Capitolo 2, “Scomparso – La misteriosa sparizione di Mustafa Ouda”, Ottobre 2019, Lebeg edizioni

Copertina - L'ULTIMA PELLE - 13 aprile

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Mio padre non c’era più. Ero troppo piccolo per capire il perché, e nessuno era in grado di spiegarmelo, nemmeno mia madre. Quando glielo chiedevo, mi rivolgeva un sorriso triste, ben diverso da quello solito da un orecchio all’altro. Non lo sopportavo. Mi spaventava. C’era pericolo in quel sorriso, cose che non capivo, una storia nascosta che volevo disperatamente svelare. Ma non me l’ha mai detto, nonostante i miei sforzi immani per farla parlare. Forse fu proprio questo che mi spinse a proclamarmi, all’età di otto anni, il più giovane detective del campo profughi di Jabalya.

Avevo imparato a non parlare di mio padre. Qualche volta mi mancava così tanto da far male, come avere il cuore trafitto da chiodi. Nonostante tutti gli sforzi della Mamma per rendermi più bella la vita, c’era un buco al centro della famiglia, là dove avrebbe dovuto esserci Papà. Uno spazio vuoto quando ci sedevamo per mangiare, spazio che non poteva essere colmato da nessun altro. Tutti avevano un padre tranne me e questo mi feriva, ma nessuno voleva saperlo, nessuno mi ascoltava quando cercavo di spiegare quanto mi mancasse. Ma, per un’ultima volta, volevo sentire il solito copione che mi offriva mia madre, per poter cominciare da lì. Avevo solo otto anni, ma la distruzione di cui ero circondato era tale da avermi costretto a crescere molto più in fretta. O forse era quello che volevo credere.

Un mattino di febbraio del 1982, sette mesi dopo la mia nascita, mia madre si svegliò e scoprì che il nostro portone d’ingresso non era serrato. Una piccola tazza di tè alla salvia ancora caldo profumava l’aria salata. Fuori era ancora buio, e la casa appariva ancora più piccola. Notò che c’era stata un’interruzione della corrente, così si mise a cercare una candela e la accese. Aprì il portone e si guardò attorno nel vicolo dai muri ricoperti di graffiti patriottici. Qualche volta i soldati israeliani costringevano gli uomini del campo profughi di Jabalya a uscire a notte fonda per ripulire i graffiti e gli slogan contro l’occupazione, tracciati sui muri dai guerriglieri palestinesi. Tutti nel campo dovevano avere pronti in casa litri e litri di biacca e diversi pennelli per tali evenienze, in quanto non sapevano mai quando gli uomini mascherati sarebbero venuti a graffitare o quando i soldati israeliani li avrebbero notati e avrebbero ordinato loro di rimuoverli.

Durante i tre anni di matrimonio, la Mamma aveva spesso guardato Papà cancellare dai muri del campo colombe bianche con un ramoscello d’ulivo nel becco intrappolate tra le sbarre, o la bandiera palestinese con il triangolo rosso in cima da cui partivano strisce nere bianche e verdi.

«Non dire niente, Mustafa, ti prego», gli sussurrava all’orecchio mentre uomini armati fino ai denti facevano irruzione in camera da letto a notte fonda, puntando a entrambi le pistole in faccia. A letto la Mamma indossava sempre un vestito lungo ricamato in caso gli israeliani arrivassero nel cuore della notte e teneva sempre un velo accanto al materasso sul pavimento di piastrelle malmesse in caso di irruzione inaspettata da parte dei soldati. Certe notti si addormentava vestita.

A Papà piaceva dormire in boxer. Gli piaceva vedere lo shock nelle facce dei soldati mentre sollevava le coperte, alzandosi il più lentamente possibile, sbadigliando rumorosamente, stiracchiandosi nell’aria e poi tirando fuori una sigaretta dal cassetto del comodino dove conservava anche l’accendino. La loro camera aveva solo un comodino, un comò con un grande specchio e un piccolo armadio di vecchio legno di ulivo. Era molto più piccola della mia, ma senza letto. Dormivano a terra su due materassi normalmente riposti nella mia grande stanza e tirati fuori solo per la notte. Un’abitudine che la Mamma mantenne anche dopo la sparizione di mio padre.

«Passami l’accendino», chiedeva al militare che si trovava più vicino al comodino. Molto spesso capitava che il soldato, interdetto, rivolgesse lo sguardo verso il capo, che gridava e ordinava a mio padre di sbrigarsi. A volte un soldato ubbidiva all’ordine, con grande piacere di mio padre. «Su’ad, in camera mia sono io che comando», diceva a mia madre con una fragorosa e profonda risata ogniqualvolta gli diceva di smettere di prendere in giro i soldati.

«Un giorno si arrabbieranno e te ne pentirai».

«O forse smetteranno di venire e si risparmieranno l’umiliazione».

Qualche volta lo scambio degenerava in lite, con mia madre che finiva per rifiutare di parlargli o di servire il tè ai suoi amici in visita. Questo faceva arrabbiare mio padre perché minava il suo status sociale in quanto le mogli dovevano adempiere ai propri doveri domestici a prescindere da quello che succedeva in casa. Non gridava mai, però, e non alzava mai la voce con lei. Piuttosto, smetteva di parlarle per un po’ e finiva per socializzare altrove, solitamente con gli altri uomini in un bar lì vicino, fumando oltretutto tanto hashish. Vi si tratteneva a lungo, non per farle dispetto, quanto per evitare altre liti, ma di norma tutto finiva con un buon pasto e parlando tra loro.

Nel 1979 mia madre aveva ventiquattro anni; eppure, nonostante fossero sei in meno di mio padre, era considerata troppo vecchia per sposarsi secondo gli standard di Gaza. Alla fine degli anni Settanta le ragazze si sposavano non più tardi dei diciannove anni. Di mia madre si diceva che era di una bellezza troppo aggressiva ed eccessivamente schizzinosa nella scelta di un marito. Era di pelle chiara e alta, con capelli neri e lisci, e grandi occhi blu. Quando mio nonno si presentò con mio padre per chiederne la mano, la sua risposta fu: «Era proprio lui che aspettavo».

Furono fidanzati per un anno, il che danneggiò ulteriormente la sua reputazione già compromessa. Ma a mia madre non importava, era già innamorata persa di mio padre e sarebbe potuta rimanere fidanzata con lui per sempre, godendosi le gite e i posti che visitavano insieme.

I tre quarti d’ora di macchina che ci volevano dal campo di Jabalya a Khan Yunis, nel Sud, la deprimevano sempre e, mentre appoggiava la testa sul finestrino della vecchia Mercedes arrugginita di mio padre del 1952, si augurava che la macchina avesse un guasto in modo da poter fare una passeggiata in campagna tra gli uliveti che si estendevano tra al-Nusairat, Deir al-Balah e Khan Yunis. Da ragazzina, quando marinava la scuola, aveva un posto preferito appena girato l’angolo dalla strada principale di Salah Eddin che attraversa l’intera Striscia di Gaza e va verso Deir al-Balah.

Nei primi anni Settanta, da adolescente si arrampicava su una collinetta di sabbia sempre piena di spazzatura alla base e si rollava una sigaretta con un paio di amiche. Se ne stavano lì fino a un’ora prima che finissero le lezioni, per avere il tempo di tornare a casa senza destare il sospetto dei genitori. Ridevano e scherzavano e fissavano il mare sconfinato in lontananza e le navi da guerra israeliane in acqua. Talvolta, i militari israeliani fermavano le jeep e le perquisivano, intimando loro di mostrare la carta di identità. Le ragazze li scongiuravano di non arrestarle per evitare che le proprie famiglie scoprissero quel che avevano fatto. La Mamma, invece, non aveva paura; spesso sfidava i soldati a farsi arrestare, lasciando interdette le sue compagne che la supplicavano di tacere. Altre volte i soldati si sedevano con le ragazze e fumavano una sigaretta. Dopotutto erano adolescenti anche loro.

Quel giorno di febbraio mia madre chiuse il portone senza serrarlo a chiave e rientrò lentamente nella casa buia attraversando lo stretto corridoio. Papà non era fuori a cancellare i graffiti. Prima di spegnere la candela e scivolare sotto le coperte, diede un’occhiata nel bagno per controllare che non fosse lì. Io me ne stavo sul materasso accanto a lei, rannicchiato e immerso in un sonno profondo. Prima di addormentarsi di nuovo, mi diede un bacio sulle guance paffutelle da bimbo di sette mesi.

Questa storia l’avevo sentita spesso, ma ogni volta che la Mamma me la raccontava lo faceva distogliendo lo sguardo dal mio. I nostri occhi non si incontravano mai. Ero troppo piccolo per capire cosa significasse quel suo atteggiamento. Era come se si sentisse colpevole per essere ritornata a dormire e non essere andata a cercare mio padre. Spesso anche io ero sopraffatto dai sensi di colpa per essermi addormentato quella sera e per non aver fatto alcun rumore che svegliasse la Mamma.

Mi ero fatto raccontare quella stessa storia un’infinità di volte, tuttavia non riuscivo a trovarne il senso. Perché è sparito così Papà? È stato arrestato, ucciso, se n’è scappato via? La Mamma non mi offrì mai alcuna risposta. Una volta compiuti gli otto anni, ero abbastanza grande per uscire da solo, ed era quindi arrivata l’ora di lanciarmi nella mia indagine personale, seguendo una pista che quasi mi portò alla morte rincorrendo un’ombra con pochissime prove. L’unico indizio che avevo a disposizione era un certificato di matrimonio, datato 3 settembre 1979, che dichiarava che mio padre e Su’ad al-Anawi erano legalmente sposati. Il mio nome appariva su una tessera blu rilasciata dalle Nazioni Unite come stato di famiglia di rifugiati. Indicava i nomi dei miei genitori e i dettagli si trovavano sul retro in una tabella in orizzontale che riportava il mio nome e la mia data di nascita: 13 luglio 1981. Era un’aggiunta scritta a mano. La firma e la data da parte di un assistente sociale dell’ente delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, la UNRWA, risaliva a sei mesi dopo la mia nascita; quasi una settimana dopo la sparizione di mio padre. Col tempo questi documenti si macchiarono e si stropicciarono, come una creaturina che si fosse addormentata in fondo al cassetto del comò di mia madre; nascosti eppure riportati in vita ogni volta che li tiravo fuori per rileggere i dettagli e ricordarmi che avevo un padre. C’era anche la chiave della nostra casa nel villaggio di Deir Sunayd, che ora faceva parte di Israele.

In casa non c’erano fotografie di Papà da nessuna parte. Le pareti erano quasi nude, con l’eccezione di qualche verso del Corano incorniciato e pezzi di vernice che si staccavano dagli angoli, evocando le increspature di una costa. Le lamiere di amianto grigio poste a formare un tetto sopra le pareti lesionate rendevano ancora più smorte le nostre due piccole camere da letto che davano su via Sanaida. La mia camera si trovava a una delle estremità e affacciava su un vicolo di fronte al quale, sulla sinistra, c’era la casa di Umm Marwan. Stavo alla finestra a volte per ore, guardando i passanti, i bambini che tornavano a casa con i genitori, i padri che issavano i figli sulle spalle o li rimproveravano per essersi sporcati i vestiti. A stare lì a guardare il mondo  che si muoveva mi sentivo molto piccolo. La casa non era grande; non potevano starci più di sei persone alla volta. Ma quando giocavamo a nascondino con la Mamma, o quando percorrevo avanti e indietro il corridoio chiedendomi dove fosse mio padre o quando per paura scappavo dalle punizioni di mio Zio, la casa diventava abbastanza grande, per me piccolino, da permettermi di evitarne gli angoli e trovare dove nascondermi.

La casa si trovava nel campo di Jabalya nel lato nord-est della Striscia di Gaza, un luogo polveroso di strade sterrate. La maggior parte delle abitazioni erano state costruite senza permessi e avevano forme e dimensioni diverse, rendendo la nostra strada un assortimento di case di ogni tipo. Il campo, come molti altri, doveva essere temporaneo in seguito agli eventi del 1948. Ma negli anni le abitazioni si erano trasformate in strutture permanenti, con pareti di mattoni e tetti per la maggior parte in lamiere di amianto.

Ogni giorno, per andare alla scuola elementare maschile, camminavo lungo queste strade piene di immondizia dove perfino la sabbia dorata che le copriva sembrava sempre sporca. Qualche volta raccoglievo fichi dai piccoli alberi sparsi lungo via Sanaida. Il percorso mi portava davanti alla casa di Abu Mohamed e poi alla pompa dell’acqua, dove c’era una piazzetta con una stradina laterale che conduceva a via al‑Hawaja. Seduti ai lati della strada, talvolta si vedevano uomini giocare a backgammon oppure fumare hashish. Passato il bacino idrico in via al‑Hawaja il tanfo era tale che ero costretto a stringermi il naso così forte da lasciare un segno rosso per il resto della giornata. Era come se vi fosse morto un branco intero di animali. Man mano che risalivo per via al‑Hawaja e giravo sulla piazza di al-Shu per dirigermi verso la scuola, però, quell’odore veniva rapidamente rimpiazzato dal profumo di gelsomino e di menta.

Qui lo squallore del panorama veniva temporaneamente alleviato dalla presenza di alcune fattorie alberate e coltivate a erbe aromatiche poi vendute al mercato. Talvolta mi fermavo lì a lungo prima di continuare verso la scuola o di ritornare a casa dai rimproveri della Mamma o dello zio Attiya. La verità è che amavo andare a scuola perché mi toglieva il pensiero di casa e di Papà.

Sulla via per rincasare, il mio rito quotidiano era di fermarmi a chiacchierare con la nostra vicina Umm Marwan che abitava nella casa di fronte alla nostra, separata solo da un piccolo vicolo senza nome. Mi piaceva conversare con lei e, in assenza di altri fatti raccontati dalla Mamma, apprendevo molte cose su Papà. Spesso ritornando da scuola trovavo Umm Marwan seduta su un piccolo materasso strappato davanti al suo portone a fissare la strada. Mi vedeva scendere dall’alto e mi salutava con la mano. Il suo solito vestito nero, logoro e macchiato, non riusciva a coprirle le vecchie gambe con la loro rete di vene varicose. Aveva sempre dei dolcetti pronti per me, nascosti in un sacchetto di plastica nero spiegazzato. Qualche volta la Mamma ci vedeva mentre usciva per andare a casa dello zio Attiya e ci sorrideva senza salutarci, lo stesso sorriso sinistro che mi dava quando veniva menzionato Papà. Non ho mai capito perché non voleva che parlassi con Umm Marwan, o perché questa vicina non fosse mai invitata a casa nostra.

Umm Marwan sorrideva mentre mi metteva in tasca una manciata di dolci burrosi avvolti in una stagnola viola chiedendomi: «Sarai un uomo istruito come tuo padre?» Aveva sempre dolci anche in giorni che non erano di Eid, la festa che conclude il Ramadan. Mi raccontava quanto tutti rispettassero mio padre. Era l’uomo più istruito di tutto il vicinato, con un master in Letteratura araba presso l’università de Il Cairo, in un periodo in cui la maggior parte delle persone che gli stavano intorno raramente riusciva a finire le superiori. La gente lo chiamava sempre ustazz, “maestro”, sebbene non avesse insegnato un solo giorno in vita sua. Si trattava comunque del lavoro più rispettabile che un uomo potesse vantare.

Papà invece lavorava in una piccola agenzia di traduzioni occupandosi di documenti legali in arabo, inglese ed ebraico. Umm Marwan mi raccontava che la gente si rivolgeva a lui per consigli su qualsiasi cosa: gli chiedevano a quale scuola mandare i figli, di leggere gli appunti dei medici o di tradurre dall’ebraico un ordine di evacuazione emanato da Israele. Talvolta gli uomini venivano perfino a chiedergli consigli riguardo alle problematiche sentimentali con le proprie mogli. Papà non rifiutava mai nessuna richiesta e trovava divertente il fatto di essere sempre aggiornato sugli affari degli altri. Umm Marwan mi disse che non aveva mai visto mio padre camminare da solo per strada.

«Non appena Mustafa usciva di casa, qualcuno lo bloccava per chiedergli qualcosa o invitarlo a pranzo». Pur avendo almeno sessant’anni, sospirava come se mio padre fosse stato un suo vecchio amante perso da tempo.

La nostra vicina era vissuta sempre nella stessa casa dal tempo della Nakba del 1948. Vi era arrivata con suo marito, Abu Marwan, dopo che Israele aveva completamente distrutto il loro villaggio di Herbia, alla periferia di Gerusalemme. Lei e tutta la sua famiglia erano scappati quel giorno, verso qualsiasi luogo potesse offrire rifugio e, per anni, Papà aveva cercato di aiutarla a ritrovare i genitori e i fratelli. Scriveva lettere a nome suo e le mandava a stazioni radio locali in Giordania, Libano, Siria ed Egitto nella speranza che un giorno qualcuno le avrebbe risposto. Ogni martedì mattina Umm Marwan aspettava accanto alla radio sorseggiando una tazza di denso caffè nero al cardamomo. Spesso cacciava di casa il marito per poter ascoltare attentamente la radio, che teneva in entrambe le mani con gli occhi fissi sull’altoparlante come se qualcuno stesse per saltare fuori ad abbracciarla. La sua faccia dalla pelle olivastra e rugosa si rilassava quando, mettendo la mano tatuata sopra la radio, aspettava la lettura in diretta delle lettere.

«Niente nuove, buone nuove», le diceva mio padre. «Scriveremo altre lettere e forse un giorno potremo anche mettere un annuncio sui giornali locali».

Umm Marwan vedeva in Papà un fratello più giovane perso da tempo. Quando mio padre volle chiedere la mano di mia madre, lei andò con mio nonno e si sedette con gli uomini mentre contrattavano. Tutti si stupirono di vederla lì, soprattutto perché non faceva neppure parte della famiglia. Ma nessuno avrebbe potuto fermarla. Pregò mio nonno di permetterle di andare con loro e minacciò, se l’avessero esclusa, di spargere la voce che mio padre aveva un’amante segreta.

Non andò alla festa di addio al nubilato organizzata per mia madre, come era costume per tutte le donne. Invece, lesse il primo verso del Corano col resto degli uomini in agosto come parte della cerimonia di fidanzamento e danzò fuori in strada alla festa di addio al celibato di mio padre quel settembre del 1979. Papà amava la sua compagnia e ascoltava rapito le sue storie, cosa che la lusingava. A lui raccontava sempre la stessa storia di lei e la sua famiglia costretti ad abbandonare la loro casa nel 1948. Papà la ascoltava in silenzio mentre lei riepilogava gli eventi e raccontava di come dopo la Nakba avesse cercato un posto al sicuro, sapendo che sua figlia sarebbe potuta morire di freddo.

Dopo la morte di mio nonno, quando mia madre era incinta di me di poche settimane, Papà e suo fratello, lo zio Attiya, decisero di dividere la grande casa in due parti.  A Papà toccò la parte più piccola, ma non gli importava. In ogni caso, non aveva progetti di mettere su una grande famiglia. Aveva sempre detto che il campo di rifugiati di Jabalya era solo una condizione temporanea e che un giorno sarebbe tornato ad abitare nella sua casa di famiglia a Deir Sunayd. Lo zio Attiya costruì la casa più grande di tutto il campo, riservandosi la parte più ampia, con molti alberi di limone, albicocchi e una vite. In primavera la gente sostava fuori dai muri della casa solo per riempirsi del profumo dei fiori. Umm Marwan mi diceva che mio padre era molto soddisfatto della sua parte. Aveva costruito da solo la casetta di due camere pur non avendo nessuna esperienza in campo edilizio. Però per me non aveva senso che Papà avesse accettato la parte più piccola della casa: perché mai la Mamma e io dovevamo starcene stretti in una casa piccolissima mentre lo Zio viveva in quella che sembrava una villa?

Umm Marwan non ci faceva mai visita nonostante l’avessi invitata più volte. In una tiepida giornata primaverile dell’aprile del 1989, la trascinai letteralmente dentro casa nostra, ma lei stette solo qualche minuto prima di prendere commiato scusandosi. La pregai di restare a cena mentre la Mamma rimaneva zitta. Umm Marwan protestò e si inventò la scusa di non aver avvertito i familiari che avrebbe mangiato fuori.

«Potrei andare a dirlo ad Abu Marwan», dissi in tutta fretta pregandola di restare. «No, devo andare», e incominciò a mettersi le scarpe. Stava per cadere, ma riuscì ad afferrare rapidamente il suo vecchio bastone marrone e vi si appoggiò.

«Questa casa è maledetta», la sentii borbottare mentre scappava via.

La Mamma sorrideva; si diresse verso di me e mi avvolse in un grande abbraccio.

«Non ti preoccupare per quello che ha detto; è lei a essere maledetta».

Mi diede un bacio sulla guancia e continuò a guardarmi e a sorridere. Mi sentivo piccolissimo tra le sue braccia; era una donna alta e forte. Quel giorno era ben vestita, con dei jeans stretti e una camicetta bianca sotto il lungo jilbab nero. Mentre le carezzavo i lunghi capelli neri seguendoli fluire sulle sue spalle, notai qualcosa di diverso.

«Ma ti sei messa gli occhiali?»

«Sì, è da un po’ che li porto ma non li ho mai indossati fuori dalla mia camera. Li uso soltanto per leggere».

Si girò e si diresse verso la cucina, che si trovava all’altra estremità della casa, mentre io continuavo a guardarla meravigliato della sua bellezza. Aveva soltanto trentaquattro anni nel 1989, ma sembrava molto più giovane. Mi spinse via e chiuse la porta di metallo che portava al soggiorno.

Di mio padre avevo una piccola foto in bianco e nero formato passaporto, nascosta in uno dei libri di scuola che portavo con me ogni giorno. Mi ero sempre ripromesso di mettere da parte i soldi per comprare un portafoglio in cui conservarla, ma, non riuscendoci, mi convincevo che forse era un buon segno e che Papà stava per tornare. Arrivato agli otto anni, non si verificò nessuna delle due cose, ma ero io a cambiare il posto della fotografia da un libro all’altro o dentro la mia tasca, accertandomi che fosse sempre con me. Papà era il mio compagno invisibile. Spesso fissavo i suoi grandi occhi, convinto che fossero verdi, i folti capelli neri e ricci, la fronte ampia e le labbra carnose che si aprivano appena sui denti bianchi.

Qualche volta pensavo che dalla foto potesse vedermi. Erano inquadrate solo le spalle e mi chiedevo se potesse sollevarmi in un’unica mossa o no. Che cosa gli era passato per la mente mentre si metteva in posa per quella foto? Indossava quelli che sembravano un paio di jeans scuri e una camicia che andava di moda in quegli anni; mi fece sorridere pensare a mio padre come un ragazzo alla moda che stava al passo con le ultime tendenze. Aveva i capelli scuri e ricci proprio come i miei. Il naso diritto e appuntito e la pelle olivastra gli davano un aspetto dolce; qualcosa che ero contento di avere ereditato perché mi faceva sembrare una sua versione in miniatura. Guardavo quest’uomo, l’uomo a cui assomigliavo, e agognavo sapere come potesse essere sparito una notte senza lasciare traccia.

Ogni volta che aprivo il libro e guardavo la sua foto, immaginavo Papà che mi parlava dicendomi quanto gli ero mancato, la sua voce potente, rauca per le troppe sigarette. Lo immaginavo in piedi vicino alla finestra, con la luce del sole che gli ravvivava i lineamenti stanchi.

Per gentile concessione dell’autore. Anteprima,  prossima pubblicazione per i tipi di Lebeg edizioni.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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