CINEMA ARGENTINO E DITTATURA – PARTE I (di Grazia Fresu)

5 La noche de los lapices

IL CINEMA ARGENTINO E LA DITTATURA

di Grazia Fresu

PRIMA PARTE

Il cinema argentino possiede una straordinaria varietà di tematiche e di stili narrativi, nonché notevoli talenti nella direzione e nell’interpretazione che ne fanno una delle cinematografie contemporanee più interessanti. Già uscito dai confini latinoamericani sta guadagnando sempre più consensi nel mondo, a cominciare dalla Spagna con cui si realizzano molte produzioni in comune.

Capace di raccontare storie di personaggi che vivono i loro personali problemi ma quasi sempre sullo sfondo della grande Storia, quella politica e sociale di un paese che ha vissuto numerose sfide, il cinema nazionale ha potuto affrontare il suo periodo più oscuro, quello dell’ultima dittatura militare dal 1976 al 1983, con le strategie discorsive e visive atte alla costruzione della memoria e della riflessione critica che l’avvento della democrazia finalmente permetteva. Il “Nunca mási (il mai piú) cinematografico ha saputo disseppellire i nefasti segreti del terrorismo di Stato e portare alla luce le testimonianze dei sopravvissuti alla repressione. E lo ha fatto producendo non solo opere di valore documentario ma anche film di alto valore artistico, capaci di intrecciare il privato e il pubblico con uno sguardo rigoroso, crudo a volte, ma sempre e comunque attento ai valori estetici della narrazione e della rappresentazione filmica.

Per comprendere a fondo il peso e il valore di questo cinema di testimonianza dobbiamo innanzitutto raccontare il clima sociopolitico in cui la dittatura prese piede. Tra il 1930 e il 1983 l’Argentina fu dolorosamente segnata da sei colpi di Stato (1930,1943,1955,1962,1966 e 1976) con brevi periodi di democrazie deboli e instabili. I golpes furono sempre realizzati dalle Forze Armate, in molti casi con il sostegno di civili, che imposero governi di fatto che bloccarono la vita costituzionale del Paese con l’obiettivo di “mettere ordine”.

La dittatura del ’76 ebbe origine durante il governo di Isabel Perón. Agli inizi del ’73 la situazione economica si fece precaria a causa della sospensione degli acquisti di carne da parte del Mercato Comune Europeo, la cui conseguenza fu la svalutazione della moneta locale, il peso, la caduta dei salari e l’aumento delle proteste sindacali. Il ministro dell’economia, Alfredo Gómez Morales, rinunciò e al suo posto fu designato Celestino Rodrigo, che elaborò un nuovo piano economico dalle conseguenze disastrose. Per imporre le impopolari misure economiche alla popolazione e mettere a tacere le proteste, un settore del governo si dedicò a perseguitare intellettuali, artisti, attivisti sindacali considerati di sinistra. Questa persecuzione illegale fu portata avanti da elementi clandestini organizzati nella Alleanza Anticomunista Argentina, la famigerata triple AAA, diretta dal Ministero del Benessere Sociale a carico del brujo (stregone) José López Rega.

Il 24 marzo del 1976 un colpo di Stato militare abbattè il governo costituzionale di Isabel Perón dando inizio a una dittatura che insaguinò il Paese per sette anni e che la Giunta Militare che assunse il potere chiamò “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. La feroce repressione che ne seguì causò circa novemila morti, trentamila desaparecidos (scomparsi) e migliaia di esiliati costretti a scappare dal Paese e fu implacabile contro tutte le forze democratiche, politiche, sociali, sindacali e culturali. Lo scopo era quello di sottomettere la popolazione mediante il terrore in modo che nessuna voce dissidente potesse sopravvivere. Per il regime tutti potevano essere inclusi nella categoría di “nemici della nazione”.

Questa che fu chiamata la guerra sucia (guerra sporca) utilizzò come metodo operativo una pratica sinistra, fuori di ogni legalità, la sparizione sistematica di persone che venivano sequestrate da comandi paramilitari con azioni pianificate e portate in centri di detenzione clandestina dove, prive di qualsiasi diritto, erano sottoposte a interrogatori condotti attraverso torture fisiche e psicologiche. Molti di questi prigionieri ancora vivi ma sedati venivano poi caricati sui “voli della morte” su aerei e elicotteri militari che li gettavano nelle acque del Rio de la Plata. Altri morti venivano seppelliti in fosse comuni senza nessun tipo di identificazione. La pratica della desaparición, cancellando l’identità della vittima finiva per proteggere anche quella del suo carnefice. Senza habeas corpus era impossibile accusare i colpevoli. Oltre al sequestro di adulti si realizzò un piano sistematico di appropriazione dei bambini rubati alle madri che partorivano nei centri di detenzione e che furono denunciati come figli dei repressori o venduti e abbandonati in istituti. La crudele paranoia dei militari considerava che i figli dei desaparecidos dovevano perdere la loro identità, poiché pensavano che la sovversione fosse ereditaria e si trasmettesse attraverso il vincolo familiare. Allo stesso modo, cancellando l’identità dei dissidenti, credevano di poter spezzare il legame di questi con la società, lasciandola orfana di quei valori in cui essi credevano.

Il cinema argentino, come nella Germania nazista e nell’Italia di Mussolini, doveva servire come veicolo di propaganda per gli obiettivi della dittatura, mostrando una Argentina che aveva sconfitto la violenza e aveva trovato la via della pace e della prosperità, niente di più lontano da ciò che stava accadendo. La dittatura aveva urgente necessità di migliorare la sua immagine e di promuovere la confidenza nell’ordine repressivo. Si mise allora in marcia un dispositivo per manipolare la produzione cinematografica, esercitando una ferrea censura e impedendo l’accesso ai finanziamenti. Il governo militare utilizzò in modo sistematico i mezzi di comunicazione come spazio di costruzione di un discorso ufficiale che sotto il concetto di “sicurezza nazionale” eliminava tutte le voci dissidenti.

Questa censura fu, in ambito culturale, più forte sul cinema, la radio e la televisione, perché ad essi accedeva più pubblico di quanto non accedesse alla comunicazione scritta di articoli, saggi o opere letterarie. Nonostante questo, alcuni film giunsero inaspettatamente a superare le barriere censorie, data la rozzezza dei censori incapaci di percepire le allusioni al regime nascoste in tratti allegorici e ironici. Il linguaggio filmico adottò una certa ambiguità che rispondeva a fini specifici,“dire senza nominare”, permettendo così attraverso l’allusione e l’eufemismo di parlare di ciò che era proibito.

1 la_hora_de_los_hornos_LA HORA DE LOS HORNOS 1968

Un antecedente famoso di questa cinematografia dell’impegno civile e politico fu La hora de los hornos (L’ora dei forni), esempio insuperato di cinema militante latinoamericano il cui processo di realizzazione inizia nel dicembre 1965 e dura oltre due anni. In questo periodo Fernando Solanas, Octavio Getino e successivamente Gerardo Vallejo, raccoglieranno per tutta l’Argentina immagini, testimonianze e informazioni che confluiranno nel grande affresco dell’opera. Il lavoro consisteva in un processo di compilazione e organizzazione del materiale di archivio, di registrazione di testimonianze di militanti sindacali e politici, protagonisti della cosiddetta “Resistenza” peronista, di alcuni intellettuali e dirigenti studenteschi. La fase politica in Argentina all’epoca è contraddistinta dalla dittatura del generale Juan Carlos Onganía, regime militare caratterizzato da una forte matrice repressiva e da un grande controllo sulla vita pubblica del paese. Per questo motivo la genesi del film si sviluppa, se non in maniera clandestina, quanto meno in maniera silenziosa.

Quando Fernando Solanas e Octavio Getino presentano La hora de los hornos il 3 giugno del 1968, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il film diventa, fin da subito, il più importante documentario latinoamericano, una pietra miliare nella storia del cinema, non tanto e non solo per le proprie caratteristiche innovative a livello estetico, ma anche per il dirompente potenziale politico e militante. Siamo nel pieno della protesta libertaria e rinnovatrice che dai movimenti di Berkeley del ’64 a quelli europei del ’68 va rapidamente propagandosi per tutto il mondo.

La hora de los hornos si propone di leggere la storia economica, politica e culturale argentina e sudamericana con l’obiettivo, non tanto di osservare e descrivere la realtà del paese e del continente, quanto piuttosto di intervenire su di essa in una matrice rivoluzionaria. Il suo elemento più significativo e innovativo, ancora oggi quasi inedito nell’ambito del cinema militante, è la dimensione di cine-atto, che viene assegnata al momento della proiezione. Nella dinamica delle presentazioni pubbliche vengono incorporati dei momenti di pausa del film, come spazi adibiti alla dialettica tra gli spettatori; situazioni solitamente guidate da alcuni militanti del gruppo Cine Liberación con funzioni di stimolo e supporto alla discussione.

La hora de los hornos è un film che si pone come avanguardia politica e formale, opera rivoluzionaria sia per i contenuti sia per le modalità estetiche. Il fatto di essere contemporaneamente populista a livello politico e di avanguardia nelle strategie narrative, lo pone nella paradossale condizione di essere uno strumento filmico sperimentale e al tempo stesso un film di massa.

Oltre all’ingente perdita di vite la dittatura si macchiò della distruzione economica dell’Argentina generando alla fine del 1979 una forte inflazione e il fallimento di molte banche. Il risultato delle politiche economiche di quest’epoca fu uno dei maggiori disastri nella storia del Paese: distrusse l’industria nazionale e produsse l’impoverimento, mai visto prima, della popolazione. Per finanziare il consumo e il funzionamento delle imprese pubbliche la dittatura fece crescere il debito estero da 7.800 a 45.000 milioni di dollari, con i quali alimentò la cosiddetta “Plata dulce” (denaro facile), favorendo soprattutto l’importazione di prodotti esteri e senza realizzare nessuna riforma strutturale, con il risultato unico di distruggere tutto il tessuto sociale e produttivo del paese.

In piena dittatura, non essendo possibile affrontare temi come la repressione e i desaparecidos, si girarono due film come Tiempo de revancha (Tempo di rivincita) e Plata dulce (Denaro facile) che costruirono due storie allegoriche intorno alle misure economiche messe in atto. All’ottusa censura dell’epoca sfuggì, anche per l’uso dell’ironia nel racconto, il reale messaggio in esse contenuto. Non sfuggì al pubblico che ne decretò il successo. Nella cinematografia argentina con molta abilità si utilizza il binomio shakesperiano “commedia-dramma” e il pubblico è abituato a leggere avvenimenti e prodotti culturali attraverso queste due lenti che favoriscono la fruizione anche di tematiche molto complesse, senza che per questo esse vengano banalizzate o trattate superficialmente.

2 tiempo_de_revancha-TIEMPO DE REVANCHA 1981

Tiempo de revancha (Tempo di rivincita) può essere considerato il film di maggior rilievo di quel periodo, uscito in piena dittatura. Scritto e diretto nel 1981 da Adolfo Aristaraín, interpretato da Federico Luppi, uno degli attori di spicco della cinematografia nazionale, guadagnò nel 1982 molti premi nazionali e internazionali, tra i quali il Primo Premio del Festival del Cinema dell’Avana, il Gran Premio delle Americhe del Festival Mondiale del Cinema di Montreal e i Cóndor de Plata al Miglior attore, Miglior direttore, Migliore sceneggiatura originale e Miglior film dell’Associazione Argentina dei Critici di Cinema. Sulla locandina del film appariva impressa una frase che era già un potente atto d’accusa contro il regime: “Un hombre honesto es hoy, algo muy peligroso” (Un uomo onesto è oggi, qualcosa di molto pericoloso).

La prima sequenza filmica mostra la facciata della società argentina così come la dittatura la presenta. Si vedono le strade del centro di Buenos Aires affollate di gente che ammira le vetrine piene di mercanzia e Babbi Natale giocattolo. La banda sonora propone un canto di Natale che un coro di bambini esegue con puntuale innocenza. Con una sequenza simile si chiuderà anche il film, la camera torna ad affacciarsi sulle strade e i marciapiedi dove si consuma il falso rito di un Natale di pace e prosperità. “Tiempo de revancha”, cíclicamente, comincia e finisce a Natale con l’immagine di un Babbo Natale meccanico che scrive una lettera e dietro di lui, fuori fuoco, sbiadita, la bandiera argentina. Metafora evidente di un paese che si trova stretto nella morsa di una grande menzogna e la cui bandiera nazionale è ormai un drappo che svanisce sul fondo, tradita da quegli stessi che la rivendicano come simbolo patrio.

L’uomo onesto di cui si parla nel film è Pedro Bengoa, un ex sindacalista che dopo cinque anni di inattività accetta di lavorare como addetto a far brillare le mine in una miniera in Patagonia, proprietà di un’impresa multinazionale corrotta, la Tulsaco. In cerca di denaro per sopravvivere, accettando il lavoro alla Tulsaco, Bengoa, coscientemente, ha dato inizio alla rimozione del suo passato di leader sindacalista e difensore dei diritti dei lavoratori, per l’attuale versione di entità “senza impiego, apolitica e priva di ideología sociale”.

Con sua moglie, si trasferisce in Patagonia dove ha sede la miniera. Qui si respira un’aria di forte tensione a causa delle numerose morti accadute in conseguenza della trascuratezza nella collocazione delle cariche di dinamite necessarie a rimuovere i grandi blocchi di pietra. Quando un ingegnere gli ordina di collocare più cariche di dinamite del necessario, Bengoa si nega. A partire da questo momento Tiempo de revancha, che si era mosso fino ad ora sui parametri di un film da humor negro, diventa un film di denuncia sociale, soprattutto quando l’esplosione causa la morte di due minatori e Pedro come reazione colpisce l’ingegnere che aveva ordinato l’aumento delle cariche.

La Tulsaco non vuole che durante l’investigazione che segue alla tragedia si filtrino dettagli che possano incolparla dei fatti e quindi comincia a corrompere i lavoratori con offerte di denaro per comprare il loro silenzio. Bengoa decide allora di promuovere un’azione contro la Tulsaco e la propone al suo compagno Bruno che accetta. Il piano è audace e assurdo allo stesso tempo, certamente degno di un film di humor negro: consiste nel restare nascosti nella miniera dentro una nicchia di pietra dopo l’esplosione e al momento del riscatto fingersi muti e con lesioni psicologiche post-traumatiche per richiedere 300.000 dollari di indennizzazione all’impresa.

Per confermare che sta disposto a tutto Bruno preme una sigaretta accesa sul suo braccio: “lo sopporto tutto senza parlare”. Però nell’atto di prodursi l’esplosione, cerca di uscire dal recinto di pietra che lo protegge e questo gli costa la vita. Bengoa, restato solo e al buio attende gli aiuti. Una volta riscattato, mette in esecuzione il suo piano. Freddamente, metodicamente, mese dopo mese,  davanti a tutti, persino a sua moglie, finge di essere muto.

Nonostante l’angoscia e la sofferenza che lo tormentano nei vari esami medici, nelle sessioni con i poligrafi della polizia e nelle udienze del giudizio, resiste. Sa che se fallisce, se emette una sola nota, sarà perduto. Ma vince la sua battaglia, riceve i dollari, compra un biglietto aereo e attraversa felice le strade della città in pieno clima natalizio. Arrivato in hotel per la prima volta in mesi si permette dieci minuti di scarica emotiva e di relazione amorosa con sua moglie. Eppure Bengoa sa che la Tulsaco non se ne resterà a braccia conserte da sconfitta e farà di tutto per portare a termine il suo tempo di rivincita. In un momento di assenza di sua moglie, nel bagno dell’hotel prende tra le mani il suo affilato rasoio mentre nel ricordo ascolta le parole che siglarono il patto tra lui e Bruno, “Io resisto senza parlare”, tira fuori la lingua e se la taglia a metà. Su questa immagine terribile di moderno Edipo scorrono i titoli di coda del film.

Il pubblico e la critica decifrarono il film in tutta la sua valenza simbolica e nei suoi riferimenti all’attualità d’orrore che il paese viveva. Tutto raccontava il presente, a cominciare dal titolo, i grandi silenzi del film, il mutismo come arma di lotta, la mutilazione per resistere, i dialoghi laconici tra i personaggi, la musica contrappuntata dalle esplosioni della dinamite, i tanti morti della lontana miniera patagonica. Tutto in Tiempo de revancha, attraverso una narrazione visuale diretta, eloquente e misurata insieme, realista e allo stesso tempo simbolica, denunciava i delitti dello Stato, la corruzione del potere, la resistenza silenziosa.

3 plata-dulce-

PLATA DULCE 1982

Plata dulce (Denaro facile) ripropone il connubio commedia-dramma, diretto nel 1982 da Fernando Ayala e ha come protagonista di nuovo Federico Luppi, oltre a Julio de Grazia e Gianni Lunadei. Ricevette nel 1983 il Cóndor de Plata a Miglior film. Attraverso l’umorismo si mostrano le perverse conseguenze delle politiche economiche portate avanti da Martínez de Hoz e dai suoi successori durante la dittatura di Jorge Videla. Il film diede un apporto significativo alla comprensione di un fenomeno che si ripete con frequenza nel dibattito economico argentino, presentando, in maniera assimilabile a livello popolare, la discussione sopra il potere acquisitivo ottenuto artificialmente col mantenere bassa la quotazione del tipo di cambio monetario.

Il nome “plata dulce” indicava che gli argentini di classe alta potevano spendere in dollari, preferibilmente nella città di Miami, comprando articoli costosi e permettendosi numerosi viaggi all’estero con estrema facilità. Il momento storico eletto per dare inizio alla vicenda è il campionato di calcio del 1978, quando l’idolatria per il denaro aveva raggiunto contorni inusitati e gli argentini parlavano continuamente di investimenti finanziari, dollari e viaggi all’estero. Amalgamando con equilibrio l’aspetto testimoniale con la tragicommedia e la satira di costume, Ayala situa in questo contesto storico i suoi personaggi protagonisti: Carlos Teodoro Bonifatti (Luppi) e Ruben Molinuevo (De Grazia), padroni di una piccola fabbrica di armadietti chiamata Las Hermanas (Le sorelle), che tentano di mantenere in piedi di fronte agli assalti della politica economica di disindustrializzazione del paese che la dittatura va imponendo. Ma la vita dei due prende a un certo punto strade diverse. Carlos Teodoro Bonifatti, opta per la “nueva Argentina”. La chiave magica gliela dà un vecchio compagno del servizio militare, diventato un gerarca delle finanze, che lo invita a participare ai suoi affari. Bonifatti decide allora di abbandonare la fabbrica e dedicarsi alle speculazioni finanziarie che sono ben viste dal regime. Nel frattempo l’altro socio, Rubén Molinuevo, uomo semplice, onesto, che (si) resiste a questa nuova Argentina, s’impegna a continuare con la fabbrica. Al principio i fatti sembrano dare ragione a Bonifatti, che migliora notevolmente il suo stile di vita: auto nuova, casa nuova e amante che fa status sociale tra le persone facoltose. Lo si vede in una scena uscire dall’Areoporto di Ezeiza a Buenos Aires con un carrello carico di televisori, apparecchi tecnologici vari e lo si ascolta pronunciare una frase emblematica dell’ubriacatura collettiva sulla falsa economia del regime: “La quantità di gente che c’era. È che ora con il dollaro a buon mercato è un fenomeno viaggiare. Sai come ci aspettano lì. E chiaro, ora si è capovolto tutto. Ora non andiamo a chiedere soldi a nessuno, quelli che mettono i dollari siamo noi, gli argentini”.

Ma a breve tempo si produce un avvenimento insperato che gli cambierà la vita. La plata dulce si rivelerà uno spaventoso inganno che affossa i sogni di grandezza del protagonista e quelli di un intero paese. A fine dittatura, molti film di vario genere mostrarono la devastazione operata nel Paese dai sette anni del Processo di Riorganizzazione Nazionale.

4 La historia oficial

LA HISTORIA OFICIAL 1985

Il primo film della democrazia argentina che ebbe ampia diffusione anche all’estero fu La historia oficial (La storia ufficiale) di Luis Puenzo, presentato nel 1985 in concorso al 38º Festival di Cannes, ha vinto il Premio della Giuria Ecumenica ed è valso a Norma Aleandro, coprotagonista insieme a Héctor Alterio, il premio come migliore attrice straniera. Nel 1986 vinse l’Oscar al miglior film straniero. E nel 1987 il David di Donatello per migliore attrice straniera fu assegnato a Norma Aleandro. Vi si racconta uno degli episodi più neri della dittatura: l’ adozione da parte di militari o persone vicine al regime dei figli dei desaparecidos.

Nell’ultimo periodo della dittatura una docente di storia comincia un doloroso cammino alla scoperta della verità, non solo la sua familiare ma quella del paese in cui vive e di cui non ha percepito l’immane tragedia. Il ritorno di un’ amica esiliata, la scoperta dei torbidi legami di suo marito con il potere militare e la comparsa di una Abuela (nonna) de Plaza de Mayo che cerca sua nipote la portano a un’autentica presa di coscienza e a scoprire che la sua figlia adottata, portatale a casa dal marito anni prima, è in realtà nata in un centro di detenzione clandestina e rubata a sua madre.

Il film porta avanti una denuncia pacata e tutta dall’interno, condotta con calore e tensione e proprio per questo la reazione dello spettatore si fa pervasa di una appassionata ribellione agli eventi che gli si mostrano. Il racconto intenso e emozionante trova forza anche in un linguaggio visivo particolarmente ispirato e vivido, sorretto da musiche mai sottolineanti o invasive. Molto deve anche ai due eccezionali protagonisti: Norma Leandro e Victor Alterio, due grandi del cinema e del teatro argentino. Secondo Norma Aleandro, la sua Alicia ha potuto catalizzare un processo di identificazione per otto spettatori argentini su dieci perché non è dalla parte dei carnefici ma nemmeno delle vittime, allo stesso modo della maggioranza della popolazione argentina. Da qui lo straordinario successo del suo personaggio e del film.

Forse nessun film come questo, nel cinema nazionale, si connette con la propria epoca in modo così chiaro come La historia oficial lo ha fatto con il recupero della democrazia e lo svelamento degli orrori della repressione. La decisione di Puenzo e della sceneggiatrice Aída Bortnik di raccontare la storia del sequestro di neonati attraverso una madre come Alicia, inconsapevole di essere una appropriatrice illegale dei figli altrui, è stata quella giusta per rifondare la società argentina che voleva uscire dalla violenza che l’aveva connotata per anni. Il film di Luis Puenzo assolse questo compito in maniera brillante.

Esteticamente, il film appartiene a un ciclo del cinema argentino che comincia a concludersi a metà della decade del ‘90, momento in cui si produce una grande rinnovazione del linguaggio filmico e dell’approccio ai temi riguardanti la dittatura, ed è una delle migliori espressioni di quella tradizione. l film si articola attraverso il succedersi di scene drammatiche di alta intensità nelle quali i personaggi si mostrano in tutte le loro coordinate ideologiche e sociali, rivelando per altro un’umanità che soffre sotto il peso di un’identità che la Storia mette in crisi costante.

Particolarmente interessante è anche la presenza dell’amica di Alicia, Ana, interpretata da Chunchuna Villafañe, che è stata esiliata e ha un marito militante desaparecido. In lei si incarna la nobiltà morale del film verso la quale viaggia il personaggio di Alicia nel suo processo di conoscenza e assunzione della verità. A lei dobbiamo la formulazione della teoria dei due demoni più chiara che si sia espressa pubblicamente, accettata da molta popolazione argentina, per cui dirà ad Alicia, parlando dei loro due mariti che la Storia ha posto su lati diversi della barricata, “Sono due facce della stessa moneta, per questo si odiavano tanto”. Nel film troviamo anche il tema della violenza di genere e delle relazioni abusive in ambito familiare, difficilmente trattate all’epoca, mostrando come la violenza pubblica e quella privata si specchino l’un l’altra in un processo di inestricabile simbiosi.

5 La noche de los lapices

LA NOCHE DE LOS LAPICES 1987

La noche de los lápices (La notte delle matite spezzate, in italiano) di Héctor Olivera venne selezionata nella competizione ufficiale del Festival Internazionale del Cinema di Mosca del 1987 e nominata per il massimo premio, il San Jorge de Oro. Il film, interpretato da attori giovanissimi, racconta attraverso la voce e la presenza di un sopravvissuto, Pablo Diaz, la storia di un gruppo di studenti adolescenti che nella città di La Plata (capitale della Provincia di Buenos Aires) il 16 settembre 1976 furono sequestrati, torturati e successivamente uccisi dai militari, con la sola colpa di aver protestato pacificamente per l’aumento del biglietto d’autobus e per aver chiesto un biglietto per studenti ridotto, davanti al Ministero delle Opere Pubbliche, in una manifestazione cui parteciparono gli studenti delle Scuole Superiori della città riuniti nell’associazione UES (Unión Estudiantes Secundarios). La notte delle matite fu il nome che i militari stessi diedero a quell’operazione repressiva, dal momento che la maggior parte degli studenti sequestrati appartenevano a un’Istituto d’Arte.

La giovane età dei protagonisti e la causa irrisoria che generò il loro sequestro rendono questo film un’accusa ancora più atroce dei crimini della dittatura. Il caso fu conosciuto pubblicamente nel 1985, dopo la testimonianza di Pablo Díaz, uno dei sopravvissuti, nel Giudizio contro la Giunta militare. Inoltre Díaz partecipò alla creazione del soggetto e della sceneggiatura. Il film costruisce la storia dall’inizio delle proteste studentesche, dal 1975 al 1980, quando l’unico sopravvissuto del gruppo fu liberato. Ci si mostra, nella prima parte, una normale vita di adolescenti tra casa e scuola, aprendosi all’amicizia, all’amore e alla política; nella seconda parte soprattutto la prigione dove i ragazzi sono rinchiusi e torturati, le loro paure, le loro speranze, i rapporti tra loro, cercati sempre tra mille difficoltà, i loro corpi che si ostinano a muoversi negli spazi ristretti in cui li hanno rinchiusi, la sofferenza della solitudine, l’incomprensione per il loro destino. I volti giovani ed espressivi degli attori ci mostrano l’esperienza atroce di un’innocenza offesa e martoriata, la lotta interna di ognuno per non cedere alla pressione, il sostegno cercato negli altri per dare un senso alle proprie azioni e resistere. Con questa storia si rivelava una volta per tutte che la violenza di Stato non era, come si cercava di far credere, contro una ribellione armata che lo metteva in pericolo, ma contro ogni forma democratica di dissenso, anche da parte di soggetti molto vulnerabili come nel caso di questi adolescenti che non rappresentavano nessun pericolo. È fondamentale darsi conto che i racconti sulla dittatura che questo film ci mostra rientrano perfettamente nel contesto politico nel quale fu prodotto, scardinando le due interpretazioni vigenti del terrorismo di stato, la “teoría della guerra” contro i sovversivi del sistema sostenuta dai militari e la successiva “teoria dei due demoni” che metteva sullo stesso livello i montoneros e i militari al potere.

Per la prima volta inoltre si tratta in maniera esplicita la violenza sessuale subita nei centri di detenzione clandestina. Si mostrano l’obbligo delle donne di lavarsi nude di fronte ai loro carnefici, i commenti lascivi sui loro corpi, il parto in prigionia e la violazione di una studentessa che pronuncerà nel film la frase che rivela il danno morale oltre che fisico che ha sofferto. Dirà al suo amico rinchiuso nello stesso carcere, che le chiede di fidanzarsi con lui, una volta usciti: “Non ho più niente da darti. Nella tortura hanno abusato di me davanti e dietro. Non ho niente da darti”. Questa forma di interpretare la violenza sessuale, confinante con la colpevolizzazione delle vittime non è esclusiva de La Noche de los lápices ma ha a che vedere con il modo in cui questa forma di violenza era pensata e anche con il momento della memoria in cui la si scriveva.

La maggioranza delle sopravvissute raccontano esperienze simili. Ma all’epoca non trovavano cornici sociali di ascolto per i loro tremendi racconti. Ne La noche de los lápices, così come anche nella stampa dell’epoca e nelle testimonianze delle sopravvissute, si vedeva e si dava inoltre per acquisito che le donne sequestrate nei centri clandestini avessero subito violenza sessuale. Però l’interesse non si soffermava sul tema, come se si considerasse ovvio che donne private della loro libertà subissero violenza, ma d’altra parte risultava intollerabile ai più ascoltarne le testimonianze. Si sapeva tutto però non se ne parlava se non molto poco perché mancavano gli strumenti per l’ascolto. Per questo ci furono vittime che scelsero il silenzio. Per fortuna altre osarono denunciare pur nell’ascolto limitato che tendeva a colpevolizzarle.

6 un muro di silenzioUN MURO DE SILENCIO 1993

Un muro de silencio (Un muro di silenzio) è un film del 1993, coprodotto tra Argentina, Gran Bretagna e Messico, diretto da Lita Stantic su sua sceneggiatura in collaborazione con Graciela Maglie, che ha come protagonisti Vanessa Redgrave, Ofelia Medina, Lautaro Murúa, Lorenzo Quinteros e Soledad Villamil.

Una regista inglese, Kate Benson, interpretata da Vanessa Redgrave, arriva a Buenos Aires durante il 1990 per filmare la storia di Silvia Cassini, interpretata da Soledad Villamil, la moglie di un militante peronista desaparecido durante la dittatura militare. Insieme hanno avuto una figlia, Maria Elisa. Le riprese del film ravvivano dubbi e paure. Il presente di Silvia è molto diverso da quel suo passato che il film vuole mostrare. È sociologa e si dedica all’insegnamento. Sua figlia è già un’adolescente e lei ha un nuovo compagno, Ernesto, interpretato da Lorenzo Quinteiros, che ha sempre mantenuto lontano dal suo passato.

Un’amica racconta a Silvia che stanno girando un film sulla sua storia. La sua vita nuova, a fatica ricostruita, crolla, i ricordi ritornano con forza, portano dolore, riaprono cicatrici. Il film tesse insieme due storie complementari, o per meglio dire, una sola che ricrea l’anteriore e fonde il passato col presente. Gli esterni del film sono spogli, mostrano fabbriche abbondonate, probabili centri di detenzione clandestina, la città è melanconica, le manca colore; gli interni sono austeri, l’ambientazione fredda e oscura; tutto questo mostrato attraverso una fotografia eccellente che intensifica la solitudine, il dolore contenuto e la generale mancanza di protezione dei personaggi. Un muro de silencio contiene momenti intimi della vita di Lita Stantic. Lei e suo marito, il cineasta Pablo Szir, furono anche militanti negli anni sessanta. Lui optò per la lotta armata, fu perseguitato ed è desaparecido. Lei, insieme alla sua piccola figlia, riuscì a salvarsi, rifece la sua vita e si dedicò al cinema.

Nonostante questo sia il suo primo lungometraggio, la regista si rivela abile nel gestire storia e linguaggio fílmico. Mantiene la camera a una certa distanza dai personaggi, li osserva, mette loro in bocca dialoghi intensi, li obbliga a guardare il proprio passato guidandoli a una esplorazione lucida dei processi politici che hanno sconvolto le loro vite. Nessun sentimentalismo, né morti, né torture. L’orrore sta nelle ferite dell’anima che non guariscono. Sta in quel muro di silenzio che avvolge ancora per molti aspetti i processi rivoluzionari degli anni settanta, silenzio che per paura si è installato nella società argentina, ancora presente in Silvia che nasconde la sua storia reprimendola, ancora presente oggi nella rimozione di chi dice “Basta! È già accaduto. Non parliamone più”. Ma sua figlia vuole abbattere quel muro, vuole sapere e chiede a sua madre “La gente sapeva?”. “Tutti sapevano” le risponde Silvia e la giovane piange assumendo la memoria e il dolore.

Girare il film non fu facile, si viveva in piena crisi economica e il 4 giugno del 1987 il governo aveva promulgato le leggi di Punto final (Punto finale) e Obediencia debida (Obbedienza dovuta) che davano l’indulto ai repressori e li liberavano da ogni responsabilità, leggi che furono abolite durante il governo di Nestor Kirchner. Solo la determinazione della sua regista e capitali stranieri ne permisero la realizzazione. Un muro de silencio parte dall’ esperienza autobiografica di perdere una persona amata per mano della repressione di Stato, ma aggiunge la difficoltà addizionale di rappresentare le barriere emozionali che i sopravvissuti dovettero superare per poter processare il proprio passato attraversando un dolore inenarrabile. Il film è ancora oggi uno dei più complessi e rigorosi approcci al tema.

_________________

Grazia Fresu_fotoGRAZIA FRESU

Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo.

È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto di Sheherazade, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al mio tempoche ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016.

Ha partecipato a vari congressi con conferenze su temi di letteratura e problematiche culturali, educative e sociali e pubblicato i suoi saggi critici in atti congressuali e riviste specializzate. Ha inoltre realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia.

Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove” e con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società.

i

Nunca más”(mai più) è un libro che raccoglie la documentazione della Commissione Nazionale Argentina sopra la sparizione di persone durante la dittatura. Conosciuto anche come Documento Sabato, dal nome dello scrittore Ernesto Sabato che come presidente della Commissione lo consegnò il 20 settembre del 1984 all’allora Presidente Raúl Alfonsín. Il titolo fu proposto da Marshall Meyer perché nunca más fu il lemma utilizzato originariamente dai sopravvissuti del Ghetto di Varsavia per ripudiare le atrocità del nazismo.

Immagini di copertina e nell’articolo a cura di Grazia Fresu.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista