Carlinhos – Tullio Bugari

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Le storie sono tarocchi che puoi ricombinare più volte, ciò che conta non è il caso ma le relazioni tra i dettagli. Come in un gioco ripetuto più volte, il racconto non è mai lo stesso ma il suo significato non cambia, devi solo scoprirne ogni volta un lato diverso, e l’immaginazione ci guadagna.

 

Il primo dettaglio l’ho trovato a Fràra. Correva l’anno Millenovecento, un secolo intero si congedava. Augusto è un ragazzo seduto al tavolo di un’osteria. Ha già salutato i suoi compagni ma io immagino che non abbia detto nulla della nave che lo aspetta a Genova. Li guarda mentre vanno via, preferisce uscire da solo, si fa così quando la partenza è vera. Beve l’ultimo sapore nel bicchiere e da uno sguardo al giornale anarchico lasciato sul tavolo. I ministri Barrère e Visconti si sono incontrati in Francia per dividersi in due il Mediterraneo e l’Africa. Alla Francia vanno il Marocco e il braccio di mare tra Mazzara e Cartagine. All’Italia possono andar bene anche Tripoli e la Cirenaica, e magari la sponda opposta dell’Adriatico. Augusto si alza, quando esce la sua mente è già oltre le colonne d’Ercole oltre questa vita che qui ristagna è già in balia del grande Oceano mentre cammina sul lungo Po di Volano, immerso nell’umido buio della sera. Poi prende per i vicoli del centro e guarda se stesso come se fossero quei muri a vederlo passare.

Io non so in che mese Augusto sia partito fingo che sia dicembre, il mese della malinconia in grigio che tutto avvolge e la città sfuma, i muri scrostati sembrano già un ricordo di chissà quali tempi ma l’eco dei passi è più veloce del ritmo dei piedi e corre avanti, dev’essere colpa dei ciotoli sul selciato che non dicono più nulla: “È il viaggio, è arrivato e mi ha preso, non mi riporterà più.”

 

Il secondo dettaglio si trova a Bahia. Augusto e Maria si amano come una vertigine. Chi dei due per primo avrà catturato lo sguardo dell’altro? E che importa. Augusto forse è ancora giovane, io non ne ho la certezza ma che importanza può avere l’età quando gli anni profumano di giovane?

“Non mi sorprende la bellezza di questa donna” si sorprende a pensare Augusto: “Sapevo già che il destino non esiste, per questo m’ero lasciato spingere fino a qui, per cercare lei dalla pelle brunita, figlia di schiavi partorita sulla soglia di una nuova libertà. Nascimento, come una vita che già scorre.

“Dolce amore frutto della terra” le dice Augusto sfiorandole il viso che gli sorride, e poi prosegue nel suo pensiero: “Era misero il mio bastimento con il suo carico di umanità in mezzo al mare e una vita intera da attraversare. Basterebbe una giustizia, una soltanto, e tutto avverrebbe in un altro modo. E tu, tu dolce amore mio tu la tua progenie cacciata nelle stive, non parlarmi ora di questo, parlami invece di quella terra dove è comparsa l’idea che ti ha portato fino a me.”

“Io non conosco da dove vengo” sembra dire Maria e per capirlo basta guardarle il sorriso, “solo in sogno ci sono stata ma come in un fiume di tristezza, però le voci erano fiere narravano di città rosse come la terra e di foglie verdi come l’ombra densa della vita. Io credo davvero che andando a ritroso laggiù oltre questo oceano e ancora oltre, oltre il fiume dei fiumi così maestoso da sembrare fermo e diffidente verso quel mare, io credo che ancora ci sia davvero spersa su una terra più grande della Terrala lingua della mia gente, di cui io sono l’impronta.”

 

Il terzo dettaglio è un bambino con gli occhi verdi che nasce a Salvador undici anni dopo.

“Lo chiameremo Carlinhos, mio dolce amore, questo figlio della città e del nuovo mondo e dei sogni di sempre che si ricombinano.”

“Gli insegneremo a essere generoso e a saper vivere tra la gente” le risponde Augusto, “noi che non possiamo sbagliarci perché le conosciamo già le strade della vita, e non ci siamo sottratti quando toccava percorrerle.”

Il mese è di nuovo dicembre ma lassù, lontano da Salvador, nel vecchio mondo oltre l’oceano, l’Italia ha attaccato Tripoli e lacerato l’equilibrio di quel mare che non sarà più lo stesso. Non si tratta del destino, che non esiste, ma l’aveva previsto ugualmente quel giornale anarchico, perché non si tratta nemmeno del caso. Molti in patria – ma di quali molti si tratta, e che cos’è la patria quando gli sottrai l’eco dei passi? – già chiedono il passaporto per correre a impossessarsi delle terre tolte ai turchi e da rubare agli arabi. Molti illudendosi e basta, e questi li conosco, sono i soliti che poi tornano indietro bastonati, precorrendo le rotte dei profughi che verranno.

 

Il quarto non è un dettaglio, è un’aporia che non ci appartiene ma la Storia non ci risparmia: è una bomba gettata con la mano dal cielo, un sasso che esplode.

«Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall’aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo. Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi, poi torno indietro, passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon”, la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada. Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno. Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara. Dopo non molto tempo scorgo perfettamente la massa scura dell’oasi che si avvicina rapidamente. Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba, la poso sulle ginocchia. Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta, metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto. Circa un chilometro mi separa dall’oasi. Già vedo perfettamente le tende arabe. Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca, uno di circa 200 uomini e l’altro di circa 50. Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura. Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli. Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore generale Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti».[1]

Carlinhos è nel lato nuovo del mondo e dorme ancora il sonno degli innocenti.

 

Mi sono quasi perso e il quinto dettaglio lo cerco ora che finalmente posso, cento anni dopo, in mezzo a quella terra più grande della Terra. Dovresti saperlo, si chiamava Carlinhos il mio tenero nonno guerrigliero. Non conosci la storia sua e di sua moglie Clara? Chissà chi la racconta ancora negli angoli giusti del mondo? Io sono venuto qui a cercarne l’impronta ma che fatica ho perso il conto dei giorni da tanto ho iniziato la discesa a ritroso più di una vita ho attraversato. Dal Po di Volano, il suo umido lasciato ad essiccare nei ciotoli dei vicoli, e poi più giù a imprecare silenzioso sotto gli occhi di nessuno in mezzo a un Mediterraneo lacerato, e poi ancora indietro a ritroso a perdermi oltre il destino in questo deserto dai mille nomi, lungo la via di Agadez e la pista degli schiavi, a cercare impronte dove le impronte sono troppe e i cadaveri abbandonati lungo i cammini impazziti, e io insisto a cercare tra le distese di sabbia o di acqua l’eco di un senso. So perfino orientarmi con il sole e le stelle mentre vago nel deserto o nel mare, è tra le geografie umane che mi disoriento con tutte queste lingue alla deriva che non mi danno scampo.

Il dettaglio che manca dev’essere ancora laggiù in quella terra più grande della Terra, è l’impronta del giorno in cui il sole strappò via la madre di Maria Rita do Nascimento, scaturì quel giorno la sua idea, e scaturì anche a Fràra,la notte che il selciato perse l’eco dei passi.

 

Nemmeno il sesto è un dettaglio, ma neanche un’aporia, questa volta ci appartiene, è la Storia stessa ogni volta che torniamo a raccontarla, quando tenta di guardare se stessa per vedersi tutta intera, e ogni volta un poco si reinventa per sentirsi più bella ma il suo significato non cambia, devi solo scoprirne ogni volta un lato diverso, e l’immaginazione ci guadagna, tra l’attimo di una scelta e il barlume di una vita. Carlinhos non dorme il sonno degli innocenti quando rapisce l’ambasciatore yankee, e questo è soltanto l’attimo, il barlume di una vita è nell’eco di quei passi, e in quelle case rosse come la terra, e nei muri scrostati come l’ombra densa della vita.

 

 

 

[1]La lettera dell’aviatore Giulio Gavotti a suo padre è pubblica sul blog Aerostoria: <aerostoria.blogspot.it/2009/11/giulio-gavotti-e-il-manifesto.html>.

 

Per gentile concessione dell’autore, selezionato finalista al premio Scrivere Altrove ed. 2018,

 

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Tullio Bugari è nato a Jesi nel 1952, in una casa di campagna che oggi non c’è più: tolta di mezzo per far posto ad una strada. Laureato in filosofia a Roma a metà degli anni Settanta, nella sua vita reale si è occupato per molti anni di ricerca sociale, formazione, intercultura e raccolta di storie; negli ultimi anni ha pubblicato: nel 1999, insieme a Giacomo Scattolini, “Izbjeglice/Rifugiati, storie di gente della ex-Jugoslavia”, con un racconto di Predrag Matvejevic (ed. Pequod, Ancona); nel 2000, “Itinerari, storie di viaggio dentro al mondo”, racconti di migranti raccolti nelle Marche, in Catalogna, in Svezia e in Germania (programma europeo Comenius); nel 2004, “Parole condivise” (Franco Angeli, collana La Melagrana), il racconto a più voci di un’esperienza di accoglienza scolastica dei minori stranieri nelle scuole di Ancona; nel 2007 e nel 2008 le due antologie Alfabetica, dedicate ai poeti e scrittori migranti che hanno partecipato a Jesi ad “Alfabetica, incontri letterari con i nuovi autori in lingua italiana”; nel 2011, il romanzo “La ragazza che corre” (affinità elettive, Ancona); nel 2011, insieme a Giacomo Scattolini, “Jugoschegge, storie e scatti di guerre e di pace” (Infinito edizioni); nel 2013, “In bicicletta lungo la Linea Gotica”, in viaggio con la Staffetta della Memoria dal Tirreno all’Adriatico (Infinito edizioni), “L’erba dagli zoccoli” (Vydia editore, 2016) e  ‘E riavulille” (Gwynplaine edizioni, 2018). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista on line Sagarana diretta da Julio Monteiro Martins.

 

Ecco una breve intervista con l’autore realizzata nel 2018

 

Immagine on evidenza: Tessuto ricamato realizzato dall’artista iraniano Deyed Mojtaba Vahedi.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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