da: “Elevator” (Lucia Grassiccia)

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Dal capitolo Un giovane portiere (anni e anni prima, quaranta per essere precisi)

 

La sera mi tiene compagnia l’abat-jour sul comodino, che negli ultimi tempi trema per un difetto della lampadina e rende più vivaci, calde le mie letture. Gli oggetti rotti suscitano della tenerezza e della nostalgia.

Il neurologo americano Oliver Sacks scrive di un neurologo cinese secondo cui Dmitrij Šostakovič sentiva delle musiche grazie a un frammento di granata ficcato nel cervello. Un frammento mobile, che si spostava quando Šostakovič inclinava la testa da un lato. Ma non erano allucinazioni, le sue, ciò che sentiva lì dentro era reale, quando la scheggia tamponava sulla zona musicale del lobo temporale; produceva delle melodie che chiunque altro probabilmente avrebbe sentito, magari non perfettamente identiche, se avesse avuto in quel punto esatto del cervello un frammento di granata. E Šostakovič non voleva che gli estraessero quel cosino a disposizione del suo genio musicale. Che incredibile storia, che una scheggia catapultata dall’orrore di una guerra nel lobo temporale non sia un fastidioso corpo estraneo, una presenza difficile. Che possa non essere una forma d’intrusione ma anzi che possa stimolare il genio creativo solo inclinando il capo. Occorre forse essere dotati di una malattia, per essere dotati. Vorrei che il neurologo americano, tramite il neurologo cinese svelasse quali note sul violoncello derivano dal frammento accidentale, vorrei che la bellezza del caso si lasciasse vedere nuda.

La luce fa tremare i muri della stanza.

Con tutta quella fretta, dove andavi?

Tremo anch’io. Accarezzo la copertina del libro unendo le due metà, è rigida e provoca nelle pagine un rumore antico. È bene che dorma adesso, perlustro il buio intorno a me. Annuso l’aria profondamente, mi chiedo se sia viziata, mi rispondo che ci sono dentro da almeno due ore e non posso capirlo. Domattina. Ho puntato la sveglia? Sì, l’ho puntata. Ieri un tizio al bar mi ha dato in resto due euro in più e io ho fatto finta di niente. Non se n’è accorto. E se avesse voluto mettermi alla prova? Che caldo ai piedi, striscio le gambe dove il lenzuolo è più fresco, abbraccio forte il cuscino, lo spingo con la fronte, potrei bucarlo d’insonnia e sudore. Due euro e cinquanta, a dire il vero, non solo due euro. Mi sdraio a pancia in giù. In fondo due euro e cinquanta non sono molti. Ma cosa c’entra? È una di quelle famose questioni di principio. Mi alzo, guardo nel frigorifero e mi verso un bicchiere di latte, scarso. Mi siedo al tavolo della cucina, dove sta il cellulare. Illumino lo schermo per controllare l’ora, sono le due e qualcosa, mi tiro i capelli verso la nuca. Il latte a quest’ora della notte ha un gusto diverso che al mattino, sembra più freddo e solido, ma qualche volta mi succede di berlo. E comunque dovrò fare qualcosa. Lo trangugio, qualche goccia mi scivola sugli angoli della bocca, ho voglia di ascoltare Šostakovič. Torno in camera da letto e faccio girare la Ballet Suite Op. 27a, The Bolt, Variation nello stereo, a volume moderato per non disturbare i vicini. Sbircio le mura interne del condominio attraverso la finestra, hanno un colore a cui non sono in grado di dare un nome, soprattutto al buio. Rimango dietro la tendina. Tutte le luci sono spente, almeno sulle facciate che posso vedere. Il tuo appartamento è un piano sotto di me, invisibile da qui, è sul mio stesso lato. Chissà se sei rincasata e se ancora lasci dietro di te lo stesso profumo, dovrà essersi versato per i tuoi tragitti.

Attraverso la Ballet Suite Op. 27 sento il racconto di un’ostinazione allegra, mi sembra di veder marciare delle bambinette vestite di rosso e di nero, che reggono delle trombe. Poi una distesa di fili colorati che inseguono gli alti e i bassi. Una granata finisce in mezzo alle bambinette in fila come soldati e c’è un’esplosione, e un frammento di quella granata vola fino al cervello di Šostakovič che dirige l’orchestra più fervente di prima.

Il buio è ancora più buio, mi tuffo nel letto e dopo un tempo che forse è un’ora o forse mezza mi addormento, prima o poi il disco nello stereo smetterà di girare.

(dallo stesso capitolo, Un giovane portiere (anni e anni prima, quaranta per essere precisi) )

 

 

Escono, tornano, vanno. Gli abitanti del condominio esplorano il mondo lontano da qui, incuranti del loro primo habitat, come se quelle che tirano lo sciacquone al piano di sopra, come se anche quelle non fossero persone tanto quanto la gente che incontreranno là fuori. C’è un vaso con un geranio sul davanzale della mia finestra, in portineria, è un geranio pendente e i rami si riversano sulla parete esterna. Qualche volta, dopo tanto tempo, torno a guardarlo. Adesso è in fiore, i suoi fiori sono fucsia, screziati di viola. Non lo trovo particolarmente bello, ma non vorrei mai fare del male a questo geranio fucsia screziato. Devo ammettere che in fiore fa una certa figura. Quando alzo la testa per guardare chi va e chi viene, il geranio è a metà strada fra me e gli altri, così inevitabilmente finisce nel mio campo visivo. Distrae le mie letture più a lungo, mi ritrovo ad osservare i fiori contro i corpi dei condomini che arrivano o escono entro i lati della piccola finestra, e mi salutano a volte. Mi chiedo se esista una relazione tra questi corpi e questi fiori, se non siano in fondo un po’ la stessa cosa. Nella loro forza comune di sopravvivere per tutto l’anno, nella sensibilità del cominciare a venir fuori solo in primavera, e a venire del tutto fuori solo in estate, e il resto dell’anno lavorare alla preparazione di questa pubblica esposizione di sé. Anche quando fuori di casa, le persone non sono sempre disponibili agli sguardi, così se ne stanno dentro, accartocciate nei loro corpi, senza curiosare né profumare. Un filo di vento si muove nell’atrio e fa vibrare i petali del geranio, mi dico che le vecchine dei paesini del sud non hanno tutti i torti a passare la loro vita guardando fuori dalla finestra, ferme, c’è sempre così tanto da osservare. Da una finestra sembra di poter vedere il tempo scorrere solo attraverso lo sguardo, senza bisogno di ore.

Ti ho detto una bugia, ragazza dolce cui tutte fanno un baffo, non è vero che mi annoio. Mi annoio, ma solo un poco. Faccio il mio lavoro, un lavoro semplice e poco esigente, che però ha il pregio di non intralciare le mie giornate. Non mi è ancora chiaro se sia stato io a sceglierlo, ma mi permette di leggere tanto e di ascoltare tanta musica, questo mi sta bene perché non potrei farne a meno. Cosa sarebbe la mia giornata senza un ascolto profondo, non so. Anche la lettura è un ascolto profondo, così come ascoltare musica è leggere un sentire, e io ho un grande bisogno di riempirmi di bellezza, ragazza dolce cui tutte fanno un baffo. Non è che lavori qui e legga e ascolti i miei dischi per passare il tempo, ma leggo e ascolto i miei dischi e nel frattempo posso anche guadagnare quel che basta. Forse un giorno sarò io a scrivere dopo aver tanto letto, ma non è importante, sono già state scritte così tante cose che nessuno si accorgerebbe di me. E adesso improvvisamente ho trovato te, che mi riempi di bellezza fino all’orlo.

 

 

 

(Dal capitolo Level 000000 (come te, che sei e sei tutto))

 

 

Di nuovo quaggiù, al piano zero. Il pavimento qui è più sporco, il muro all’angolo è sgretolato a tappe dall’umidità. Mi sembra di soffocare, mi sembra che l’aria cominci a deviare dalle mie vicinanze. Qui non si respira granché bene, qui lei è più lontana, la tendenza non può realizzarsi.

Una delle cose più complicate è trovare una linea di demarcazione tra me e lei, ma non è possibile separare due incastri senza conseguenze catastrofiche.

Tu, tu non sei che l’assassina di ogni mia speranza.

Tu modelli il mio volere e poi lo annulli nelle tue periferie.

Tu sbrani gli avanzi della mia identità, ne macelli ogni forza ed equilibrio.

Tu magnetizzi i miei liquidi, li sottrai dal mio organismo bevendo dalla bocca.

Tu serpe pericolosa e desiderata. Non mi chiedi di fare attenzione.

Tu però mi aspetti, mi accogli per darmi tutto il bene e tutto il male. Ma tutto davvero.

Tu che prendi le sembianze del silenzio, che nessuno ha mai ascoltato ma di cui non si dubita. Nonostante ogni tua volontà, ci sei.

Tu calpesti il tentativo della rivalsa e rinneghi quello della vergogna.

Tu mi tiri dalla tua parte, per la pelle e per il sogno.

Tu meglio di una bugia, non inizi mai ad essere reale.

Tu trasformi il mio corpo in tuo possesso.

Tu, Jenny delle Spelonche, sei il tradimento più sincero e ragazzino.

Tu sei un racconto scritto dal mio inchiostro.

Tu sei sempre il segmento opportuno in cui perdersi.

Tu sei buona e non prometti nulla di buono.

Tu sei la sola a masticare i miei bisogni, per sputare il nocciolo quando ti pare.

Tu non ti accorgi di me, mentre mi uccidi.

Tu sei la condanna non modificabile, che non lascia scampo.

Tu sei il colpo di grazia nel mio corpo, di grazia.

Tu potresti soffiare una sola volta e così tenermi in vita.

Tu prosegui qui da me.

 

(Dal capitolo Level 0000   (come due paia di palle, sgonfie))

 

 

Comunque non si sta così male in una gabbia. Sei dentro, chiuso nel tuo mondo con quella poca aria di cui hai bisogno, ma hai l’esterno sott’occhio, lì a un passo e sempre visibile. Anche l’esterno finisce per essere tuo. Così puoi dire di non essere proprio fuori dal mondo, che ancora ti tiene incastrato in mezzo ai suoi viluppi.

Qui io provo ad annoiarmi, provo a credere che questo metro quadro di spazio potrebbe non essere adatto a ospitare un uomo. Le spalle sono curve da giorni, lunghi giorni e lunghe notti hanno trascorso contratte a sostenere una testa pesante. Ma un lungo giorno, una lunga notte non sono niente, la vita non è che un istante. In un’altra circostanza avrei provato dolore per via delle posizioni prolungate che di rado trovano voce in capitolo nella mia mente. In questo caso niente dolore, perché la pelle i muscoli le ossa hanno cessato le loro funzioni. Dentro ogni cosa si è sgonfiata, ha smarrito il suo volume, smarrito la sua presenza e i suoi motivi, la sua materia e i suoi liquidi vitali, asciugati e fatti polvere, rubati poi dal vento. È come se d’un colpo fosse arrivato uno spillo, come per scherzo, uno spillo giunto da sorgenti ignote; lo avessero piantato sulla pelle e così tutto saltato in aria, la pelle si buca e non ha nemmeno la forza di esplodere, perde tutta la sua coesione, si affloscia, si rende la sostanza più floscia e inutile. Ecco, succede quando non c’è più nulla su cui la pelle possa poggiare, nulla attorno a cui il suo tessuto possa stendersi e rilassarsi.

Mi copro con questa coperta come se fosse la mia nuova pelle, mi protegge fino ai piedi, prova a tenermi caldo come una mamma col suo latte e le sue braccia. Vorrei che ci riuscisse. Ma ogni cosa si è sgonfiata, non c’è niente che possa poggiare perché manca il piano d’appoggio, e così non c’è niente da accarezzare, niente da lisciare, niente da strofinare, o a cui poter fare del male. Qualche volta, vivendo, mi è capitato di ricordarmi di punto in bianco, per qualche motivo, di avere un corpo, di maledirlo anche. Magari un mal di denti, di quelli che fanno strizzare gli occhi e fanno venire un cerchio alla testa. Magari anche solo un dolore alla testa senza mal di denti e occhi strizzati. Il dolore, il fastidio mi riportavano in mente il fatto che quei denti, quella testa mi appartenessero, fossero un pezzetto di me, esisteva una connessione innegabile tra me e quegli agglomerati di cellule fermentanti.

Poi succede che le connessioni, tutte le connessioni, si spezzino. Un black-out. Capita che il mio campo visivo contenga qualcuno di quegli agglomerati. Un braccio, un gomito, una gamba, un pene. Ma gli occhi pur incontrandoli non li riconoscono nemmeno, i vecchi fratelli, non li vedono nemmeno, perché c’è una sola immagine impressa nella cornea, e non lascia spazio a nient’altro. È l’immagine di lei, il suo volto, i suoi capelli. Adesso sono il mio nutrimento, sono ciò che mi tiene in vita, diciamo vita. Ogni altra cosa può esistere solo come immagine di sfondo, nient’altro che sfondo.

Non avverto più la presenza delle membra, in quanto non ne ho il bisogno, ma avverto che tendono a lei. Ogni brandello del mio essere tende a lei, è puntato come una freccia verso l’idea che la contiene. È la sola connessione rimasta, la sola consentita, la sola utile.

Lei è qui, dove sono io, non c’è distanza.

Lei è dove il mio pensiero la fa vivere, dove la rende ancora possibile, dove la rende ossessione, ma un’ossessione talmente dolce da non volerne fare a meno.

Lei è dove le palpebre sono aperte e dove le palpebre sono chiuse.

Lei è dove fa la bua.

Lei è dove esiste uno spazio.

Lei è anche dove non c’è abbastanza spazio.

Lei è dove l’occhio stanco non si chiude mai.

Lei è dove il respiro si ferma e non sa più ripartire.

Lei è dove il mio nome ha ancora un senso.

Lei è al di qua e al di là dell’orizzonte.

Lei è l’orizzonte.

(Dal capitolo Spero di non avere più sogni)

 

 

 

Piove, è una notte senza freddo e senza caldo. I temporali portano un’energia satura di odori. Ma cos’avrà da cadere tanto la pioggia? Per fare un po’ di rumore, cade; per trasformarsi, cade. Cade per lasciare che qualche moscerino anneghi nelle pozzanghere e poi farlo tornare a respirare quando l’acqua evapora. Quando è già morto. E poi la pioggia cade per mescolarsi agli altri suoni e buffi rumori del quartiere, come il pianto di un bambino o il tifo per un torneo di calcio, una sirena che avanza col suo occhio blu e si riflette sull’asfalto. E tutto appare incastonato in una freschezza liquida, tutto si scrosta e passa.

Stare lì a chiedersi davanti a una tazzina di caffè se c’è abbastanza tempo, abbastanza tempo per fare niente. E questo ne fa già perdere una parte. Per fare niente non c’è mai tempo. C’è da fare adesso, dopo, dopo, c’è sempre qualcosa da fare. Ecco, dovevo perdere del tempo, che tanto non mi serviva più. Non è niente male avere del tempo da perdere. E adesso, anche se sono fermo in una stanza sconosciuta, andrò a scrivere da qualche parte sulla battigia, o in una pagina, o nel mio segreto che sono felice, anche se non è vero. No, adesso scriverò che sono infelice, anche se non è vero. Nessuno leggerà ma non conta, perché scrivo dopo aver provato e non prima che si legga. Infelice, felice.. sono parole senza immagini. So che mi hai fatto vivere col cuore in gola, ragazza dolce cui tutte fanno un baffo, questa non è solo un’immagine. Era ciò che desideravo, e non si possono avere due desideri, è solo uno il desiderio di una vita. Per due non ci sarebbe abbastanza tempo o pazienza.

Questa è una notte senza freddo e senza caldo, il buio azzurrognolo è bagnato dalla pioggia. Sarebbe perfetta per ascoltare un’opera lirica. È una notte in cui si sente solo un rumore come quello che fanno le bollicine di birra che scoppiano sulla lingua, bevendo. È proprio una notte che ha qualcosa di speciale, questa. Ma adesso mi sento così sopraffatto dal sonno, come se una grossa bestia si fosse appollaiata sopra la mia testa e a forza cercasse di abbassarmi le palpebre. Adesso sono stanco.

 

Non è una consolazione la fine? Sì, lo è.

Non è anche triste la fine? Sì, lo è.

Spero di non avere più sogni, perché i sogni tengono prigionieri.

 

dal romanzo “Elevator”, Prospero ed. 2013, per gentile concessione dell’autrice.

 

 

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Lucia Grassiccia: Di professione arteterapeuta, attualmente vivo a Milano ma la mia terra è la Sicilia, e Modica (RG) la mia città (classe 1986). Inizio a scrivere articoli per il progetto sperimentale Hzine all’Accademia di Belle Arti di Catania, e per il quotidiano web Ondaiblea. Collaboro con il magazine Artribune per interrogarmi e interrogare sull’arte. Nel 2013 pubblico il mio primo romanzo, Elevator (Prospero Editore). Ho fondato e gestisco, ancora in collaborazione con Prospero Editore e ospitata nel suo sito web, la rubrica Letteratura Espressa: racconti nel tempo di un caffè. Alcuni miei racconti sono presenti in antologie edite da Fara e DeComporre; e inoltre due mie poesie sono ospitate nel volume antologico Sotto il cielo di Lampedusa (Rayuela). Uno dei miei più recenti progetti letterari, “ricreazione” si svolge in collaborazione con l’artista Angelo Formica http://ricreazione.tumblr.com. Non credo nei pettini.

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autrice a cura di Lucia Grassiccia.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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