CARLINO, Parte III – di Stuart Hood, traduzione di Walter Valeri e Serena Russo

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Nelle colline imparammo tutto sulla raccolta delle castagne, dell’uva; imparammo ad arare e ad usare la zappa.

Si può camminare lungo gli Appennini dalla pianura della Lombardia fin sotto Firenze; senza  quasi mai uscire dai castagneti. Le mulattiere, biforcandosi, s’arrampicano poi discendono tra gli alberi sdrucciolevoli a causa delle foglie lanceolate; le castane si ammucchiano sull’erba come verdi ricci di mare. Nella dote di una giovane montanara è anche compresa una certa quantità di alberi. Le castagne maturano in ottobre. Con lunghe pertiche flessibili gli uomini si arrampicano scalzi sui rami; bilanciandosi sulle forcelle, con la schiena verso il tronco, si sporgono colpendo i frutti che danzano come bazzecole  all’estremità delle frasche più lontane. I bstoni sferzano e fustigano il fogliame. Alcun foglie cadono unite a pezzetti di ramoscelli. Infiocchettate le castagne cadono rimbalzando da un ramo all’altro; i loro aghi finissimi forano le dita del piede scalzo come fosse una spilliera, oppure cadono al largo dal ramo, tonfando fra l’erba alta. Le nuvole autunnali passano alte sule vette degli alberi provocando un leggero capogiro. Le ultime castagne ciondolano sulle vette degli alberi – tenaci, inaccessibili, irridenti. Il sudore offusca la mira.  Gli uomini l lasciano ballonzolare al vento e scendono per aiutare le donne  i bambini a stivare i frutti nei sacchi. Cercano i frutti fra l’erba, tra le fessure delle radici, tra i cespugli;  li tirano fuori con pinze ricavate  con un ramo ricurvo. Saccata dopo saccata si crea una montagnetta  verde e pungente. Poi, sedendosi in circolo, si avvolgono le mani in stracci di sacco e con un forte torcimento dei polsi  spaccano il riccio. Il frutto giace nel loro candido seno, lustro, smagliante.    Da una parte s’ammucchiano i ricci; dall’altra le splendide castagne bune. Mi facevano venire in mente l’odore dell’infanzia,  e del vicolo dietro casa.

Su questi poderi di montagna la vendemmia  è breve. L’uva nei secchi di legno è intiepidita dal sole, al tocco sembra carne umana.  Con la stessa qualità delicata dello scoscio di una donna. Sul gradino più alto della cantina c’è un lungo abbeveratoio di legno coi lati di oltre mezzo metro che  inclina verso un rubinetto. Si immergono i piedi in un secchio d’acqua fredda poi si passa in quello dell’uva.

I piedi affondano nella polpa della frutta, avvertendo la resistenza dei semi e dei gambi Il succo schizza caldo e appiccicoso come sangue tra le dita dei piedi. Si sente il piacere dei grappoli teneri, vellutati che sotto la pianta dei piedi fanno cic ciac. Ogni tanto si può stendere la testa sotto l’abbeveratoio inclinato e, girando lo zipolo, lasciare che dolce, tiepido e appiccicoso, il succo dell’uva i scivoli in bocca. Le mani sono appiccicaticce e altrettanto le gambe sino al ginocchio. I secchi si riempiono rapidamente e vengono rovesciati in enormi mastelli in fondo alla cantina. Nuovi spruzzi si stampano sul soffitto macchiato dalle precedenti vendemmie. Dopo un paio di giorni, appoggiando l’orecchio a quel ventre, vi si può sentire borbottare; agitarsi quasi fosse iniziata una mastodontica digestione. I tini cominciano a bollire. Una schiuma d’impurità sale a galla. Da lei vengono nuvolette di piccole mosche dalla testa rossa. L’aria è inebriante per i fumi dell’alcool. Questo mosto viene scremato e messo assieme alla poltiglia di semi, graspi e bucce, rimasta dopo la pigiatura. Spremuta sino all’ultima goccia in un gigantesco torchio a mano, la massa indurita del mosto che rimane vine usata come mangime per i maiali. Il succo colato dalla torchiatura mischiato con acqua è il mezzo vino o “acquadezz”; bevanda acidula da bersi durante la sosta del mezzogiorno nei campi.

Un giorno, mentre si pigiava l’uva, uscimmo all’aperto per osservare il bombardamento di Fidenza. C’era un rumore indistinto fra le nuvole basse; fumo ed esplosioni  echeggiavano su per le colline. A quanto devono essere ricchi questi americani; distruggono tutto e se ne fregano, disse un contadino.

Arare è più difficile. I buoi si impantanano nell’argilla dove affondano i loro zoccoli; ogni passo è uno sforzo. Li si incita col pungolo, con l bestemmie, nomignoli, aspri rimproveri e grida di rabbia. Se il turbine rallenta, le bestie smettono di tirare. A volte devi piazzarti dietro l’aratro, chinarti sull’impugnatura, in modo da affondare il vomere; a volte devi metterti davanti, tirandoli per le corna o per l’anello del naso. Per farli girare, terminato il solco, facendo passi falsi sul posto scivoli nel fango. I buoi si fermano ansimando, mandano enormi sbuffi di vapore, come docili draghi. Sull’altro versante della valle una lunga teoria di bestemmie echeggia avanti e indietro mentre un altro tiro è al lavoro. Alla mezza le donne vengono nei campi, con un cesto che contiene pasta lievitata cotta al forno; ancora calda – una specie di pizza – avvolta in un panno, un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino annacquato.

Zappare un campo è ancora più difficile. In alto, sui poderi montani, i campi sono troppo ripidi per essere arati. Li si toglie al pascolo con la zappa – un’ascia gigante con lama ricurva e lunga circa mezzo metro. Il lavoro inizia al mattino presto. Può passare molto tempo prima che il sole filtri nelle piccole valli; così si trema dal freddo mentre ci si avvia luno i pendii della montagna. Si guarda in su misurando il campo. Sembra quasi impossibile che due o tre paia di mani riusciranno ad arare tutta quella terra erbosa. I primo colpo annuncia la giornata che seguirà. Se la lama esce pulita vuol dire che la terra è leggera, la fila di zolle proseguirà senza sosta in salita. Se invece la lama esce sporca serrata dall’argilla sarà necessario fermarsi, dopo ogni due colpi, per raschiare la lama. E così via: tutto il giorno per otto ore. Finché il giorno cala e le donne chiamano dalla casa. Durante la cena gli uomini abbassano la testa e si assopiscono. Dopo cena allontanano il piatto; appoggiano la testa sul braccio e si addormentano. Si risvegliano da soli per dare da mangiare ai buoi. Alle quattro si devono alzare nuovamente per dare da mangiare e da bere alle bestie. Nei poderi di montagna le famiglie sono piccole; la procreazione richiede energia.

Così era la vita dei mezzadri che davano metà di quello che producevano al proprietario – metà delle uova, formaggio, latte e anche metà del raccolto. La figura più importante della loro vita non è il padrone ma il “fattore”. Questi abitava nella grande tenuta della fattoria ed esigeva ciò che era dovuto al padrone. Subito dopo il fattore veniva il guardiano che controllava la caccia e le terre lasciate a bosco – un uomo odiato da tutti. Nelle case in cui abitavano, la cena, dopo un’intera giornata di lavoro nei campi, delle volte consisteva in una scodella di pane raffermo su cui la donna di casa versava sugo di pomodoro e un filo d’olio. Si beveva vino di pessima qualità, che pizzicava come pepe sulla lingua. Durante tutta la settimana lavoravamo nei campi. La domenica ci facevamo la barba o ci tagliavamo i capelli  e nelle serate buie si chiacchierava.

Siete cattolici?

No.

Credete in Dio?

No.

Hai sentito Maria? Uomini istruiti che non credono in Dio.

Può darsi che sia la loro tradizione.

Te l’ho sempre detto che non esiste un Dio…ma perché gli Alleati non bombardano il Vaticano?!

Ci fu una pausa.

Perché dovrebbero?

Toglierebbero di mezzo i preti. Non ci sarà un’altra occasione come questa.

O ancora:

Da dove venite?

Dall’Inghilterra.

E’ vicina?

E’ lontana

Vicino all’Africa allora?!

No – non vicino all’Africa.

Ma avevate detto che venivate dall’Africa.

Sì – combattevamo lì.

Ma perché si combatte in Africa? Combattono sempre laggiù.

Oppure:

Avreste dovuto vedere le pentole e i tegami che avevamo prima che il Duce li facesse requisire, per farne proiettili. Erano tutti di rame.

E il mio anello nuziale l’ho dovuto dare per la guerra abissina. Dov’è l’Abissinia?

In Africa.

Mamma mia sempre in Africa. Sono Cristiani in Africa?

In Abissinia – sì.

Come lo sapete?

Ci sono stato.

Per combattere?

Sì.

Contro gli abissini?

No – contro gli italiani.

Perché gli italiani?

Perché eravamo in guerra.

Le guerre non ci dovrebbero essere.

O ancora:

In Inghilterra si mangia cinque volte al giorno.

Chi lo dice?

Beh, non è vero.

Hai visto Maria, ho sempre detto che ci raccontava delle balle.

Ma si vendono le mogli!

No, ma possiamo divorziare. (mi domandai quanti responsabili per la propaganda  di Mussolini  avessero letto il Sindaco di Casterbridge?).

Ah, ecco quello che ci vuole! Il divorzio. Hai sentito Maria, il divorzio. Ma i preti, quei maledetti, non ce lo permettono.

A volte gli leggevo qualcosa – qualunque cosa: un libro scolastico con fiabe insipide o un almanacco pieno di proverbi, indovinelli e profezie ambigue. Quando mi fermavo mi dicevano: “Leggi qualcos’altro. Deve essere bello saper leggere”.

Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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