nominato, che subisce la stessa sorte degli altri detenuti torturati e dall’altro lato il cappellano che collabora col potere.
Un altro elemento importante è la storia tra Maria e Felix che a tutti gli effetti può inserirsi nella cosiddetta “sindrome di Stoccolma” dove la vittima mantiene per disperazione un qualche legame umano col suo carnefice. Vittima e carnefice sono unite in un rapporto indissolubile, quasi perverso che sconfina nell’amore, poiché chi è vittima di un particolare tipo di violenza, fisica e/o psicologica, sviluppa spesso per sopravvivere un sentimento “positivo”, quasi un amore, nei confronti del suo aguzzino, del suo carnefice. Per concludere citiamo la scena dei voli della morte la cui sequenza terribile ha come sfondo musicale un’aria dell’Opera Aurora di Panizza, generando un connubio ben riuscito tra l’orrore dei corpi lanciati nell’abisso e la bellezza della musica che li accompagna.

8cronica_de_una_fuga-

CRÓNICA DE UNA FUGA 2006

Crónica de una fuga (Cronaca di una fuga) è un film argentino del 2006 diretto da Adrián Caetano, prodotto da K&S Films e interpretato da Rodrigo De La Serna, Pablo Echarri, Nazareno Casero e Lautaro Delgado. Fu nominata a la Palma d’oro di Cannes ricevendo un’ottima accoglienza sia dal pubblico che dalla critica. È basato sul romanzo autobiografico Pase libre: la fuga de la Mansión Seré (Lasciapassare libero: la fuga dalla Dimora Seré) di Claudio Tamburrini.
Vi si racconta un fatto semi-reale, le avventure vissute da quattro detenuti in un centro clandestino di detenzione in Argentina, chiamato Mansión Seré, una vecchia e aristocratica casa nel quartiere di Morón, a Buenos Aires. durante l’ultima dittatura militare (1976-1983). L’autore del romanzo su cui si basa il film, Claudio Tamburrini, portiere di calcio della squadra di Almagro in serie B e studente di filosofia, è uno dei detenuti che dopo 100 giorni di prigionia riesce a scappare. In prigione conosce Guillermo, Vasco e il Gallego, tutti sottoposti a tortura perché denuncino altri compagni di lotta. Guillermo Fernández, membro del gruppo di fuggitivi , è attore professionista e interpreta uno dei repressori chiamato “il giudice”. Nonostante le torture i giovani non rilasciano nessun tipo di informazione ai loro carcerieri, si sentono innocenti, sperano in una pronta liberazione. Cercano di mantenere a salvo la loro umanitá continuamente messa a prova dalle circostanze, mentre si fa strada in loro il progetto di fuga elaborato da Guillermo. Si tratta dell’unico caso di fuga registrado durante la ultima dittatura.
Al principio la fuga sembra impossible, addirittura impensable, però il gruppo riesce a fuggire in maniera rocambolesca gettandosi da una finestra del terzo piano che nessuno custodiva perché non era considerata una via di fuga possibile. Nudi e in manette tutti si allontanano dalla prigione e arrivano a nascondersi alle forze repressive che li cercano. La tensione del film è tutta giocata sul filo sottile di un desiderio che sembra irrealizzabile ma che si appoggia sulla determinazione a resistere e a cercare la salvezza.
Questo forte istinto di sopravvivenza si rispecchia in un montaggio che sfrutta al massimo le scene di tensione e risalta l’ottimo uso della camera.. Nonostante le scene di tortura e violenza siano esplicite, non tormentano lo spettatore in quanto sono di carattere uditivo più che visuale e questo è un punto a favore del film perché permette allo spettatore di esercitare il suo spirito critico sui fatti e il suo dissenso, senza sentirsi travolto da un eccesso di emozioni perturbatrici e negative. Dal punto di vista dello stile narrativo, attraverso il particolare trattamento dell’immagine e del suono, il film coinvolge lo spettatore anche sul piano estetico non solo testimoniale, con una banda sonora che esalta la resistenza dei suoi protagonisti e fa vivere allo spettatore ogni aspetto della fuga.

9 el secreto de sus ojosEL SECRETO DE SUS OJOS 2009

El secreto de sus ojos (Il segreto dei suoi occhi) è un film argentino di dramma e suspense del 2009 diretto da Juan José Campanella, basato sul romanzo La pregunta de sus ojos (La domanda dei suoi occhi) di Eduardo Sacheri, che ha anche scritto la sceneggiatura con Campanella. È interpretato da Ricardo Darín, Soledad Villamil, Guillermo Francella, Javier Godino e Pablo Rago, ognuno dei quali ci da una splendida interpretazione del suo ruolo. Realizzato in coproduzione tra capitali argentini e spagnoli, è stato il film di maggiore successo del 2009 e uno dei più visti nella storia del cinema argentino, con più di due milioni e mezzo di spettatori. Nel 2010 è stato il secondo film argentino a vincere l’Oscar come miglior film straniero, dopo La Storia ufficiale del 1985.
La storia racconta di Benjamín Espósito che è appena andato in pensione dopo una vita intera come impiegato in un Tribunale penale. Ha un sogno a lungo rinviato: scrivere un romanzo. Non vuole inventare niente, vuole solo raccontare un fatto reale del quale è stato testimone e protagonista nell’Argentina del 1976, la storia di un omicidio (la vittima è una giovane donna che viene violentata e uccisa) e la caccia all’assassino. Esposito ne conosce il marito affranto e si commuove della sua capacità d’amore verso sua moglie vittima di tanta atrocità. Ma l’Argentina di quegli anni si addentrava in una epoca di violenza e morte dove il crimine privato e il crimine di Stato si incontrano con forze così poderose da non poter essere sconfitte. La ricerca della giustizia è stata portata avanti da Espósito con l’aiuto del suo capufficio, una donna di classe sociale alta di cui è innamorato. Entrambi ne escono sconfitti, il colpevole che imprigionano viene liberato dal potere político di una dittatura che ha bisogno di assassini privi di scrupoli per portare avanti la sua repressione. Scrivere un romanzo su quei fatti è un modo per Esposito di chiudere il cerchio di una vicenda che lo ha segnato. Un argomento da thriller, nel più puro stile classico, nel quale Campanella guida lo spettatore in un duro e indimenticabile viaggio nel segreto degli occhi dei suoi personaggi, dove si rivelano amori taciuti e repressi, ossessioni, affetti incondizionati, smarrimenti e colpe e un finale inaspettato che ristabilisce la bilancia della giustizia. Campanella dirige i suoi attori con sensibilità e delicatezza ottenendo il meglio da loro; con una messa in scena di grande sobrietà e eleganza intreccia in modo magistrale una storia romantica e una storia criminale che si alimentano e sfidano costantemente in un iter narrativo impeccabile. Sebbene vi siano nel film sequenze tese e altamente drammatiche, il regista rifugge da ogni morbosità o facile effetto, tutto ha il sapore della verità che ci induce all’emozione.e alla partecipazione, attraverso l’uso sapiente di una macchina da presa che tra melodramma e cinema noir, tra ironia e compassione ci consegna una storia esemplare.
Lo sguardo dei bambini sulla storia, di cui spesso sono solo le vittime inconsapevoli, è stato utilizzato come efficace espediente narrativo sia in letteratura che al cinema. La cinematografia argentina ha immesso questo sguardo nell’epoca più dura della sua storia recente. Due film soprattutto hanno trattato una situazione fino al momento inesplorata, ossia la sofferenza dei figli dei perseguitati polici durante l’ultima dittatura, altre grandi vittime di quella insana violenza: Kamchatka e Infancia clandestina.

10 kamchatkaKAMCHATKA 2002

Kamchatka è un film argentino-spagnolo di impianto drammatico del 2002 diretto da Marcelo Piñeyro e interpretato da Ricardo Darín, Cecilia Roth, Tomás Fonzi, Matías del Pozo e Milton de la Canal. La sceneggiatura è di Piñeyro e Marcelo Figueras. Fu scelto per rappresentare l’Argentina ai Premi Oscar nella categoría Film in lingua straniera.
Siamo sempre negli anni oscuri dell’ultima dittatura militare (1976-1983). Di fronte alle ripetute sparizioni e assassinii del regime, una familia decide di rinchiudersi in una proprietà campestre lontana dalla città. Nonostante il suo nome esotico, Kamchatka non parla della Russia o dell’ Artico, ma di ciò che accade a una famiglia quando i militari gli stringono intorno il cerchio della repressione e cominciano a sparire amici, compagni di lavoro, familiari. La storia viene narrata con voce in off dal punto di vista dei due bambini, soprattutto del maggiore, interessante espediente narratologico ma anche approccio etico ai fatti: saranno infatti i bambini a mantenere viva la memoria familiare, depositari della lezione vitale che il padre consegna loro. Il film mostra con rigore l’angoscia che va crescendo al rendersi conto che le vie d’uscita si stanno sempre più restringendo e che un finale tragico si annuncia. Il tempo che la famiglia vive nascosta è un tempo di presagi che la regia ci fa vivere dentro questa storia familiare privata nella quale si infiltra insidiosa la grande Storia tragica di un paese in dittatura. La presa di coscienza dei personaggi di fronte alla violenza del regime trattata da una prospettiva intima, attraverso i ricordi del bambino Harry, si sviluppa in scene suggerenti dove il terrore resta implicito nelle strategie operate per la sopravvivenza, dove il gioco si mischia alla realtà. Nel momento in cui con la fuga da casa i bambini perdono tutto, i genitori si vedono nella necessità di armare una corazza che li protegga e di garantire per loro anche nelle circostanze avverse una parvenza di normalità. Entrare in clandestinità obbliga al cambio di identità, cosa non facile per dei bambini, ma il padre passo passo li guida e li istruisce in questa finzione che può salvare loro la vita. Attraverso l’amore, la musica, l’humor, piccoli insegnamenti che serviranno in caso di emergenza e per la vita, questa famiglia costruisce lacci profondi che diventano la parte più seducente del film.
Il padre gioca coi bambini un gioco da tavolo in uso negli anni ’70, sulle fughe del famoso Houdini, metafora evidente della loro stessa storia. Il gioco si chiama TEG (Piano tattico e strategico della Guerra) e lungo il film si converte in un leitmotiv di una guerra simulata in contrapposizione alla vera guerra che si combatte fuori dello spazio privato familiare. Nel gioco Kamchatka è il luogo del rifugio, il luogo dove si può resistere e che il figlio va interiorizzando per essere capace di affrontare le circostanze avverse, cosciente che tutto può drammaticamente cambiare ad ogni momento.
La fuga finale sarà la più dolorosa e drammatica di tutte. Nel film i riferimenti alla crudele dittatura che regge i destini del paese, sono molto pochi una volta che la famiglia giunge al suo rifugio, sicché il fuori funziona solo come miccia, come minaccia costante. Sotto questa minaccia e i limiti della clandestinità il giovane Harry abbandona man mano la sua ingenuità e comincia a comprendere la realtà in cui vive, proprio attraverso il gioco, la lettura e la costante relazione con i suoi genitori.
Il racconto filmico si muove tra dramma e umorismo, cifra frequente nel cinema argentino, con assenza di colpi bassi, infatti tutto il tragico accade lontano dagli occhi del bambino e quindi dello spettatore che vede attraverso il suo sguardo. La narrazione, centrata sull’intimità dei personaggi e i vincoli familiari, permette allo spettatore di identificarsi con loro, grazie anche alla recitazione coinvolgente di Ricardo Darín, Cecilia Roth e Tomás Fonzi, gli adulti e dei bambini, Matías del Pozo e Milton de la Canal, che si rivelano due autentici talenti attorali.

11 infancia-clandestina-INFANCIA CLANDESTINA 2012

Lo sguardo dei bambini sulla ferocia del mondo viene riproposto dieci anni dopo nel film Infancia clandestina, scritto e diretto da Benjamín Ávila e interpretato da Natalia Oreiro, César Troncoso, Cristina Banegas, Ernesto Alterio e Teo Gutiérrez Romero. Oltre a vincere numerosi premi è stato candidato all’Oscar e ai Premi Goya. Lo sfondo storico è sempre lo stesso, gli anni della dittatura e a raccontare è Juan, un bambino di 12 anni che vive in Argentina. Juan è clandestino e per questo è costretto a portare un nome diverso dal suo come tutta la sua familia: sua madre Charo, suo padre Daniel e il suo amato zio Beto. Juan si fa chiamare Ernesto e così lo conoscono nella scuola e nel quartiere. Agli occhi di tutti sembra vivere una vita normale mentre a casa, in apparenza una fabbrica di arachidi al cioccolato, assiste all’organizzazione di operazioni militari da parte dei suoi genitori e dei loro compagni di fede politica. Questa doppia identità lo porta a vivere in due mondi che convivono e spesso entrano in collisione, durante il periodo di controffensiva dei Montoneros nel 1979. I suoi genitori, appartenenti a questa organizzazione di guerriglieri rivoluzionari della sinistra peronista che lottava contro il regime fascista che governava il paese, sono per questo stesso obbligati alla clandestinità.
La vita di Juan cambia quando conosce Maria, una compagna di scuola, il suo primo amore e quando si rende conto che la sua doppia identità è diventata insopportabile e decide di accettare totalmente la clandestinità. Nel film ciò che risalta è la miscellanea di sentimenti come l’amore, l’allegria, il dolore, il coraggio, la paura dei personaggi che si mantengono costantemente umani e che ci viene trasmessa grazie anche alle tecniche cinematografiche utilizzate dal regista, come le musiche scelte, l’illuminazione, il chiaroscuro, il rallentamento delle riprese, i primi piani degli attori per sottolineare l’intensità di certi momenti. Innovatore si rivela l’uso del comic, i disegni animati di Andy Riva associati alle scene più importanti e più violente.
Inoltre il fatto di percepire la realtà sotto la prospettiva di un bambino ci colpisce e rende più partecipi: proprio perché nello sguardo dell’infanzia non ci sono connotazioni ideologiche o politiche, più fortemente siamo coinvolti nel dramma di un’innocenza ferita e messa alla prova. La minaccia ci pesa dentro ancor più perché non la vediamo in tutta la sua spaventosa entità come non la vede il bambino che solo ne soffre le conseguenze, privato della libertà e dell’identità. Juan prova ammirazione per suo zio Beto, lo osserva, lo ascolta e in un incontro quasi onirico in un momento del film il loro rapporto assume una significanza straordinaria, anche grazie all’interpretazione del giovane attore Teo Gutierrez Romero e di Ernesto Alterio, (figlio di Hector Alterio, uno de grandi del cinema argentino) nel ruolo dello zio, che disegna un cammeo indimenticabile, mostrandoci che il talento a volte si eredita.

12 el_clan-EL CLAN 2015

El clan (Il Clan) è un film argentino del 2015, scritto e diretto da Pablo Trapero, basato su un fatto di cronaca realmente avvenuto in Argentina, dove è noto come “il caso Puccio”. Ha vinto nel 2015 il Leone d’argento, Premio speciale della Giuria alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nel 2016 il Premio Goya al Miglior film straniero in lingua spagnola.
Il clan è un film che porta in scena quella che, con Hannah Arendt, definiremmo, certamente, la banalità del male: l’orrore a domicilio, il cinismo estremo, radicale e mortifero che si mimetizza nella quotidianità di una famiglia cosiddetta bene con aspirazioni di ascesa sociale. A metà tra la crime story e il noir, ci presenta una vicenda agghiacciante e quasi incredibile, ma i fatti rappresentati sono tutti veri e documentati. Siamo in Argentina, inizio anni Ottanta, subito dopo la fine della guerra delle Falkland (le Malvinas per gli argentini), un periodo difficile e ambiguo per un paese che non riesce a riprendersi del tutto dalla sua pagina più feroce, quella della dittatura militare e che vive il difficile trapasso verso la democrazia.
La storia che si racconta affonda nella cronaca nera del paese. Arquímedes Puccio, patriarca di una famiglia numerosa della media borghesia di Buenos Aires con cinque figli, tre maschi e due femmine, possiede un negozio di articoli sportivi e un bar ma realmente la sua fonte di reddito sono i sequestri. Il film ricostruisce, infatti, i quattro sequestri messi a punto dal clan Puccio, tre dei quali finiti in tragedia: le vittime, rapite a tradimento, venivano di norma segregate nella bella casa di famiglia, torturate, usate come esca di un lauto riscatto e assassinate, nonostante la promessa di una finale clemenza. In questa sua attività illegale Arquímedes, ex uomo dei servizi segreti, trova l’appoggio dei suoi superiori e insieme ad altri due complici decide di organizzare sequestri di persone facoltose, chiedendo riscatti esorbitanti ai familiari. Sfrutta per la sua attività la posizione sociale del primogenito Alejandro, detto Alex, brillante campione di rugby della squadra cittadina del CASI e della Nazionale argentina, perché individui i potenziali ostaggi. Tutta la famiglia sa e accetta l’orrore nascosto in cantina mentre rappresenta al piano alto la commedia della famiglia felice.
Il personaggio del padre, recitato splendidamente da Guillermo Francella, per molto tempo attore di commedie e ora efficace interprete di drammi, ci mostra sul suo volto quasi dolce, con una voce controllata e mai aggressiva, il perverso annidarsi del male in una quotidianità in apparenza inoffensiva, una coscienza dissolta che può integrare il torturatore più crudele al padre e allo sposo più affettuoso. La famiglia è unita, gentile, vede e accetta ciò che si consuma in cantina, tace, con i connotati di una famiglia normale che va a messa, si mostra comprensiva coi suoi membri, mantiene una, in apparenza, corretta vita sociale.
Il padre passa ore a scopare il marciapiede di fronte alla casa, i vicini lo immaginano un uomo pulito, attento, che si fa carico di aiutare sua moglie nelle faccende domestiche, ma in realtà quello che fa è coprire eventuali rumori che dalla cantina, che ha un piccolo sfogo di luce sulla strada, possano arrivare ad orecchie indiscrete, pulisce, parla, canticchia, una presenza simpatica e rassicurante per i suoi vicini. Un mostro sorridente, socievole che non ha rimorsi né dubbi di coscienza.
Trapero non sosta neanche un istante a “dibattere”, mostra la semplicità di quell’orrore che si nasconde dietro la facciata, l’orrore di Archímedes e della sua famiglia, della dittatura di cui si è nutrito e di cui condivide i valori. Non costruisce un discorso ideologico di critica o rifiuto dei fatti, alla Rossellini li mostra, lasciando allo spettatore il compito di comprendere individualmente l’atrocità che gli si racconta, di svelare il gioco della maschera che individui e governi indossano per nascondere il lupo sotto la pelle dell’agnello.

13 koblic_KÓBLIC 2016

Kóblic  è un film uscito nel 2016, scritto e diretto da Sebastián Borensztein e interpretato da Ricardo Darín, Oscar Martínez e Inma Cuesta, ​ premiato con due Biznagas de Plata nel Festval del Cinema di Malaga, una per Oscar Martinez come miglior attore non protagonista e l’altra alla migliore fotografia. Il regista sceglie per raccontare la sua storia il genere poliziesco che è uno dei favoriti del cinema argentino e chiama per i suoi personaggi chiave due attori carismatici come Darín e Martínez. Con elementi misti di western e cinema noir ci propone il dramma esistenziale e le implicazioni morali di un pentito dietro gli atroci fatti dell’ultima dittatura, in contrapposizione al cinema di testimonianza con cui si sono spesso raccontati quegli anni.
In pieno 1977, Tomás Kóblic (Ricardo Darín) è un capitano dell’Armata pentito di aver partecipato come pilota ai famigerati voli della morte. Afflitto dal rimorso decide di scappare. Con la scusa di aiutare un vecchio amico di suo padre a fumigare i raccolti, Kóblic arriva a Colonia Elena, un paese dell’interno bonarense sottomesso al repulsivo e corrotto commissario Velarde, ottimamente interpretato da Oscar Martinez. Lí conoscerà Nancy (la spagnola Inma Cuesta), una donna tormentata dai suoi propri segreti con la quale comincerà un appassionato legame.
Però quello che al principio sembra essere il primo passo per costruire una nuova vita finirà per condannarlo a rivivere gli oscuri fantasmi del passato. Kóblic sorvola con il suo aereo le coltivazioni da disinfettare, però, ogni volta che accende il motore e si innalza in volo, il suo passato lo tormenta e gli fa rivivere l’atrocità di ciò che ha fatto. Attraverso il flashback si ricreano per la prima volta nella storia del cinema argentino i crimini della dittatura con immagini laceranti, il tutto senza parole perché l’immagine è più che sufficiente a generare l’orrore.
Kóblic è un thriller, un poliziesco ma nella sua struttura scenica è sostanzialmente anche un western. C’è un paese sperduto, uno sceriffo prepotente che comanda, un forestiero che arriva a rompere gli equilibri consolidati. E come in ogni western i due uomini si affrontano in un duello senza pietà. Borensztein utilizza espedienti del western classico per presentarci un personaggio che assume il ruolo del rinnegato, del forestiero che cerca di mantenersi ai margini di una realtà che gli è estranea ma che alla fine lo catturerà. Nel ruolo Ricardo Darín ricrea la natura ambigua e taciturna del personaggio in una delle sue esemplari interpretazioni.
Il regista ci ha tenuto a chiarire durante la presentazione del film che sotto nessun punto di vista si è voluto redimere un militare complice del terrorismo di Stato, senza importare quanto sia pentito. Da mettere in particolare risalto è la fotografia. Il film è stato girato in gran parte a San Antonio de Areco che offre alla cinepresa le inquadrature di una campagna che diventa il paesaggio ideale della storia raccontata, dove le immagini sono di per sé significative nel silenzio rigoroso che le accompagna.
Il cinema argentino ha raccontato il periodo più oscuro della sua storia utilizzando tutti i generi narrativi, dal documentario al triller al poliziesco alla commedia noir al dramma, con un impegno civile costante nella costruzione della memoria di un paese e un impegno artistico di alto livello, capace di sceneggiature documentate e avvincenti, di sequenze e inquadrature indimenticabili, di montaggi arditi e eleganti, di personaggi costruiti in profondità e affidati a grandi interpreti come Federico Luppi, Victor Alterio, Ricardo Darín, Oscar Martinez, Norma Aleandro e tanti altri. In questo contesto ne abbiamo riportato solo alcuni esempi significativi, ma speriamo sufficienti per accendere l’interesse verso questa cinematografia ancora poco conosciuta in Italia.

___________

Grazia Fresu_fotoGRAZIA FRESU

Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo. È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto di Sheherazade, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al mio tempoche ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016. Ha partecipato a vari congressi con conferenze su temi di letteratura e problematiche culturali, educative e sociali e pubblicato i suoi saggi critici in atti congressuali e riviste specializzate. Ha inoltre realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia. Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove” e con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista