Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo come se ci fosse estraneo.
Con queste parole Christa Wolf (1929-2011), nel 1976, apre il suo romanzo Trama d’infanzia. Un romanzo che, nella Repubblica Democratica Tedesca degli anni Settanta del secolo scorso diventa molto di più.
Trama d’infanzia rappresenta un monumento alla memoria, individuale e collettiva, perché è la storia di una vita, di un’infanzia, di una guerra, di molte guerre.
Nell’anno della sua pubblicazione, Christa Wolf è già un volto noto nella scena letteraria tedesca, tra le sue opere più conosciute troviamo già Riflessioni su Christa T. (1968) e Il cielo diviso (1975)
Scrivere un romanzo che parla di guerra è un’impresa tutt’altro che facile, specie quando la ferita è ancora aperta e quando i ricordi dell’infanzia si mescolano a quelli del presente, quando ricordare diventa un disperato tentativo di non staccarsi da quel passato.
Christa Wolf ha dieci anni quando scoppia la Seconda guerra mondiale, un avvenimento che travolge inesorabilmente la sua famiglia.
Nata nel 1929 a Gorzów, in Polonia (allora Germania), subisce sin da bambina il fascino del nazionalsocialismo, che entra nella sua casa, penetrando nella quotidianità della famiglia. Suo padre, proprietario di un negozio di alimentari, già nel 1933 entra a far parte del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP).
La bambina impara a leggere, a scrivere e a fare il saluto nazista, e già all’età di dieci anni si unisce alla Lega delle Ragazze Tedesche (BDM), partecipando attivamente a eventi e iniziative della Gioventù Hitleriana, contro il parere di sua madre. La madre è la sola ad avere riserve nei confronti del Führer. Lo scoppio della guerra porta disordine e dolore nella sua famiglia, che vede il padre partire per il fronte, nel 1939. Ma il dramma non si ferma qui, infatti alla fine della guerra, con l’avanzata delle truppe sovietiche, l’adolescente Christa è costretta a subire la tragedia dei profughi provenienti dalla parte orientale del Terzo Reich. Una peregrinazione che troverà fine solo nel 1946, quando la famiglia di stabilisce in Turingia.
Nonostante, a causa dei vari spostamenti e di una tubercolosi, i suoi studi vengano spesso interrotti, la giovane Christa porta avanti la sua formazione intellettuale, apprezzando in particolar modo, in questo periodo, le poesie di Goethe.
Una formazione, la sua, che la porterà a rimettere in discussione tutte le convinzioni della bambina che con tanta ammirazione guardava il nazionalsocialismo, fino ad entrare a far parte, a diciannove anni, della Libera Gioventù Tedesca (FDJ), prima, e sella Socialdemocrazia (SPD), poi. La bimba che imparava il saluto nazista sta per diventare una delle voci più illustri nel panorama letterario tedesco.
Queste brevi informazioni biografiche sono fondamentali per comprendere un romanzo tanto complesso come Trama d’infanzia, che, nonostante sia il racconto di esperienze vere di questa infanzia difficile, non può essere definito un’autobiografia.
I personaggi che troviamo, infatti, hanno nomi inventati, il luogo in cui si svolge il viaggio non ha nome: L., oggi G. Ed è la stessa autrice a specificare che tutti i personaggi di questo libro sono invenzioni della narratrice.
La narrazione si sviluppa su tre livelli temporali, che non sono separati tra loro ma si mescolano nella memoria della narratrice: una donna che, a quarantadue anni, decide di intraprendere un viaggio attraverso i luoghi della sua infanzia, accompagnata da suo marito H., sua figlia adolescente Lenka e suo fratello Lutz.
La figura centrale, la narratrice mescola ricordi, riflessioni e memoria in un flusso di emozioni paradossalmente razionale, come un grande monologo.
Ecco, quindi, comparire Nelly, la bambina che a dieci anni vive il dramma della guerra, della separazione dal padre e che viene travolta dall’ondata nazionalsocialista che infiamma la Germania. Nelly è la figura utilizzata per raccontare il passato, che continua a tornare fuori da ogni angolo dei luoghi ritrovati.
I tempi della narrazione sono tre: l’infanzia di Nelly (1933-1949), il viaggio (1971), la stesura del romanzo (1972-1976), tempi che si intersecano fra di loro, creando continuità. La guerra, allora, collocata su una linea del tempo destinata a non spezzarsi mai, diventa spunto di riflessione.
E’ così che Nelly, salutando il padre che parte per il fronte, insieme al nonno che l’avvisa sulla possibilità che forse non rivedrà più quell’uomo, diventa un bambino israeliano o egiziano che, il 7 luglio 1973, saluta allo stesso modo il padre. Ed un vecchio, forse è un sopravvissuto ai lager nazisti; forse è un fellah che non sa né leggere né scrivere, prepara il nipote al peggio.
Ecco, quindi, che i grandi conflitti legati al presente diventano una tragica continuazione di quelli del passato: dal conflitto israelo-palestinese, alla guerra del Vietnam, fino al colpo di stato di Pinochet in Cile. La guerra diventa il riflesso della funesta tendenza della storia a ripetersi, contro cui bisogna armarsi.
Quella che ci propone Christa Wolf è una riflessione sulle generazioni e le differenze che intercorrono tra esse. Lenka, nella realtà sua figlia maggiore Annette, è un’adolescente che si affaccia alla vita, che guarda il mondo degli adulti e si interroga su grandi questioni come la felicità. Lenka, in un modo diverso da Nelly, vive la guerra e le sue atrocità, in una maniera indiretta, perché, da una parte, porta con sé l’eredità di sua madre e di Nelly, dall’altra, fa parte di quella generazione destinata a vivere indirettamente molti conflitti, come quello in Vietnam.
Lenka usava espressioni come “folle”, “brutto”, “schifoso”, “maledetto; il ventaglio di parole che avete utilizzato nella vostra gioventù logorato dalle guerre e dalle azioni di sterminio.
Spaventoso, orribile, atroce, terribile l’abbiamo dovuto dire troppe volte, sono parole che non si possono più usare.
Il confronto, però, non avviene solo tra la generazione della narratrice e quella della figlia, ma anche tra la piccola Nelly, e la donna matura, che con una nuova consapevolezza e una diversa coscienza politica riguarda al passato.
Questo moltiplicarsi di livelli narrativi, di luoghi, di tempi, porta ad un altro problema fondamentale, che è forse centrale in Trama d’infanzia: il problema dell’identità:
E’ la persona che ricorda- non la memoria. La persona che ha imparato a prendere se stessa non per un Io ma per un Tu. Un elemento stilistico come questo non può essere arbitrario o casuale. Il salto dalla terza persona alla seconda (che solo apparentemente è più vicina alla prima) al mattino, dopo un vivido sogno.
Così si sviluppano altri due livelli di narrazione: quello alla seconda persona, con cui la donna racconta i fatti del presente e quelli del passato più recente, quello alla terza persona che narra la vita di Nelly. Un gioco, un esercizio di stile, che trasforma il complesso narrativo in una conversazione fra luoghi e tempi lontani fra loro ma sempre in contatto.
La volontà di Christa Wolf è quella di non lasciare sbiadire i ricordi, di mantenere un rapporto con la bambina che fu e di non separarsene.
Certo, nella DDR degli anni Settanta il suo lavoro rappresenta un grande contributo dal punto di vista politico e pedagogico. Il tema della guerra e dell’antifascismo, infatti, non sono estranei nella letteratura della Germania dell’Est, che fa dell’antifascismo la sua bandiera. Tuttavia Christa Wolf compie un’ulteriore passo: al di là delle forti divergenze politiche e culturali che dividono la Germania, l’autrice ci fornisce un ritratto della quotidianità e della drammaticità di tempi bui per l’Europa intera. La gente rimane tale, con le stesse paure, gli stessi sentimenti, gli stessi dolori, le stesse infanzie, a prescindere dal fatto che si venga dalla DDR o dalla Bundesrepublik.
E’ in questo senso che Trama di infanzia rappresenta un monumento alla memoria, un lavoro inedito e ricco di spunti. Il grande merito di Christa Wolf è quello di averci regalato un’opera che riesce a scavare nel profondo della mente umana e della memoria individuale, da un lato, e quella collettiva, dall’altro.
La Wolf trova con questa opera il coraggio di raccontare, dopo trent’anni, la tragedia della guerra, offrendoci un quadro completo di come questa viene percepita nel tempo, lasciando piano piano andare la memoria e i ricordi perché di ciò di cui non si può parlare, bisogna a poco a poco cessare di tacere.
Francesca Trognoni: Sono nata a Macerata il 28/07/1993. Nel 2012 ho conseguito il diploma di liceo linguistico, da allora la mia strada non è cambiata. Trasferitami a Bologna dopo la scuola, infatti, nel marzo 2016 mi sono laureata in Lingue e Letterature straniere (arabo e tedesco) con una tesi dal titolo La lingua araba nella poesia della Resistenza palestinese. Nello studio delle lingue, ciò che mi affascina di più è il contesto culturale e letterario; in questi anni di studio ho maturato un particolare interesse per la letteratura palestinese, sia in poesia che in prosa. La mia grande passione è la danza orientale e quella del folklore egiziano, alla quale mi dedico da quattro anni. Sono, poi, volontaria presso la scuola Kalima (ass. Ya Basta Onlus), dove insegno italiano ai/alle migranti.