Patrícia Galvão: voci, storia e militanza
di una scrittrice femminista brasiliana
di Alessia Di Eugenio
Patrícia Galvão (1910-1962) è stata una femminista, scrittrice, traduttrice, disegnatrice, critica letteraria e teatrale, giornalista, militante comunista e prima prigioniera politica donna del Brasile. La sua straordinaria biografia e le sue opere sono mal conosciute in Brasile e praticamente ignorate altrove. Ripercorrendo la sua storia, i suoi viaggi e i suoi scritti, si vorrebbe sfatare miti e stereotipi costruiti su di lei: da quello della giovane ingenua, trasgressiva e ribelle, a quello di una “musa tragica”, disillusa dopo anni di carcere e delusioni della vita politica.
La storia e le opere di Patrícia Galvão (1910-1962) sono mal conosciute in Brasile e praticamente ignorate altrove (nessuno dei suoi scritti è mai stato tradotto in italiano)[1]. Femminista, scrittrice, instancabile traduttrice, disegnatrice, critica letteraria e teatrale, giornalista, corrispondente per tre giornali brasiliani durante il suo viaggio per il mondo (Stati Uniti, Giappone, Cina, Unione Sovietica, Germania e Francia), militante comunista imprigionata per cinque anni durante la dittatura Vargas, tra il 1935 e il 1940, una delle prime donne a sviluppare una forte critica del Partito Comunista Brasiliano da una prospettiva femminista che, precocemente, si differenziò dall’allora egemone femminismo borghese legato alla figura di Bertha Lutz.
Proprio per l’immeritato oblio in cui sono state per molto tempo confinate, la sua storia e la sua produzione suscitano particolare interesse e molte domande. In Brasile, solo a partire dagli anni Ottanta si cominciò timidamente a scrivere di lei e solo nel 2004 un’incredibile quantità di suoi documenti, foto e lettere vennero per caso ritrovati in un bidone della spazzatura di un quartiere di São Paulo (la donna che li trovò, percependo il valore storico del materiale, si preoccupò di raccoglierlo e depositarlo personalmente presso l’università di Campinas).
In Brasile le narrazioni della sua biografia assunsero però, fin dall’inizio, contorni mitologici tanto da ostacolare una reale e più complessa valorizzazione della sua traiettoria intellettuale. Da un lato divenne celebre l’immagine libertaria della giovane e affascinante “Pagu” – pseudonimo di successo con cui fu soprannominata dal poeta modernista Raul Bopp – donna provocatrice e anticonformista rispetto alle regole conservatrici degli anni Venti e Trenta, icona di trasgressione destinata a essere “glamourizzata” in mini-serie televisive, spettacoli, canzoni, insegne di negozi; dall’altro la sua figura venne associata a quella di una “musa tragica della rivoluzione”, come la definì il poeta Carlos Drummond de Andrade, donna matura e malinconica, militante sconfitta e disillusa in età adulta tanto da tentare più volte il suicidio (visione che finì sia per confermare, come da copione, l’idea di un’incosciente giovinezza ribelle domata ed educata nell’età “matura”, sia per rileggere la sua storia riconducendola al modello classico della fragilità, fisica ed emotiva, attribuita per natura al proprio essere donna). Queste due narrazioni si svilupparono parallelamente – molto spesso si combinarono, come nel film Eternamente Pagu realizzato da Norma Bengell – mitizzando l’“intrigante personalità” a discapito di un interesse reale per la sua produzione e la sua complessa esperienza di vita che avesse l’intento di non perderne le eredità e l’attualità per la riflessione presente. Persino molte ricerche condotte più recentemente non sono immuni dal riproporre queste visioni stereotipate.
Chi scrive, lungi dal credere che una storia di vita sia ricostruibile secondo precise categorie sintetizzatrici, pensa che siano molte, mutevoli e contraddittorie le anime – e i demoni – che abitano ciascuno. Sicuramente molte quelle di Patrícia Galvão.
“Eh Pagu eh!”, recitano i versi scritti dal poeta Raul Bopp a lei dedicati, i versi che le conferirono il famoso soprannome. “Passa e mi attira con gli occhi, provocantissimamente”[2]. Le evocazioni più note della giovane Pagu celebrano, infatti, la sua sensualità incantatrice. A soli diciotto anni, nel 1929, già frequentava il gruppo di artisti modernisti che diede vita al movimento culturale dell’Antropofagia[3] e che aveva precedentemente contribuito a organizzare, insieme a molti altri artisti, la Semana de Arte Moderna del 1922[4]. Il famoso Manifesto Antropófago[5] dello scrittore modernista Oswald de Andrade, che inaugurerà il movimento, venne pubblicato nel primo numero della Revista de Antropofagia, creata per diffondere le nuove idee avanguardiste. Dopo i primi dieci numeri, la rivista venne riformulata e Pagu cominciò a collaborare come disegnatrice. Nel giugno dello stesso anno partecipò a un grande evento nel Teatro Municipale di São Paulo in cui recitò poemi modernisti, incluso uno scritto da lei che diverrà parte del suo primo libro di poesie illustrate Álbum de Pagu: Nascimento, Vida, Paixão e Morte.
In questa fase l’immagine della giovanissima e appariscente Pagu oscilla da quella di una Musa ispiratrice a quella di un’irriverente mascotte la cui vivacità esaltava le atmosfere dei saloni di discussione paulisti. Furono in particolare Oswald de Andrade e la sua compagna dell’epoca, la pittrice Tarsila de Amaral, a coinvolgerla nel movimento, tanto che l’artista Flavio de Carvalho non esitò a definirla “bambola” personale della coppia d’artisti.[6]
L’attenzione di Oswald de Andrade non era però disinteressata: dopo essersi separato da Tarsila, sposò Patrícia e nel 1930 nacque il loro figlio Ruda. Relazione ritenuta scandalosa per la loro differenza di età (Oswald, già padre, aveva vent’anni più di lei), fece parlar molto di sé; l’anticonformismo che la caratterizzò da molti punti di vista non la rese però libera da sofferenze sulle quali Patrícia riuscirà a scrivere approfonditamente anni dopo la loro separazione.
Appena pochi mesi dopo il parto, Pagu riprese l’attività di giornalista e decise di partire per l’Argentina, staccandosi dal bambino, rimasto con il padre. Il pretesto era un convegno di poesia, l’obiettivo reale era invece quello di intervistare il comunista Luís Carlos Prestes, rifugiato a Buenos Aires, a cui doveva consegnare una lettera. Racconta di questo lungo incontro come di una folgorazione: “Prestes mi mostrò la purezza della convinzione”[7] (lo rincontrerà, in Uruguay, un anno dopo). Tornando in Brasile, nel dicembre dello stesso anno, si iscrisse al Partito Comunista e nel marzo del 1931 fondò, insieme a Oswald, il giornale O homem do povo, d’ispirazione comunista. Scriveva articoli, faceva disegni e vignette e curava la rubrica A mulher do povo in cui trattava tematiche relative alla sessualità, attaccava la morale sessuale dell’epoca e il femminismo elitista delle classi dominanti in nome del materialismo storico, sostenendo che solo la trasformazione globale delle relazioni sociali avrebbe ridefinito le condizioni mentali e materiali della società che vincolavano la donna all’inferiorità. Il giornale durò appena otto numeri, la polizia ne vietò presto la circolazione.
Nello stesso anno, come militante comunista, cominciò a partecipare alle assemblee dei lavoratori del porto nella città di Santos. Da loro fu scelta come principale oratrice per il comizio dello sciopero previsto il 23 agosto (data indetta anche per rendere omaggio alla memoria di Sacco e Vanzetti, condannati a morte lo stesso giorno di pochi anni prima). La situazione precipitò quando la cavalleria della polizia intervenne per bloccare il comizio e represse brutalmente i manifestanti. Uno dei lavoratori, a cui lei era più legata, le morirà tra le braccia, ferito da un colpo d’arma da fuoco; lei venne arrestata subito dopo: era la prima volta che, in Brasile, una donna veniva incarcerata per motivi politici. Diffamata dalla stampa di tutto il Paese, non trovò neanche il sostegno del suo partito che, al contrario, ne prese le distanze definendola “agitatrice sensazionalista e inesperta” e obbligandola a firmare, prima del suo rilascio, un documento in cui attribuiva solo a se stessa la responsabilità di quanto avvenuto quel giorno.
Nonostante la delusione, il suo impegno con il PCB continuò perché si convinse che restare era un sacrificio necessario per un fine ben più grande. L’anno successivo, separandosi di nuovo dal figlio, si trasferì a Rio de Janeiro proprio per volere del Partito: “L’organizzazione richiedeva la proletarizzazione di tutti i suoi membri […] Il prezzo da pagare era il mio sacrificio di madre […] rassegnarmi alla mancanza di notizie di mio figlio.”[8] La maternità fu per lei un’esperienza tumultuosa, subordinata ai disegni e all’agenda del Partito, in assoluta disobbedienza delle convenzioni familiari e dei bisogni materni, non senza molte sofferenze e altrettante condanne. Ma, scrisse, “La necessità della lotta nacque attivando tutta la rivolta latente della mia vita insoddisfatta”[9]. Passando a vivere in dormitori, cominciò a lavorare prima come proiezionista nelle sale di cinema, poi come operaia nel settore tessile e infine in quello metallurgico, fin quando non ebbe un pesante incidente sul lavoro e fu obbligata a curarsi e tornare a São Paulo. Le sensazioni raccontate dell’intensa esperienza di proletarizzazione richiamano moltissimo quelle di Simone Weil sul suo lavoro nella fabbrica della Renault, tra il 1934 e il 1935.
Senza sosta ricominciò a dedicarsi alla scrittura. Nel 1933 pubblicò il suo primo romanzo operaio, Parque Industrial, usando però lo pseudonimo di Mara Lobo, ancora una volta per volere del Partito.
Il romanzo racconta le condizioni di vita e lavoro degli operai – in particolare delle operaie – delle industrie del quartiere Brás di São Paulo, abitato principalmente da immigrati (quartiere in cui lei stessa visse fino a 16 anni). Strutturato quasi cinematograficamente, il testo è un susseguirsi di scene e frammenti che testimoniano il dramma della condizione femminile e operaia rivelata tramite personaggi come quello di Corina, licenziata per essere incinta, Matilde, buttata fuori per essersi rifiutata di “andare nella stanza del Capo”, Ming, costretta a “servire il tè con i baci al padrone”, e molte altre disgraziate, straziate da aborti clandestini o condotte all’omicidio per la disperazione.
L’indignazione violenta per l’ingiustizia, le denunce e accuse d’ipocrisie hanno precisi bersagli politici -“Tirano dal nostro seno l’ultima goccia di latte togliendola ai nostri figli, per vivere nello champagne e nel parassitismo”-. La scrittura è esposizione brutale dello sfruttamento, incitazione alla ribellione – “Che importa morire per un proiettile invece che morire di fame?” –, sfida ai miti di armonia brasiliani – “Il carnevale continua. Soffoca. Inganno degli sfruttati. Dei miserabili. Gli ultimi 500 Reais nell’ultimo bicchiere”– e sfida ai miti di coesione nazionale – “Patria… frode! Chi non ha patrimonio non ha patria!”. La guerra… frode! Difendere cosa? La proprietà dei ricchi?”-. In questo primo romanzo c’è tuttavia ancora molta fiducia nel Partito come guida e organizzazione capace di condurre alla rivoluzione sociale.
Nel 1934 le venne affidata l’ennesima missione totalizzante: recarsi in Russia come corrispondente, a proprie spese. Nonostante la sua condizione precaria, accettò. Il suo viaggio cominciò dagli Stati Uniti (visitò New Orleans, Galveston e Los Angeles, dove intervistò molti artisti tra cui George Raft, Estelle Taylor e Miriam Hopkins), proseguì poi per il Giappone e la Cina (in Manciuria assistette all’incoronazione dell’ultimo imperatore Pu-Yi), infine verso Mosca, viaggiando otto giorni in Transiberiana (durante il viaggio incontrò e intervistò anche Sigmund Freud). Questo primo itinerario fu però segnato da una profonda disillusione che crebbe e si manifestò esplicitamente all’ingresso in Unione Sovietica: “L’ideale crollò, in Russia […] A Mosca, hotel di lusso per gli alti burocrati… In strada, bambini morti di fame: era il regime comunista.”[10] Si spostò poi verso Parigi, passando per la Germania. Lì conobbe e frequentò i surrealisti Breton, Grevel, Peret ed ebbe un rapporto stretto con il poeta René Crevel che si suicidò quello stesso anno, telefonandole proprio poco prima di togliersi la vita, episodio che la segnò molto (lo ricorderà in un articolo del 1947 O surrealista René Crevel). Partecipò alle discussioni sull’arte rivoluzionaria e sul ruolo dell’intellettuale, prima del Congresso degli scrittori del ’35 che determinò l’adesione di molti al realismo socialista e la rottura dei surrealisti con il PC sovietico. A Parigi frequentò inoltre l’Université Populaire, lavorò come traduttrice e come redattrice de L’Avant-Garde, militando nel Partito Comunista Francese con il falso nome di Leonnie. Partecipò alle manifestazioni del Front Populaire e fu gravemente ferita (passò tre mesi in ospedale). A seguito della terza incarcerazione, nel 1935, sarà rimpatriata grazie all’intervento dell’ambasciatore brasiliano che le evitò la deportazione in Germania o in Italia.
Tornata in Brasile, dopo neanche un anno, venne imprigionata dal Tribunale di Sicurezza Nazionale per aver partecipato all’Intentona Cumunista[11] contro il governo di Getulio Vargas; fu condannata per “crimine contro la sicurezza politica e sociale”. Dopo mesi riuscì a fuggire dal carcere di São Paulo ma fu nuovamente incarcerata nel 1937. Trasferita in una prigione di Rio de Janeiro, ne uscirà solo nel giugno del 1940, malata e pesando 44 chili, inoltre sei mesi dopo la data di liberazione prevista per essersi rifiutata di rendere omaggio al rappresentante dello Stato federale in visita alla prigione. Sulle innumerevoli incarcerazioni subite scrisse poi: “La prigione non aveva importanza per me, se non fosse perché paralizzava il lavoro cominciato. Ho sempre pensato che anche in prigione si poteva lottare. Mi tormentava la mancanza di comunicazione, l’assenza di notizia dei compagni. Non sentivo nessuna umiliazione. E, in fondo, forse provavo persino allegria all’idea che quella sofferenza era proporzionata alla mia lotta”[12].
“Altri furono uccisi. Passai anche per questa prova. […] Adesso, esco dal tunnel. Ho molte cicatrici, ma sono viva”[13], scriveva allo scadere degli anni di detenzione, nella lettera al compagno e scrittore Geraldo Ferraz a cui si era legata appena tornata in Brasile, dopo essersi separata da Oswald de Andrade. Questa lunga lettera, in parte scritta nella sua cella, è in realtà un regolamento di conti con il Partito Comunista, da cui uscirà subito dopo la prigione, ma anche, e soprattutto, un racconto della sua militanza e di sé, una ricostruzione frammentata della sua infanzia, dei suoi due aborti, dell’amore per suo figlio, della maternità sofferta nella distanza. Molte pagine sono poi dedicate al rapporto tormentato con lo scrittore Oswald de Andrade, per le sue numerose relazioni sessuali vissute fin dall’inizio per il piacere dell’apparenza mondana ma con la “brutalità della franchezza” – “il mio ringraziamento va all’uomo che non mi ha mai offesa con la pietà”– e per aver vissuto una relazione di sola fascinazione e priva d’amore – “Sapevo che Oswald non mi amava. Aveva per me l’entusiasmo che si prova per la vivacità o per una furfanteria ben riuscita. Lui ammirava il mio coraggio distruttivo e la mia personalità apparente”[14]; “Non amavo Oswald, volevo qualcosa di più profondo, più vero”-. La lettera è, inoltre, una profonda riflessione sulla sua sessualità e sulla condizione di donna – “Sono sempre stata vista come un sesso. Mi sono abituata a essere vista così. […] Ci sono stati momenti in cui ho maledetto la mia condizione femminile […]. Se fossi uomo, forse potrei camminare più tranquilla per le strade”[15]– come anche sul sessismo vissuto nel Partito, forzata a servirsi del suo corpo per ottenere informazioni: “Mandatemi a uccidere Getulio o il demonio. Mandatemi ad appiccare fuoco alla polizia o ad affrontare l’esercito intero. Sparare nell’Avenida o essere uccisa in un comizio. Ma non a prender parte a pagliacciate ridicole, con il sesso aperto a tutti”[16].
Questa lunga lettera autobiografica è stata pubblicata solo nel 2005 (probabilmente anche a causa delle dichiarazioni sulla vita intima del popolare scrittore Oswald de Andrade che rischiavano di screditarne la memoria e comprometterne la fama), con il titolo Paixão Pagu: A autobiografia precoce de Patrícia Galvão. Un testo emozionante, di notevole bellezza letteraria. Nonostante si percepiscano la malinconia, la delusione e il senso del sacrificio – termine che ricorre spesso -, la lettera è una forte promessa di vita e futuro che mantiene viva la disposizione alla lotta.
Dopo essere uscita di prigione Patrícia tentò il suicidio, sebbene avesse ripreso, apparentemente con lo stesso vigore di sempre, il suo lavoro giornalistico e molto altro. Nel 1941 nacque il suo secondo figlio; nel 1945, insieme al compagno Geraldo Ferraz, pubblicò il romanzo A Famosa Revista in cui denunciava contraddizioni e mali del Partito Comunista Brasiliano. Dal 1946 al 1948 scrisse nel supplemento letterario di O Diário de São Paulo e tradusse, per il giornale Vanguarda Socialista, il Manifesto per un’arte rivoluzionaria indipendente di Breton e Trotski. Negli anni Cinquanta si dedicò moltissimo alla critica letteraria e alla traduzione. Scrisse su Baudelaire, Artaud, Breton, Blaise Cendrars, Apollinaire, Lautréamont, Rilke, Proust, Valéry, Mann, Joyce, Kafka, Svevo, Pirandello, Cocteau, Henry Muller, Fernando Pessoa, Maiakovski, Stravinsky, Sshöemberg ecc., molti dei quali quasi sconosciuti in Brasile. Pubblicò dei racconti con lo pseudonimo di King Shelter e scrisse inoltre di teatro, di quello sperimentale di Becket, Ionesco e Jarru, e di quello poetico di Lorca, Tardieu e Otávio Paz. Iniziò a frequentare la Scuola di Arte Drammatica di São Paulo e successivamente si adoperò per la creazione di un Teatro Municipale nella città di Santos, come anche di varie altre associazioni culturali. Negli anni Cinquanta tentò inoltre di candidarsi con il Partito Socialista, senza essere eletta, per l’Assemblea Legislativa dello Stato di São Paulo. Nel testo Verdade e Liberdade, pubblicato nel 1950, racconta questa scelta e questo tentativo di riavvicinarsi alla politica. Malata di cancro, fece l’ultimo viaggio, a Parigi, per essere operata. Senza esiti positivi, tentò di nuovo il suicidio; rientrò poi in Brasile dove morì nel 1962. L’ultimo testo scritto è una poesia, bellissima, intitolata Nothing.
Sembra difficile valutare criticamente il lavoro di Patrícia Galvão senza mitizzarlo o mistificarlo lasciandosi condizionare dall’incredibile bellezza, dal fascino e dalla turbolenza degli avvenimenti che disegnarono la sua traiettoria di vita. Il poeta Augusto de Campos, curatore del testo Pagu: Vida-Obra che ha contribuito alla sua riscoperta, usa proprio i concetti di operavita e vitaopera per analizzare l’eredità di Pagu, con l’intento di evitare di cadere nell’elogio della sua straordinaria biografia o, all’opposto, nella rivalutazione legata esclusivamente alle sue opere. Quando fu pubblicato questo libro, tuttavia, nessuno era a conoscenza del prezioso testo memorialistico di Patrícia che, per certi versi, illumina la comprensione del suo percorso, restituendone la complessità, gli errori, le oscurità e, dunque, allontanando visioni stereotipate e immagini mitizzanti. Questa lettera è fondamentale anche per l’interpretazione del ruolo che la scrittura, come creazione guidata da un impulso trasformatore, ha avuto nella sua vita, nella militanza e nel difficile periodo della prigione: “Non sempre ho potuto scrivere. […] È molto difficile retrocedere quando ciò vuol dire un passaggio violento da uno stato all’altro. Passare di nuovo attraverso lo stesso cammino oscuro percorso… […] Ma ho bisogno di scrivere oggi”[17]. E se il racconto di sé non è slegato da una, più o meno latente, volontà di ri-costruzione di identità e di personalissima ri-lettura degli avvenimenti, certamente lascia trasparire, attraverso la forma e la forza della propria scrittura, gran parte dell’orizzonte di idee e visioni attraverso cui si cerca di dare un senso al proprio cammino. Inoltre, Paixão Pagu è forse uno dei testi più preziosi lasciati da Patrícia Galvão perché, oltre che racconto biografico, è un documento delle difficoltà affrontate da una donna, attivista e femminista, in un complesso periodo storico del Brasile che, per certi versi, conserva affinità con la contemporaneità brasiliana e lascia in eredità vecchie problematiche, ancora sfide per i movimenti femministi brasiliani: il sessismo malcelato anche nei movimenti militanti, le disuguaglianze di genere e “razza” negate da una radicata mitologia della democrazia razziale e dell’armonia sociale, le tragedie degli aborti clandestini (nell’assenza di legalizzazione, si registrano circa 1.500.000 aborti clandestini l’anno, secondo le statistiche del 2015)[18], il moralismo ma anche l’omofobia e la trasnfobia mascherati dall’ideologia della sessualità aperta e disinibita (il Brasile risulta essere, secondo la ONG Transgender Europe, il Paese che uccide più transessuali al mondo, 127 solo nel 2016).
Per tutto ciò le riflessioni e il vissuto di Patrícia Galvão sono preziosi e da preservare nei conflitti di memoria in cui le voci subiscono i capricci del tempo, gli addomesticamenti autoritari, le più stravaganti stereotipizzazioni. Il suo “coraggio distruttivo” davanti a violenze e sopraffazioni subite è potentissimo e non può essere affievolito da bilanci semplicistici della sua vita, sintetizzati nell’idea di rinuncia e di disillusione finale. L’immagine di una “musa tragica” non rende giustizia a Patrícia Galvão, all’energia, alla curiosità, al talento e alla ricerca che sono stati motore primo della sua strada. Il vitalismo che emerge dalla sua storia e dalla sua scrittura non è meno forte o meno vero perché accompagnato da un canto malinconico, forse tormentato, dell’esistenza.
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[1] Tutte le traduzioni riportate sono mie.
[2] Traduzione mia; Versi della poesia “Coco de Pagu” di Raul Bopp.
[3] Sulla storia del movimento Antropofago rimando a un mio articolo Un viaggio nella cultura brasiliana antropofaga dal 1922 a oggi: https://botequins.wordpress.com/2016/03/18/un-viaggio-nella-cultura-antropofaga-brasiliana-dal-1922-a-oggi/
[4] Una settimana di concerti, eventi, mostre e letture che fonda il movimento modernista, considerato uno spartiacque nella storia della cultura brasiliana. Un gruppo di artisti (tra cui Mario de Andrade, Graça Aranha, Menotti del Picchia, Anita Malfatti, Heitor Villa-Lobos ecc.), influenzato dal clima d’agitazione culturale legato alle avanguardie europee, si fece portavoce di un desiderio di rottura con la tradizione accademica e di creazione di una nuova arte che non fosse imitazione dei modelli importati dall’Europa e calati nel differente contesto sudamericano.
[5] Qui una traduzione italiana: http://www.sagarana.it/rivista/numero17/saggio4.html
[6] Augusto de Campos (a cura di), Pagu: vida-obra, São Paulo, Brasiliense, 1982, p. 320.
[7] Geraldo Galvão Ferraz (a cura di), Paixão Pagu: A autobiografia precoce de Patrícia Galvão, Rio de Janeiro, Agir, 2005, p. 74.
[8] Ivi, p. 95.
[9] Ivi, p. 70.
[10] Augusto de Campos (a cura di), Pagu: vida-obra, São Paulo, Brasiliense, 1982, p. 189; estratto dal testo Verdade e Liberdade pubblicato nel 1950.
[11] L’Intentona Comunista fu una ribellione che ebbe luogo nel 1935 guidata da l’Aliança Nacional Libertadora (ANL) e del capitano dell’esercito Luís Carlos Prestes, leader comunista. Nonostante fosse stata appoggiata da diversi battaglioni, la rivolta fu soffocata dalle forze rimaste leali al governo di Getúlio Vargas.
[12] Geraldo Galvão Ferraz (a cura di), Paixão Pagu: A autobiografia precoce de Patrícia Galvão, Rio de Janeiro, Agir, 2005, pp. 90-91.
[13] Augusto de Campos (a cura di), Pagu: vida-obra, São Paulo, Brasiliense, 1982, p. 189; estratto dal testo Verdade e Liberdade pubblicato nel 1950.
[14] Geraldo Galvão Ferraz (a cura di), Paixão Pagu: A autobiografia precoce de Patrícia Galvão, Rio de Janeiro, Agir, 2005, p. 62.
[15] Ivi, p. 139.
[16] Ivi. p. 127.
[17] Geraldo Galvão Ferraz (a cura di), Paixão Pagu: A autobiografia precoce de Patrícia Galvão, Rio de Janeiro, Agir, 2005, pp. 64 e 65.
[18] Statistiche pubblicate nel documento redatto dalla Commissione dei Diritti Umani del Senato Federale: Estatísticas do Aborto, AUDIÊNCIA PÚBLICA Comissão de Direitos Humanos Senado Federal, 5 de maio de 2015.
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Alessia Di Eugenio. Laureata in Filosofia, ha svolto periodi di studio in Francia e in Brasile. Innamorata di Rio de Janeiro, ci è più volte tornata per brevi periodi di ricerca. Attualmente svolge un dottorato a Bologna in Studi Letterari e Culturali brasiliani, lavorando su modernismo e Antropofagia culturale. Collabora con la casa editrice Edizioni La Linea e con l’agenzia di editoria digitale Lilith. Ha inoltre insegnato in alcune scuole di italiano per stranieri e partecipato a progetti di scrittura creativa realizzati nelle scuole. Curatrice e traduttrice dell’edizione italiana del progetto Fiabe Migranti. La scrittura è una delle sue passioni, insieme al canto.
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Immagine9: Archivio Edgard Leuenroth/Unicamp http://www.infoescola.com/biografias/pagu/